BOUQUINS e BOUQUINISTE

Bouquinist
Sulla riva destra della Senna. Nel banchetto di questo bouquiniste adocchio il tomo (nuovo, non usato)  di mille e passa pagine di Eugène Sue “Le Juif Errant” edizioni Laffont, collana I Bouquins, che mi è molto simpatica perchè  relativamente economica, maneggevolissima e con ottime introduzioni ed apparati di note. Il prezzo alla bancarella, 9 Euro (sul sito della FNAC lo si trova, scontato, a 27,55 Euro).
Io adoro i feuilletons, I misteri di Parigi mi hanno  a suo tempo deliziata e già pregusto la lettura di questo tomone che mi riservo per il periodo di encefalogramma piatto  che sempre mi  coglie a  Ferragosto e dintorni 

Il libro di Sue
Dunque arraffo lesta il tomo e men vo per pagarlo dal signor bouquiniste, il quale posa sul muretto il libro che sta leggendo (la foto l’avevo scattata prima dell’acquisto) lasciandolo aperto alla pagina alla quale ha interrotto la lettura.

Ora. Si dà il caso che io quando vedo qualcuno con un libro in mano mi trasformo immediatamente in una voyeuse assatanata perchè muoio dalla curiosità di sapere cosa sta leggendo, e per scoprirlo spesso mi capita di fare le più assurde contorsioni e di girare gli occhi a rischio di diventare anche strabica.

Bene, cari i miei Happy Few. Lo so che non mi crederete mai, ma voglio dirvi lo stesso che m’è venuto un soprassalto  quando ho letto sull’intestazione di pagina … indovinate cosa?! Si, proprio Lui: “Marcel Proust”.

Nel mio francese parlato (che per mancanza di allenamento è normalmente men  che miserevole) gli ho farfugliato qualcosa come “Ma lei sta leggendo Proust?!” e lui mi ha fatto vedere che si trattava del saggio di Robert Soupault Marcel Proust, du côté de la médecine edito da Plon nel 1967 ed oggi reperibile solo nelle bancarelle o nelle librerie antiquarie.

Insomma, per farla breve: siccome quando si vuole davvero comunicare le parole si trovano, s’è scoperto che Proust era il suo autore preferito ed abbiamo amabilmente discettato per una diecina di minuti sul nostro amato.

… Ah, detto per inciso: a Parigi il 70% delle persone che si vedono sul metro, nei parchi, nei bar hanno un libro in mano e leggono, leggono, leggono… Leggono di tutto, da Tolstoj ai saggi ai romanzetti usa-e-getta. Ma insomma leggono. Lo so bene, ormai, ma è uno spettacolo che ogni volta che vado a Parigi mi colpisce sempre come la prima volta e non posso fare a meno di pensare a quello che non vedo in Italia…

MARCIAPIEDI PARIGINI

George et moi

Arieccomi con un  mio autoritratto in compagnia di quest’americano a Parigi   incontrato su un marciapiede nei dintorni  delle Halles e che ha voluto a tutti i costi offrirmi un caffè.

"What else?" diceva, il bel giovinottone 

Per il resto, lasciate che ritrovi la trebisonda  e soprattutto  il bagaglio che Alitalia mi ha regolarmente disperso nei meandri di Roma Fiumicino

PASSEGGIATE

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Care tutte e cari tutti, da domani stacco perchè sabato vado a fare una bella passeggiata   >>QUI e poi me ne vado a ciondolare qualche giorno   >>QUI.

Ma vi lascio in buona compagnia

LA DONNA CHE ASPETTAVA – ANDREI MAKINE

Copertina libro
Andrei MAKINE, La donna che aspettava (tit.orig. La Femme qui attendait), traduz. dal francese di Anna Maria Ferrero, p. 132, Einaudi collana Arcipelago, ISBN 88-06-17226-3
In copertina una foto di Allan Jenkins.

Andreï Makine è uno scrittore francese di origini russe (è nato in Siberia nel 1957), arrivato in Francia dalla ex Unione Sovietica nel 1987. Ha pubblicato parecchi romanzi con uno dei quali — Il testamento francese — ha vinto nel 1995 i prestigiosi Prix Goncourt ed il Prix Médicis.
Nominato anche membro dell’Academie Française è oggi considerato uno degli autori francesi contemporanei più interessanti.

