LA SORELLA -SANDOR MARAI

Copertina libro
Sándor Márai, LA SORELLA, traduz. Antonio Sciacovelli, p.227, Adelphi, 2006

Nella corposa produzione letteraria di Márai, La sorella si colloca come primo libro scritto dopo Le braci. Pubblicato nel 1946, fu l’ultimo dato alle stampe in Ungheria prima dell’esilio volontario del suo autore.

La storia si svolge durante la seconda guerra mondiale ed è in sè relativamente semplice. Un grande pianista ungherese di fama internazionale, Z., parte per Firenze dove, invitato dal Governo italiano, dovrà esibirsi in concerto. Già durante il viaggio in treno però Z. avverte che qualcosa, nella sua vita, cambierà per sempre, ma non riesce ancora a capir cosa: “Era quello il momento in cui ‘cominciò’, in cui la mia vita si separò da tutto quello che precedentemente ne aveva costituito la condizione e il senso, in cui qualcosa in me morì, ed io allo stesso tempo rinacqui, come se fossi morto per la vita e nato per la morte”.
Z. terrà il suo concerto, che sarà però l’ultimo. Subito dopo infatti viene ricoverato in ospedale perchè affetto da un micidiale virus. I lunghi mesi di sofferenze la cui descrizione prende tutta la parte centrale del romanzo costituiscono un vero e proprio viaggio all’inferno. La malattia impone i suoi ritmi e le sue leggi cui Z. deve sottostare e lo fa come un “malato regolare, diligente e professionale” al punto che ogni tanto persino si annoia: “Perchè noi esseri umani […] siamo capaci, a volte, di farci venire a noia persino l’inferno” (p.151).

Z. è assistito da due medici e quattro suore ed è grazie proprio alle cure di queste sei persone — ciascuna delle quali magistralmente descritta e caratterizzata — che guarirà, riemergerà dal baratro, tornerà nel mondo completamente guarito.
La malattia lascerà solo un piccolissimo strascico …che farà di lui un “morto per la vita e nato per la morte”.
Tutte le recensioni che ho letto di questo bellissimo romanzo il cui titolo si chiarisce soltanto nelle pagine finali sono — giustamente — centrate sul tema del rapporto tra Z., la sua malattia, lo sfacelo psicofisico, i deliri, la morfina. Non voglio stare perciò a scrivere cose che già altri hanno detto benissimo (in fondo al post indico un’ ottima recensione trovata in rete) e preferisco parlare invece di un particolare tema del romanzo: il rapporto di Z. con la musica e la sua vita di compositore e pianista.

Non finisco mai di stupirmi constatando quanto poco di casuale ci sia nella sequenza con cui decido che è giunto il momento di leggere un determinato libro. Questo l’avevo in casa da mesi, amando molto Márai ne rinviavo la lettura conservandola come si fa con le bottiglie di vino buono. Solo adesso l’ho preso in mano e… subito dopo Le voci del mondo di Schneider… ecco che ancora una volta mi sono ritrovata dentro un romanzo in cui il personaggio principale è un pianista e di cui la musica costituisce uno dei temi centrali.
Le pagine che descrivono l’inizio di un concerto (in questo caso l’ultimo concerto di Z.), quei pochi, magici secondi che precedono il momento in cui le mani si posano sulla tastiera facendone scaturire la prima nota sono eccezionalmente efficaci nel rendere chi legge completamente partecipe di quel sentimento di comunione mistica che viene a crearsi tra il concertista e il suo pubblico.
Nei suoi libri di memorie Márai racconta spesso di quanto potere avesse su di lui la musica e di quanto spesso i ricordi riemergessero in lui non attraverso immagini o parole ma attraverso frammenti musicali e ne La sorella, mentre Z. esalta la forza comunicativa della musica (“Quale terribile forza ha la musica! E’ più forte delle carezze, delle parole, del tatto. Quello che una persona non riesce a dire nè con il corpo nè con lo spirito può dirlo con la musica” (p.82) il professore che lo cura esclama ad un certo punto: “La musica […] è il grado massimo di ogni esperienza sensuale. Lei deve essere vissuto in maniera troppo sensuale, maestro. Voglio dire che vivere per quarantanni in concubinato con la musica…Non lo sopporterebbero neanche gli dèi” (p.164)

