Sándor Márai, LA SORELLA, traduz. Antonio Sciacovelli, p.227, Adelphi, 2006
Nella corposa produzione letteraria di Márai, La sorella si colloca come primo libro scritto dopo Le braci. Pubblicato nel 1946, fu l’ultimo dato alle stampe in Ungheria prima dell’esilio volontario del suo autore.
La storia si svolge durante la seconda guerra mondiale ed è in sè relativamente semplice. Un grande pianista ungherese di fama internazionale, Z., parte per Firenze dove, invitato dal Governo italiano, dovrà esibirsi in concerto. Già durante il viaggio in treno però Z. avverte che qualcosa, nella sua vita, cambierà per sempre, ma non riesce ancora a capir cosa: “Era quello il momento in cui ‘cominciò’, in cui la mia vita si separò da tutto quello che precedentemente ne aveva costituito la condizione e il senso, in cui qualcosa in me morì, ed io allo stesso tempo rinacqui, come se fossi morto per la vita e nato per la morte”.
Z. terrà il suo concerto, che sarà però l’ultimo. Subito dopo infatti viene ricoverato in ospedale perchè affetto da un micidiale virus. I lunghi mesi di sofferenze la cui descrizione prende tutta la parte centrale del romanzo costituiscono un vero e proprio viaggio all’inferno. La malattia impone i suoi ritmi e le sue leggi cui Z. deve sottostare e lo fa come un “malato regolare, diligente e professionale” al punto che ogni tanto persino si annoia: “Perchè noi esseri umani […] siamo capaci, a volte, di farci venire a noia persino l’inferno” (p.151).
Z. è assistito da due medici e quattro suore ed è grazie proprio alle cure di queste sei persone — ciascuna delle quali magistralmente descritta e caratterizzata — che guarirà, riemergerà dal baratro, tornerà nel mondo completamente guarito.
La malattia lascerà solo un piccolissimo strascico …che farà di lui un “morto per la vita e nato per la morte”.
Tutte le recensioni che ho letto di questo bellissimo romanzo il cui titolo si chiarisce soltanto nelle pagine finali sono — giustamente — centrate sul tema del rapporto tra Z., la sua malattia, lo sfacelo psicofisico, i deliri, la morfina. Non voglio stare perciò a scrivere cose che già altri hanno detto benissimo (in fondo al post indico un’ ottima recensione trovata in rete) e preferisco parlare invece di un particolare tema del romanzo: il rapporto di Z. con la musica e la sua vita di compositore e pianista.
Non finisco mai di stupirmi constatando quanto poco di casuale ci sia nella sequenza con cui decido che è giunto il momento di leggere un determinato libro. Questo l’avevo in casa da mesi, amando molto Márai ne rinviavo la lettura conservandola come si fa con le bottiglie di vino buono. Solo adesso l’ho preso in mano e… subito dopo Le voci del mondo di Schneider… ecco che ancora una volta mi sono ritrovata dentro un romanzo in cui il personaggio principale è un pianista e di cui la musica costituisce uno dei temi centrali.
Le pagine che descrivono l’inizio di un concerto (in questo caso l’ultimo concerto di Z.), quei pochi, magici secondi che precedono il momento in cui le mani si posano sulla tastiera facendone scaturire la prima nota sono eccezionalmente efficaci nel rendere chi legge completamente partecipe di quel sentimento di comunione mistica che viene a crearsi tra il concertista e il suo pubblico.
Nei suoi libri di memorie Márai racconta spesso di quanto potere avesse su di lui la musica e di quanto spesso i ricordi riemergessero in lui non attraverso immagini o parole ma attraverso frammenti musicali e ne La sorella, mentre Z. esalta la forza comunicativa della musica (“Quale terribile forza ha la musica! E’ più forte delle carezze, delle parole, del tatto. Quello che una persona non riesce a dire nè con il corpo nè con lo spirito può dirlo con la musica” (p.82) il professore che lo cura esclama ad un certo punto: “La musica […] è il grado massimo di ogni esperienza sensuale. Lei deve essere vissuto in maniera troppo sensuale, maestro. Voglio dire che vivere per quarantanni in concubinato con la musica…Non lo sopporterebbero neanche gli dèi” (p.164)
La malattia ora “si è presa la musica”, ma Z. si chiede anche se non si sia ammalato perchè il suo corpo non tollerava più “quell’esercizio meccanico in cui è trasformato il talento” (p.163) che sente “inacidito nella noia e nella disgustosa meccanica dell’esercizio” che per lunghe ore ogni giorno da trentanni lo ha tenuto incatenato ad una sedia per “domare quella bestia nera e feroce che è il pianoforte” (p.93). Domandandosi se il suo essere stato un servitore della musica non l’abbia condotto al punto che “la musica non era più un’esperienza per me, bensì una sorta di corvée sovrumana” Z. si chiede insomma se non si sia ammalato perchè ha perso “il senso della musica” (p.82).
A poco a poco, parlando con i due medici che lo curano, comincia a pensare che se la malattia scaturisce dalla menzogna, allora la sua menzogna consiste nel fatto di non saper/voler riconoscere che la musica è ormai diventata per lui solo un “terribile mostro”.
Un’altra cosa apparentemente marginale è la questione dei nomi: ne La sorella nessuno ha un nome: abbiamo “l’ambasciatore”, “il professore”, “l’assistente”, “il marito”, “il centralinista”… lo stesso protagonista viene indicato solo con l’iniziale (Z.) così come E., la donna della quale Z. pensa di essere innamorato.
Solo le quattro suore hanno un nome, ma si tratta di nomi probabili solo in quanto simbolici: Cherubina, Carissima, Mattutina e Dolorissa sono quattro figure femminili definite “angeliche ruffiane” che si avvicendano al letto del malato, che in alcuni momenti assumono davvero la funzione di “traghettarlo sull’altra sponda”. Simbolico è anche il loro numero: quattro, il quattro è una misura del tempo musicale in 4/4, quattro sono le stagioni, i punti cardinali, i Vangeli…
Una notte, Z. sente una voce femminile sussurrare “Io non voglio che lei muoia”…E’ una di loro?
Come in tutti i romanzi di Márai che ho letto, anche qui il protagonista presenta in controluce molte caratteristiche di un Alter Ego del suo autore. Quando leggiamo per esempio, a proposito di Z. che “anche lui apparteneva alla razza di coloro che scelgono deliberatamene la via dell’esilio, che scampano agli assalti del tempo rifugiandosi nell’immensa foresta della solitudine” (p.44) o che “si vive, si lavora, si ha un ruolo nel mondo solo quando si deve qualcosa a qualcuno” (p.90)
Un libro certamente non allegro, questo La sorella. Eppure, anche se la cosa può sembrar paradossale, il suo effetto, almeno su di me, non è stato deprimente perchè la dolorosa (in ogni senso) presa di coscienza di Z. mi ha comunicato, chiudendo il libro, una sensazione di pace. Perchè mi sono ricordata di quel che avevo letto all’inizio del libro (La sorella è un libro circolare) quando Z. era stato descritto così dall’uomo che lo incontra per caso in uno sperduto alberghetto sui monti della Transilvania molti anni dopo la malattia ed al quale in seguito Z. lascerà, alla propria morte, il manoscritto sul quale leggeremo la sua storia: “la disgrazia non l’aveva offeso nè umiliato, e nemmeno piegato. E in quella serenità non vi era traccia di rancore” (p.10).
…Una nota infine per chi è molto attento (anche) alla veste editoriale dei libri che legge: in copertina del volume Adelphi una foto di Louis Faurer per l’edizione francese di Vogue