Makine è un autore che mescola con una modalità molto singolare i due mondi lontanissimi della Francia e della Russia: è infatti un russo che scrive in francese, che vive ed è naturalizzato in Francia ma che ambienta  i suoi romanzi nella russia post-staliniana.

Questo La donna che aspettava — titolo originale La Femme qui attendait — è del 2004 ed è il suo primo romanzo che leggo. Ho già in lista gli altri perchè la lettura di questo libro mi ha catturata e sono decisa ad approfondire l’universo di quest’autore.

Il romanzo è ambientato negli anni Settanta ed è la storia — narrata in prima persona — di uno scrittore di Leningrado che a ventisei anni, stufo dei circoli di letteratura dissidente che frequenta e nell’attesa di terminare una sua satira sulla società sovietica, coglie al volo l’offerta di un collega di andare a Mirnoe, una sperduta cittadina della regione di Arcangelo, per fare una ricerca sui costumi locali in tema di cerimonie nuziali e funerarie. Qui incontra la quarantenne Vera.

La donna conduce una vita ritirata in una casupola vicino al Mar Bianco, fa la maestra elementare ma soprattutto si occupa delle vecchie del villaggio che la guerra ha reso vedove e sole al mondo. Vecchie che aspettano solo che la morte arrivi anche per loro.

Vera è la donna che aspettava: nel 1945 infatti, appena sedicenne, ha visto partire per la guerra il ragazzo che amava. Un primo amore mai più tornato ma che lei continua ad aspettare nonostante siano ormai trascorsi trent’anni.

Il romanzo racconta la fascinazione del narratore verso questa donna enigmatica: Vera ci appare soltanto attraverso lo sguardo del narratore e la sua immagine muta continuamente a seconda del mutamento dei sentimenti, delle percezioni, delle costruzioni mentali di lui. Non c’è dunque una sola Vera, nel libro, ma tante. Per esempio: con supponente convinzione il protagonista dà per scontato, vedendo alcuni libri di linguistica nella povera casetta di Vera, che si tratti di volumi da lei trovati in qualche casa abbandonata dei dintorni e esposti lì per una sorta di pretenziosa esibizione di arredamento… salvo poi scoprire che questa maestra elementare che va in giro a piedi nudi e con addosso un logoro cappotto militare ha condotto all’università di Leningrado lunghe e complesse ricerche di linguistica. Nella prima parte del romanzo, di Vera non sappiamo nulla se non che continua ad aspettare il suo uomo partito per la guerra. Nella seconda parte riceviamo invece molte informazioni ma le tante altre scoperte che il narratore fa (e noi con lui) rendono la conoscenza di questa donna, paradossalmente, sempre più sfuggente e inafferrabile.

Non riusciamo neanche ad essere certi delle vere ragioni dell’attesa: si tratta di una scelta consapevole di Vera oppure, molto più banalmente, la sua solitudine è dovuta al fatto che la guerra ha determinato, in quel villaggio alla periferia dell’impero, la scomparsa quasi totale degli uomini validi?

La critica di Makine alla realtà sovietica è feroce. I suoi abitanti sono ridotti a “ingranaggi assonnati” totalmente in preda a decisioni ed eventi di cui non possono essere protagonisti attivi, ma solo strumenti passivi e rassegnati.

Ancora più tetra è la vita a Mirnoe, luogo dove il tempo sembra essersi fermato e dove convivono i disastri prodotti dalla guerra e l’attesa rassegnata della morte. Molte le donne anziane accudite da Vera. Pochi i bambini che nascono, numerosissimi gli invalidi, gli alcolizzati, tante le famiglie distrutte.

Ma a mio parere la bellezza di questo libro sta altrove: nel lirismo delle descrizioni dei paesaggi, nella capacità di rendere la mutevolezza delle atmosfere psicologiche tra i due personaggi principali del romanzo e soprattutto, forse, nella affascinante inafferrabilità di Vera.