La malattia ora “si è presa la musica”, ma Z. si chiede anche se non si sia ammalato perchè il suo corpo non tollerava più “quell’esercizio meccanico in cui è trasformato il talento” (p.163) che sente “inacidito nella noia e nella disgustosa meccanica dell’esercizio” che per lunghe ore ogni giorno da trentanni lo ha tenuto incatenato ad una sedia per “domare quella bestia nera e feroce che è il pianoforte” (p.93). Domandandosi se il suo essere stato un servitore della musica non l’abbia condotto al punto che “la musica non era più un’esperienza per me, bensì una sorta di corvée sovrumana” Z. si chiede insomma se non si sia ammalato perchè ha perso “il senso della musica” (p.82).

A poco a poco, parlando con i due medici che lo curano, comincia a pensare che se la malattia scaturisce dalla menzogna, allora la sua menzogna consiste nel fatto di non saper/voler riconoscere che la musica è ormai diventata per lui solo un “terribile mostro”.

Un’altra cosa apparentemente marginale è la questione dei nomi: ne La sorella nessuno ha un nome: abbiamo “l’ambasciatore”, “il professore”, “l’assistente”, “il marito”, “il centralinista”… lo stesso protagonista viene indicato solo con l’iniziale (Z.) così come E., la donna della quale Z. pensa di essere innamorato.
Solo le quattro suore hanno un nome, ma si tratta di nomi probabili solo in quanto simbolici: Cherubina, Carissima, Mattutina e Dolorissa sono quattro figure femminili definite “angeliche ruffiane” che si avvicendano al letto del malato, che in alcuni momenti assumono davvero la funzione di “traghettarlo sull’altra sponda”. Simbolico è anche il loro numero: quattro, il quattro è una misura del tempo musicale in 4/4, quattro sono le stagioni, i punti cardinali, i Vangeli…
Una notte, Z. sente una voce femminile sussurrare “Io non voglio che lei muoia”…E’ una di loro?

Come in tutti i romanzi di Márai che ho letto, anche qui il protagonista presenta in controluce molte caratteristiche di un Alter Ego del suo autore. Quando leggiamo per esempio, a proposito di Z. che “anche lui apparteneva alla razza di coloro che scelgono deliberatamene la via dell’esilio, che scampano agli assalti del tempo rifugiandosi nell’immensa foresta della solitudine” (p.44) o che “si vive, si lavora, si ha un ruolo nel mondo solo quando si deve qualcosa a qualcuno” (p.90)

Un libro certamente non allegro, questo La sorella. Eppure, anche se la cosa può sembrar paradossale, il suo effetto, almeno su di me, non è stato deprimente perchè la dolorosa (in ogni senso) presa di coscienza di Z. mi ha comunicato, chiudendo il libro, una sensazione di pace. Perchè mi sono ricordata di quel che avevo letto all’inizio del libro (La sorella è un libro circolare) quando Z. era stato descritto così dall’uomo che lo incontra per caso in uno sperduto alberghetto sui monti della Transilvania molti anni dopo la malattia ed al quale in seguito Z. lascerà, alla propria morte, il manoscritto sul quale leggeremo la sua storia: “la disgrazia non l’aveva offeso nè umiliato, e nemmeno piegato. E in quella serenità non vi era traccia di rancore” (p.10).

…Una nota infine per chi è molto attento (anche) alla veste editoriale dei libri che legge: in copertina del volume Adelphi una foto di Louis Faurer per l’edizione francese di Vogue

LE VOCI DEL MONDO – ROBERT SCHNEIDER

Copertina libro

Robert Schneider, LE VOCI DEL MONDO, traduz. di Flavio Cuniberto, Einaudi Tascabili Scrittori, p.186, 2005, ISBN 88-06-17371-5

Che succede se un genio nasce nel posto e nel tempo e fra gente sbagliata, se il contesto rende impossibile che il suo talento possa svilupparsi e venire riconosciuto e valorizzato?

“Quando apprendemmo la storia sconcertante di Johannes Elias Alder, ci fermammo a riflettere: quanti uomini meravigliosi, filosofi, pensatori, poeti, pittori e musicisti il mondo avrà perduto solo perchè ad essi non fu concesso di imparare la propria arte? Forse — continuando nella nostra fantasia — non fu Socrate il filosofo più sublime, e non fu Gesù Cristo il più grande spirito amante, nè Leonardo il più straordinario tra i pittori o Mozart il più perfetto tra i musicisti; altri nomi, completamente diversi, avrebbero potuto segnare il corso della storia. Pensammo allora con un sentimento di cordoglio a questa schiera di sconosciuti, nati e non nati a un tempo. E Johannes Elias Alder era uno di loro” (pag. 8)

In uno sperduto villaggio delle Alpi austriache popolato da contadini rozzi e ignoranti vive, nei primi anni dell’Ottocento, un ragazzino dotato di un grandissimo talento musicale che nessuno intorno a lui è in grado di capire; anzi, per molto tempo egli viene, per la sua straordinaria sensibilità musicale, sbeffeggiato ed isolato, considerato un “diverso” da fuggire e disprezzare, chiamato “Piscio-di-cane” per il colore dei suoi occhi. Lui stesso inconsapevole del suo geniale talento, costretto a “sedersi all’organo al pari di un ladro, nell’eterno timore di essere scoperto” (p.122), Elias è “un genio la cui strepitosa intelligenza musicale averebbe potuto spingere l’arte del suo tempo ben oltre i confini del secolo” (p.134)

Due sono le grandi passioni della sua breve e drammatica esistenza: la musica e l’amore impossibile per la cugina Elsbeth che lo porterà a mettere in secondo piano persino la musica ed a spingerlo ad un singolare e straziante suicidio: Elias infati “all’età di ventidue anni si tolse la vita, avendo deciso di non più dormire” (p.3).

Se avete fatto un balzo sulla sedia perchè vi ho rivelato il finale, pensate che questo è un romanzo che inizia dalla fine; tutta la trama del libro è infatti riassunta già nella prima pagina ed il primo capitolo ha per titolo “L’ultimo capitolo”. Condensando tutta la storia nella prima mezza pagina, mi è sembrato come se l’autore mi lanciasse una sfida; come se mi dicesse: “ti sembra di sapere tutto, adesso, eh? Ma sai solo il cosa succederà, non il come io te lo racconterò …”.
Ma se è l’amore impossibile per Elsbeth che spinge Elias al suicidio, è la musica, a mio parere, la vera protagonista del romanzo. Ad essa sono dedicate pagine stupende decisamente all’altezza del Thomas Mann dei Buddenbrook e del Doktor Faustus, come quelle che descrivono l’unica volta in cui Elias vede riconosciuto il suo talento trionfando nel cimento di musica organistica nel Duomo di Erfeld o quando, ancora bambino, scopre per la prima volta la magia dei suoni e “le voci del mondo”.

Genio misconosciuto e solitario condannato a morire d’amore, Elias dunque si suicida, ed il romanzo si chiude riproponendo l’interrogativo con il quale si apriva:
“E ci ritornò assillante il pensiero: quanti uomini eccelsi il mondo avrà perduto solo perchè non fu loro concessa una vita più serena, un più giusto equilibrio di pena e felicità” (p.166).