Perchè troppo spesso, ci dice Makine “le parole, spesso pretenziose e categoriche […] dissezionano, stabiliscono, classificano. Tutto diventa comprensibile e rassicurante […] Il mistero dell’altro è addomesticato”. In realtà, il tentativo di razionalizzare “è una specie di assassinio, perchè uccidiamo quella creatura infinita ed inesauribile che abbiamo incontrato. Preferiamo aver a che fare con una costruzione verbale piuttosto che con un essere vivente…” (p.3)

Andrei Makine

IL GRUPPO – MARY McCARTHY

Copertina libro
Mary McCarthy, Il gruppo, (tit. orig. The Group), traduz. Elena Dal Pra, p.350, Einaudi, collana ET, ISBN 978-88-06-18662-3

Quando questo romanzo di Mary McCarthy venne pubblicato in America, nel 1963, ebbe subito uno straordinario successo (più di cinque milioni di copie vendute) nonostante le polemiche spesso molto aspre suscitate anche tra molti intellettuali per i toni troppo espliciti con i quali venivano trattati temi come la sessualità femminile (omosessualità compresa), il rapporto con la maternità, il modo di allevare i figli. In Inghilterra, il libro fu persino censurato.

Grandissimo il successo in Italia, dove il libro comparve per la prima volta nel 1964, edito da Mondadori. Scomparso poi per molti anni dalle librerie, è stato finalmente riproposto da Einaudi con questa nuova traduzione di Elena Dal Pra. Ho detto “finalmente” perchè con Il Gruppo siamo davanti ad un vero libro cult per la generazione alla quale appartengo.
Ricordo ancora l’impressione che mi fece quando lo lessi per la prima volta negli anni ’70 ed è per questo che l’ho voluto rileggere per intero in questi giorni. Per vedere se avrebbe superato la “prova rilettura” a distanza di tanto tempo e nonostante i profondi cambiamenti avvenuti in tutti questi anni non solo in me ma nel mondo, nel costume, nella morale corrente. Bisogna infatti tener presente, tra l’altro, che il romanzo della McCarthy è anteriore ai terremoti del ’68 ed ai momenti più significativi delle battaglie dei movimenti femminili e femministi. Ho provato grande piacere nel constatare come questo romanzo, così come molte altre opere della McCarthy, mi sia apparso ancora attualissimo nella sua rappresentazione della difficoltà di crescere che ogni nuova generazione inevitabilmente incontra, trovandosi, quale che sia il periodo storico, combattuta tra l’educazione ricevuta e il mutare dei tempi.

Il gruppo cui fa riferimento il titolo è costituito da otto ragazze, tutte di estrazione sociale molto elevata ed ex compagne di studi al Vassar College, il più prestigioso ed esclusivo college femminile degli Stati Uniti, nell’era roosveltiana.

Il romanzo si apre nel 1933, quando subito dopo la cerimonia delle lauree ognuna delle ragazze (che rimarranno comunque sempre in contatto tra loro) intraprende un diverso cammino, va incontro a differenti tipi di scelte.

Mary McCarthy segue il percorso di ciascuna di esse, ne racconta le vicende, le scelte davanti alle quali vengono poste, le illusioni e le frustrazioni, le vittorie e le sconfitte che a volte diventano vere e proprie tragedie. Il tutto con stile ironico e persino tagliente ma allo stesso tempo molto affettuoso, con grande capacità di penetrazione psicologica ed empatia nei confronti delle sue eroine, anche quelle meno simpatiche. Il risultato è che attraverso le storie di Kay, Dottie, Polly, Lakie, Priss, Pokey, Helena e Libby la McCarthy delinea un grande affresco dell’America del New Deal, appena uscita dalla crisi economica della Grande Depressione in cui tutte le ragazze devono e vogliono darsi da fare per trovare un lavoro che consenta loro di bastare a se stesse ed in cui i venti di guerra provenienti dall’Europa (guerra di Spagna prima e inizio della seconda guerra mondiale poi) si fanno sentire sempre più violenti e minacciosi.

Ma oltre al più immediato aspetto finanziario e dello scenario sociopolitico, c’è tutto il tema delle trasformazioni delle concezioni riguardanti il codice di comportamento sessuale.