Romanzo d’esordio dell’austriaco Robert Schneider, ex studente di musica al Conservatorio di Vienna, “Le voci del mondo” (pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1992, subito caso letterario con le sue 100.000 copie vendute e poi, tradotto in italiano, vincitore del premio Grinzane Cavour 1995) è una storia di amore e di solitudine che ha per scenario una natura squassata dal terribile vento del phön, devastata da incendi ricorrenti, popolata da gente rozza, spesso crudele, in un’atmosfera intrisa di magia e superstizione da molti critici definita “gotica”.

Schneider riesce a giocare con il contrasto tra la rozzezza del contesto e la sensibilità e l’animo appassionato di Elias consegnandoci un romanzo poetico e dolente squarciato a tratti da esplosioni di violenza ma percorso da una struggente vena malinconica, ironia e senso del grottesco. Un romanzo, come acutamente rileva il traduttore Flavio Cuniberto, che è anche un “romanzo di formazione alla rovescia […] dove l’eroe non conosce formazione alcuna, non ha sviluppo, anzi seppellisce i propri inestimabili talenti negli angusti confini del ‘natio borgo selvaggio'”

O UOMINI, SIATE FELICI

Beethoven
Helingenstadt, 6 ottobre 1802.

Beethoven scrive ai fratelli Karl e Johann una lettera che passerà alla storia come “Il testamento di Heligenstadt”. Ha  solo 32 anni.

O voi uomini che mi credete ostile, scontroso, misantropo o che mi fate passare per tale, come siete ingiusti con me, non sapete la causa segreta di ciò che è soltanto un’apparenza, il mio cuore e la mia mente erano sin dall’infanzia inclini al tenero sentimento della benevolenza, e avrei anche sempre voluto compiere grandi azioni, ma pensate solo che da sei anni sono colpito da un male inguaribile
[…]
con gioia vado incontro alla morte – ma se essa mi coglierà prima che abbia avuto occasione di sviluppare interamente i miei talenti artistici, sarebbe per me, malgrado il mio duro destino, troppo presto e vorrei che venisse più tardi – e tuttavia sarei contento lo stesso, non mi libera essa da uno stato infinitamente doloroso? – Vieni quando vuoi, ti vado intrepidamente incontro – addio, non dimenticatemi completamente quando sarò morto, me lo sono meritato perché nella mia vita ho spesso pensato di rendervi felici, siatelo

Manoscritto

PUPI, PUPARI E CONTASTORIE (Parte quarta)

Al turista che arriva in Sicilia càpita spesso di ascoltare frasi che, anche se pronunciate in perfetto italiano possono risultargli non molto comprensibili e forse anche incongrue e surreali.
Gli è che nel siciliano parlato sono ancora oggi presenti le tracce dei poemi cavallereschi e dei cicli carolingi.

Lessico e pupi

Solo qualche esempio di quanto la tradizione cavalleresca dei poemi carolingi divulgata anche attraverso l'Opera dei Pupi sia ancora molto presente, in Sicilia, anche nella tradizione orale, nei modi di dire, nella toponomastica, nell'onomastica.

  • Frasi idiomatiche, modi di dire
  • "Semu a cavaddu! " = Siamo a posto! (sottinteso: come un cavaliere in groppa al suo cavallo)
    "Impupare il pupo" = vestire il pupo = mascherare ed, in senso lato "imbrogliare". Usatissimo, lo adopero spesso anche io quando dico: "E che mi vuoi, impupare il pupo!?" cioè "che cosa mi vuoi dare a intendere?!" 
    "Chiamare a parlamento" = invitare a discutere un problema = viene da Carlo Magno che convoca il consiglio dei suoi Paladini
    "Farinni quantu Carru in Francia" = farne [di cose, gesta] quante ne fece Carlo Magno in Francia
    "E chi ti senti, Rinardu di Montarbanu?!" = ti senti forse Rinaldo  di Montalbano? = lo si dice rivolgendosi a un presuntuoso
    "E chi aiu,  un saccu di pupi, ca ti fazzu ririri?!" = E che ho, un sacco pieno di pupi, che ti faccio ridere tanto? = cos'ho da farti ridere tanto, sono forse un puparo?
    "Attentu, ca fazzu l'opira!" = attento, che faccio l'opera [dei pupi] = attento, che faccio una gran scenata! (usatissimo anche oggi)

    Dare del "maganzisi" a qualcuno è un'ingiuria, perchè Gano di Maganza è il pupo-personaggio del traditore per antonomasia: egli infatti tradisce Carlo Magno e i Paladini e ne causa la disfatta a Roncisvalle

    Museo Internazionale delle Marionette, Palermo
    Pupi al Museo Internazionale delle Marionette Antonio Pasqualino di Palermo
    (foto Gabriella Alù)
    Clic per ingrandire

  • La toponomastica siciliana è costellata di Ferrauto, Oliveri, Gerone, Milone. Sono tanti i nomi di località siciliane che provengono dalle storie carolinge.
  • Basta poi sfogliare l'elenco telefonico di Palermo per rendersi conto di quanti dei cognomi più diffusi derivino dai poemi cavallereschi: Ruggero, Ruggeri, Montalbano, Paladino, Orlando, Rinaldo, Ferraù, Rinaldi, Saraceno etc….
  • ____________________

    Pupi, Pupari e Contastorie su NSP:

  • Prima parte: Due libri e un po' di storia
  • Seconda parte: Il teatrino dell'Opera dei Pupi
  • Terza parte: Famiglie di pupari
  • REGALI

    Cover Ring    Cover Ring

    Ho deciso di farmi un bel regalo e sul sito della FNAC francese ho ordinato il cofanetto (meglio sarebbe dire “il cofanone”) con gli 8 (si, otto!) DVD del mitico e per me ancora oggi insuperato Ring wagneriano di Boulez- Chéreau (Bayreuth 1976), edizione restaurata, rimasterizzata e ringiovanita.

    Ho ancora le cassette VHS che avevo registrato dalla RAI quando l’avevano trasmesso integralmente in TV senza interruzioni pubblicitarie (roba oggi inimmaginabile!) e in quattro giornate consecutive (rispettando così persino la struttura rituale degli allestimenti wagneriani).

    [Sospiro malinconico ma inevitabile: eh, si, c’era una volta una televisione che non era solo un elettrodomestico, ma anche uno strumento di cultura…]

    Le mie preziosissime cassette sono state talmente ascoltate e riascoltate, in tutti questi anni, che mi aspetto che da un momento all’altro il nastro si… squagli. Perciò non mi par vero di poter far miei questi DVD tutti belli nuovi e ripuliti 🙂

    Nell’attesa del prezioso pacchetto mi guardo il DVD del “Making Of” che, invece, ho già comperato qui a Palermo

    DISSONANZE

    Klaus Mann

    Klaus Mann, Staff sergeant 5th United States Army, Italy 1944

    Quando Hitler sale al potere Klaus Mann, assieme a tutta la famiglia, fugge dalla Germania e dopo lunghi vagabondaggi in Europa con lunghe permanenze a Parigi si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti, si arruola nell’esercito americano ottenendo anche la cittadinanza americana.

    Nel 1945 torna in Germania come militare dell’esercito degli USA e, in una lunghissima lettera al padre Thomas rimasto in America, racconta di una serie di incontri con varie personalità ed ex gerarchi nazisti (Goering, ad esempio), che ha avuto modo di avvicinare in qualità di giornalista militare.

    Va anche, assieme ad un collega, a trovare Richard Strauss, il grande musicista che, a differenza della famiglia Mann, era rimasto in Germania e non aveva mai nascosto le sue simpatie per i nazisti.

    Il racconto di Klaus al padre Thomas è molto lungo e purtroppo non lo posso riportare per esteso. Assicuro però che sono pagine che fanno correre un brivido lungo la schiena specialmente a chi, come me, considera le opere di Strauss, dal “Rosenkavalier” ad “Elektra” a “Salome” ad “Arianna a Nasso” pagine tra le più splendide che la musica colta occidentale abbia mai prodotto .