Motivo di scandalo fu appunto, all’epoca, il modo diretto ed esplicito di trattare anche i problemi legati alla vita sessuale delle ragazze e al conflitto creatosi in quel periodo, nelle coscienze della nuova generazione di donne, tra quella che era stata l’educazione trasmessa dalla generazione delle madri e le nuove prospettive introdotte dal femminismo e da tematiche quali il “controllo delle nascite” e la questione dell’allattamento (naturale o artificiale?) dei neonati. E proprio a questi due temi sono dedicati due dei capitoli più significativi e — per quell’epoca puritana — dirompenti — del romanzo. In uno, la ventenne Dottie, appena persa la verginità, si reca da sola da una ginecologa per farsi istruire nelle pratiche anticoncezionali e nell’uso del pessario. In un altro, la storia della maternità di Priss Hartshorn che, sposata con un pediatra, unica nel suo ambiente e fascia sociale, allatta il proprio figlio al seno andando talmente in controtendenza rispetto all’uso mitizzato del biberon e dell’allattamento artificiale da ricevere persino proposte di interviste da vari media che le chiedono di raccontare questa sua “strana” esperienza.

Il sesso dunque è molto presente nel romanzo, e spesso la McCarthy sembra si diverta a provocare appositamente i suoi lettori. Ma sa farlo con grande eleganza, leggerezza, affetto ed ironia. Mai volgare ed irritante. Risultando di fatto molto più efficace di tante sedicenti scrittrici e scrittori di oggi che infestano le loro pagine di noiosi e soporiferi turpiloqui.

Il Gruppo, dal quale nel 1966 fu anche tratto un film diretto da Sidney Lumet, appartiene a quei libri che, pur essendo perfettamente contestualizzati e collocati con dovizia di particolari nel tempo e nello spazio trattano temi universali e parlano un linguaggio capace di arrivare al cuore ed alla mente di molte generazioni.

Mary McCarthy
Mary McCarthy, scrittrice polemista e giornalista americana di origini irlandesi, nata a Seattle nel 1912 e morta a New York nel 1989, ha affrontato anche grandi temi storici contemporanei in importanti saggi come Viet Nam (1967) e Hanoi (1968) ed ha scritto libri molto belli su Venezia e Firenze, città che amava e nelle quali soggiornò a lungo. Suo secondo marito fu Edmund Wilson e la sua più grande amica Hannah Arendt, conosciuta a Manhattan nel 1944. Un’amicizia che durò tutta la vita e che si interruppe solo alla morte della Arendt, nel 1975.

Mary McCarthy
Hannah Arendt e Mary McCarthy

 

 

IL VULCANO MALATO – CHARLES BAUDELAIRE

Copertina libro
Charles BAUDELAIRE, Il vulcano malato. Lettere 1832 – 1866, a cura di Cinzia Bigliosi Franck, Fazi Editore, 2007, pp. 543, ISBN 978-88-8112-744-3
In copertina, Baudelaire in una foto di Nadar

Charles Baudelaire detestava scrivere lettere e non tollerava l’idea che esse potessero cadere sotto occhi diversi da quelli della persona cui erano destinate.

“Possano simili confessioni — per voi o per me — non essere mai conosciute dai vivi e dai posteri! Dal momento che credo ancora che la posterità mi concerna” (Lettera alla madre del 4 dicembre 1847)

“Una lettera mi costa più che scrivere un libro” (lettera alla madre, 16 dicembre 1847)

“se […] in questa lettera è scivolato qualche termine non soddisfacente, non vogliatemene, voi sapete come sono maldestro nello scrivere” (Lettera alla madre del 12 giugno 1851)

“A causa dello stile, della passione, di tutto quello che vi è di intimo e di segreto in una lettera […] non può essere mostrata”(Lettera alla madre dell’8 maggio 1861)

E’ con questa consapevolezza, che non mi ha abbandonata un istante, che ho letto questo prezioso volume edito da Fazi.

Cinzia Bigliosi Franck, docente di Storia della Critica presso la facoltà di Design e Arti (UAV) di Venezia ha selezionato e raccolto lettere che coprono tutto l’arco della vita di Baudelaire dall’infanzia all’ultima lettera scritta da Bruxelles a sua madre, la signora Aupick, un anno prima della morte, la sera prima di venir colpito dall’icuts emiplegico che lo priva della parola. Esse forniscono un quadro completo di tutti i grandi ambiti esistenziali di Baudelaire. In appendice, troviamo anche parecchie lettere dei suoi corrispondenti: Wagner, Flaubert, Delacroix, Manet, Vigny.