    Mi limito a stralciare la parte iniziale e quella conclusiva del racconto di Klaus:

    Richard Strauss nel 1949“… come corrispondente degli Stati Uniti, mi sono recato da Richard Strauss a Garmisch. Ci facemmo annunciare come due reporter americani

    […]

    Eh, si, uomini del suo stampo si arrangiano sempre, sotto qualsiasi regime, non importa. Che i nazi abbiano sulla coscienza una guerra insensata e assassina, che milioni di innocenti siano periti nelle camere a gas, che la Germania sia ora infranta e carbonizzata, che importa ciò a Richard Strauss?

    Richard Strauss dice: “Emigrare? Si, se non si potrà più mangiare bene. Sotto il terzo Reich si mangiava benissimo, specialmente quando si coglievano a staio le percentuali di ottanta teatri d’opera. Ad eccezion fatta di un paio di stupidi incidenti, non avevo proprio di che lagnarmi”.

    Molti dei capi del nazismo — dice Richard Strauss — erano gente davvero in gamba: Hans Frank, per esempio, il “protettore” della Polonia (“molto fine! molto colto! apprezza le mie opere!”) e Baldur Von Schirach (…) Grazie alla sua protezione la famiglia Strauss godeva a Vienna di una posizione di privilegio: e questo sebbene il figlio del maestro avesse una moglie in senso razziale non inoppugnabile. “Ho il diritto di affermare che mia nuora è la sola ebrea rimasta libera nella Grande Germania”.

    “Libera? Eh, no, papà! O, quanto meno, non del tutto!” Era la signora Strauss junior nata Grab, che protestava, civettuola e lamentevole “La mia libertà lasciava alquanto da desiderare. Dimentichi, papà, ciò che ho dovuto sopportare? Mi era forse lecito andare a caccia? Persino il cavalcare mi fu, per un po’ di tempo, proibito…”

    Lo giuro: queste furono le sue testuali parole! Ci sono state le leggi di Norimberga, ci fu Auschwitz, ci fu un massacro senza esempi; il più infame regime della storia universale ha degradato gli ebrei a bestie da preda (…) e la nuora di Richard Strauss si lagna per non avere potuto andare a caccia….

    Non ne potevo più, e misi fine a quel colloquio rivoltante.

    “Se ne vanno già?” Il maestro e la nata Grab volevano trattenerci a pranzo. Io rifiutai. Curt dichiarò anche lui di avere un appuntamento in città, però non seppe resistere al desiderio di chiedere al signor Strauss una sua fotografia con firma. “Ma si, certo. Con piacere!” Il vecchio era raggiante. Poi, volgendosi a me: “Anche lei vuole il mio ritratto?”

    “Grazie. Non faccio raccolta”.

    La mia risposta deve essere suonata gelida. Le bianche sopracciglia si inarcarono più che mai, più stupite che offese. Poi una spallucciata, un sorriso di superiorità. Questi americani! Ma già si sa quanto siano rozzi e volgari, questi stupidi yankees non apprezzano che i boxeurs e le stars del cinema.”

    (da una lettera di Klaus Mann a Thomas Mann del 16 maggio 1945, in Klaus Mann  LA SVOLTA, Il Saggiatore, pag. 416 e segg.)

    Le voci di Wikipedia dedicate a:

    L’ARTE DELLA GIOIA

    Goliarda Sapienza, L’ARTE DELLA GIOIA, a cura di Angelo Pellegrino, Stampa Alternativa, marzo 2006, p.569, Nuova edizione con album fotografico, ISBN 88-7226-926-1

    Francia, 8 settembre 2005. Sul Nouvel Observateur compare un’entusiastica recensione — firmata da Catherine David — di un corposo romanzo il cui titolo in francese è “L’art de la joie”. Il romanzo è di Goliarda Sapienza, italiana, morta nel 1996. Scrive la David nel suo lungo articolo: “Tutto è straordinario in questo libro”.

    Appena qualche giorno dopo, il 16 settembre, sul supplemento letterario “Le Monde des livres” del prestigioso quotidiano Le Monde compare un articolo altrettanto entusiasta di Reneé de Ceccatty che parla del libro come di “un’opera eccezionale”. Molti librai francesi lo presentano ai lettori come miglior romanzo dell’anno.

    In breve tempo Goliarda Sapienza diventa l’icona della gauche intellettuale francese e per mesi L’art de la joie domina le classifiche dei libri più venduti appassionando i critici, che lo paragonano ora a Il Gattopardo ora a Horcynus Orca salutando la scoperta di una “narratrice meravigliosa nei suoi slanci a volte razionali, a volte passionali” (Le Monde ).

    Ma chi era Goliarda Sapienza? Siciliana, era nata a Catania nel 1924 dalla “libera unione” tra Giuseppe Sapienza, avvocato antifascista e Maria Giudice, sindacalista, prima donna a diventare Segretaria della Camera del Lavoro di Torino nel 1917, direttrice del Grido del popolo di cui era redattore Antonio Gramsci, incarcerata insieme a Terracini per la rivolta nel 1917 contro la guerra.

    Goliarda ebbe un’educazione anarcoide e atea, a sedici anni studiò recitazione all’Accademia d’arte drammatica di Roma, fu un’apprezzata attrice di ruoli pirandelliani, lavorò con registi come Luchino Visconti e Alessandro Blasetti, ma abbandonò le scene per dedicarsi interamente alla letteratura che però le diede soprattutto grandi delusioni. Nel 1980 venne persino arrestata per furto di gioielli in casa di una conoscente. A causa del suo romanzo-monstre, L’Arte della gioia, questa figlia dell’intellighenzia socialista, presenza nota negli ambienti artistici e culturali romani, attrice, scrittrice, compagna per 17 anni del regista Francesco Maselli, si era ridotta in povertà, nella casa romana di via Denza su cui pendeva lo sfratto e dove era stata tagliata anche la luce. “Furto per disperazione” lo definì Angelo Pellegrino, ma l’episodio rimane a tutt’oggi abbastanza oscuro.

    Morì a Roma nel 1996, praticamente ignorata.

    Goliarda non vide dunque l’uscita di quel romanzo a cui aveva dedicato tanti anni della sua vita: Pellegrino riuscì a farlo pubblicare postumo, da Stampa Alternativa, nell’indifferenza del mondo culturale. C’è voluto lo straordinario successo ottenuto in Francia perchè uscisse dall’ombra.

    Ho sentito parlare per la prima volta di Goliarda Sapienza qualche anno fa, da alcune amiche palermitane che lamentavano il fatto che questa scrittrice fosse stata completamente trascurata ed il suo libro (L’Arte della Gioia, appunto) non reperibile. Me ne ero poi completamente dimenticata fino a quando non sono giunti anche a me gli echi del successo ottenuto dal libro in Francia. Nel frattempo, era comparso anche nelle librerie italiane.

    Il volume, un tomo di circa 640 pagine se si considerano il ricco apparato iconografico e la lunga prefazione di Pellegrino, narra la storia di quattro generazioni in un arco temporale di circa sessantanni. Una vera e propria saga. Protagonista assoluta fra innumerevoli personaggi è Modesta, una giovane donna nella Sicilia della prima metà del Novecento della quale viene narrata la vita dall’età di quattro anni sino alla maturità.

    Ho terminato di leggere questo romanzo-fiume da appena qualche giorno e l’ho molto apprezzato per la spregiudicatezza, le idee libertarie, l’appassionata sincerità del messaggio di indipendenza delle donne che il personaggio di Modesta intende veicolare ponendosi come modello di una donna libera da ogni dipendenza economica, amorosa, ideologica, religiosa. Ho tuttavia chiuso il volume con quel senso di disagio che sempre mi prende quando mi trovo davanti qualcosa che mi appare decisamente sopravvalutato.