Devo dire che — forse perchè ancora influenzata dalla recente lettura delle lettere di Flaubert — quello che mi ha maggiormente colpita, in questo epistolario, non è tanto quello che c’è quanto quello che non c’è. Nelle sue lettere infatti Baudelaire (a differenza, appunto, di Flaubert) non parla quasi mai del suo lavoro letterario, di teorie estetiche, dei suoi gusti artistici e musicali (uniche eccezioni qualche lettera al fotografo Nadar e a Wagner); non dice nulla dei suoi viaggi, non ci sono descrizioni di paesaggi di alcun genere. Emerge si la profonda, sconfinata ammirazione per Edgar Allan Poe (per tanti versi così simile a lui, e da lui tradotto in francese), il rapporto di subalternità paternalistica con Sainte-Beuve, la tempestosa relazione con Jeanne Duval e l’amore pressocchè platonico per Madame Sabatier. Ma perchè — come giustamente rileva la curatrice del volume — lo scrittore alcoolizzato e suo coetaneo Poe, l’anziano critico Sainte-Beuve e la matura Sabatier costituirono, in qualche modo, “una serie curiosa di doppi che idealmente riproducesse[ro] il nucleo padre-madre-figlio, che sul piano famigliare era evidentemente fallito trasponendolo ad un livello immaginativo […] dove Poe indossò le vesti di un fratello-gemello di Baudelaire, Sainte-Beuve quelle del padre e la Sabatier quelle della madre” (“Perchè ho così pazientemente tradotto Poe? Perchè mi assomigliava”)

Nelle lettere Baudelaire parla soprattutto di soldi. Leggiamo lunghissimi e minuziosissimi (nonchè noiosissimi) elenchi di debiti. Baudelaire è eternamente ossessionato dalla mancanza di denaro, non fa che firmare cambiali che poi non riesce a pagare. Dopo aver dilapidato — appena raggiunta la maggiore età — in meno di diciotto mesi quasi la metà del patrimonio ereditato dal padre ed essere stato, a causa di questo, interdetto e vincolato per sempre a tutela giudiziaria, tutta la sua vita (e la sua corrispondenza) non è che un continuo parlare di soldi, soldi, soldi. Continue richieste di denaro alla madre, soprattutto (che tutto sommato interviene sempre ad aiutarlo, nei limiti delle sue possibilità e rischiando seriamente di rovinarsi economicamente) ma non solo a lei. Lettere fitte di dettagli su appuntamenti imprescindibili o mancati, innumerevoli e continui traslochi, scadenze da rispettare. E tutto con la consapevolezza di essere vissuto come “una bestia” e come un “cane randagio” (1855). E poi c’è sempre “la noia, la noia orribile” (dicembre 1847). E “l’orrore del domicilio” (“la smania per i viaggi mi prende di continuo” scrive alla madre nel 1848). Pagina dopo pagina assistiamo ad un processo di frantumazione dell’identità, di autoespulsione, di autoesilio che si concluderà con il definitvo trasferimento in una città detestata — Bruxelles –, l’ictus e l’afasia.

Su tutto e lungo tutto l’epistolario, la figura della signora Aupick, la madre. Presenza costante e punto di riferimento anche nella lontananza e assenza fisica (“Con te, abbiamo sempre da parlare noi due, tu del lavoro, io di quanto ti amo, e siamo contenti l’uno dell’altra”, luglio 1838. “Quel non so che per cui nostra madre ci appare sempre la migliore delle donne” e innumerevoli altri passaggi potrei citare). Nelle lettere alla madre, l’utilizzo che egli fa di volta in volta del “tu” e del “voi” indica lo stato del suo umore e della sua relazione. Leggere queste lettere fa un’impressione davvero particolare: se non sapessimo che la signora Aupick è sua madre, molte delle lettere a lei dirette potremmo facilmente scambiarle per lettere scritte ad un’amante con cui si ha una relazione tormentata.