    Il tam tam cartaceo e di rete su L’arte della gioia è ormai avviato da un pezzo e mi pare che la stragrande maggioranza dei pareri siano, anche in Italia, decisamente entusiasti. C’è chi arriva a scrivere di Goliarda Sapienza come della scrittrice italiana più importante e rappresentativa della letteratura italiana del Novecento. Il che mi sembra, francamente, una stupidaggine.

    Se dovessi definire con una sola parola la sensazione dominante che ho provato durante tutta la lettura, direi che questo romanzo è “troppo”.

    “Io ti stimo, Modesta […] ma tu sei troppo drammatica, troppo!” dice ad un certo punto Carlo alla protagonista (p.190). Ed io sono d’accordo.

    Troppa roba, in questo libro: già nelle sole prime decine di pagine assistiamo a uno stupro (Modesta vittima), un duplice omicidio (Modesta appicca il fuoco alla casa ed ammazza madre e sorella), e poi ancora la nostra eroina ammazza a mente fredda altre due donne (una monaca ed una vecchia principessa), spara ad un amante, per vendicarsi diventa la mandante dell’omicidio di tre uomini… Chissà perchè, in nessuna delle recensioni che ho letto si fa cenno al piccolo particolare che la nostra Modesta non esita un attimo davanti all’omicidio…D’altra parte, secondo Modesta “La felicità è un diritto” e bisogna avere “astuzia e crudeltà per lottare” (p.520).

    E poi, troppi colpi di scena, troppa enfasi, troppe situazioni a filo di telenovela…Uno stile di scrittura certo fluido e scorrevole pur continuamente passando dalla prima alla terza persona singolare ma anche un po’ troppo sopra le righe ed a volte, persino fastidioso con quell’insistere nel mettere sempre il verbo alla fine: nel siciliano parlato questo si fa, è vero. Ma la scrittura è altra cosa, e ad esagerare si rischia di diventar stucchevoli.

    Nel personaggio di Modesta non si possono non riconoscere eredità di illustri antenate: il senso del rischio e dell’avventura di Moll Flanders e Lady Roxana (Defoe), la mancanza di scrupoli di Becky Sharp (Thackeray), il forte legame erotico tra Lady Chatterley e Mellow il guardiacaccia (situazione che viene riproposta con la relazione tra Modesta ormai ricca principessa e Carmine il gabelloto suo dipendente), il libertinaggio bisex di Fanny Hill, la bellezza, la cocciutaggine, la capacità di sapersela cavare di Rossella O’Hara. In Modesta c’è persino un pizzico della diabolica e proto-femminista Marchesa di Merteuil (de Laclos).

    Ho già detto che “L’arte della gioia” è stato paragonato a “Il Gattopardo”. Per la verità, se proprio vogliamo parlare di scrittori siciliani, allora io lo accosterei piuttosto — per l’ambientazione ma anche per alcune analogie tra i componenti della famiglia Brandiforti e quelli degli Uzeda di  Francalanza — a “I Vicerè” del catanese De Roberto.

    Concludendo: sono contenta di avere letto questo romanzo. Nonostante a mio parere esso non abbia la statura, lo spessore, la compattezza di un Gattopardo nè di “Menzogna e sortilegio” o de “La storia” e la sua autrice nemmeno lontanamente paragonabile ad Elsa Morante o a Tomasi di Lampedusa ha comunque ai miei occhi l’enorme pregio (e sottolineo “enorme”) di esser fatto di “lacrime e sangue”, di avere una struttura, di non essere minimalista ed anoressico come ahimè la maggior parte dei libercoli che vengono sfornati oggi a getto continuo, che si leggono in tre ore e si dimenticano nei successivi cinque minuti.

    Si tratta in ogni caso di un testo che non lascia indifferenti e nei confronti del quale si sente in qualche modo il desiderio di esprimersi e prender posizione.

    https://www.unilibro.it/libro/sapienza-goliarda-pellegrino-a-cur-/l-arte-della-gioia/9788872269268

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