Annota Cinzia Bigliosi Franck: “Le lettere […] scritte alla madre […] sono quello che, convenzionalmente potremmo definire il verio diario intimo di Baudelaire”

Il diario intimo di un uomo che il 5 marzo 1852 scrisse di se stesso al notaio di famiglia Narcisse Ancelle:

“la mia testa sta diventando letteralmente un vulcano malato. Grandi tempeste e grandi aurore”

Nota a margine: mi piacerebbe saperne di più, sulla signora Aupick, la madre di Baudelaire. Confesso che nel leggere il libro mi è capitato spesso di cercare di immaginarmi nei suoi panni e di simpatizzare più con lei che con suo figlio.

Mi è rimasta in mente una frase tratta da una lunga lettera da lei inviata nel 1868 a Charles Asselineau, primo biografo di Charles Baudelaire

“Se Charles si fosse lasciato guidare dal suo patrigno, la sua carriera sarebbe stata ben diversa. Non avrebbe lasciato un nome nella letteratura, è vero, ma saremmo stati tutti e tre più felici”

LA VALIGIA DI MIO PADRE – ORHAN PAMUK

Copertina libro Orhan PAMUK, La valigia di mio padre, traduz. di Semsa Gezgin, Einaudi coll. Vele, p.71, 2007, ISBN: 8806188860

In questo esile librino  troviamo i testi di due conferenze  tenute da Orhan Pamuk  nel 2006 (ad Oklahoma e a Francoforte che, come i lettori di Neve sanno bene, è la città tedesca in cui il protagonista Ka passa gli ultimi quindici anni della sua vita) ed il testo del discorso tenuto a Stoccolma il 7 dicembre 2006 in occasione del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura ed intitolato La valigia di mio padre.

In questi testi  Pamuk affronta tutte le questioni che stanno a cuore a chiunque si interessi all’arte del romanzo: qual’è il senso della letteratura? Come nasce un romanzo? Qual’è il significato della lettura? Come si pone la questione della posizione politica di un romanziere?
A queste domande Pamuk risponde non con astratte e fumose teorie ma esponendosi in prima persona, raccontandoci la sua esperienza di scrittore, facendoci entrare nel suo laboratorio di scrittura, spiegandoci minuziosamente come prendono forma i suoi romanzi; non eludendo questioni come la posizione politica di un romanziere, il trovarsi tra Oriente ed Occidente, l’ingresso della Turchia in Europa.

Ne viene fuori il ritratto di uno scrittore che si chiude in una stanza, si ripiega in se stesso e tra le proprie ombre costruisce un mondo nuovo con le parole. Un isolamento che, per Pamuk, è la condizione perchè nasca in realtà un’apertura, la certezza che tutti gli uomini si somigliano e che il mondo sia privo di un centro. Essere scrittori infatti, dice Pamuk, significa prendere coscienza delle proprie ferite interiori, e raccontarle ai lettori che le riconoscono per averle provate in prima persona, magari senza esserne consapevoli: “un autore parla di cose che tutti sanno senza esserne consapevoli”.

Perchè “la grande letteratura” non è che “l’abilità di raccontare la propria storia come se fosse la storia di un altro e la storia di un altro come se fosse la propria”. La capacità, insomma di mettersi nei panni degli altri. Perchè “la storia del romanzo è la storia di una liberazione. Mettendoci nei panni degli altri, usando l’immaginazione per liberarci della nostra identità, liberiamo noi stessi”.

Due intere, bellissime pagine del discorso di Stoccolma ed introdotte da Pamuk con la frase: “Permettetemi […] qualche parola che, mi auguro, abbia l’effetto della musica” sono dedicate a rispondere alla “domanda che più spesso viene posta a noi scrittori […]: perchè scrive?”

 

E ALLORA VEDIAMOLI!

Antonio Gades e Christina Hoyos nella Danza del Fuoco Fatuo da El amor brujo di Manuel de Falla









E già che ci sono, vi presento Pastora Galvan. A mio parere una delle migliori danzatrici di flamenco di oggi (direi la migliore, ma non voglio spacciarmi per esperta). Era lei che andavo a vedere a Siviglia. Danzava a tre metri di distanza da me, nel patio della Casa de la Memoria al Barrio de Santa Cruz. Indescrivibile. Davvero non avete idea di cos’è capace questa donna. Questo è solo un piccolissimo assaggio