LA LETTURA, CHE TORTURA

Copertina Opere
Evelyn Waugh era persona che, per l’idea che me ne sono fatta a legger diari, lettere e testimonianze doveva essere detestabile e non di poco: reazionario, piuttosto razzista anzi che no, misogino e paidofobico (non sopportava i bambini, nemmeno i propri figli, ci racconta Guido Almansi nella corposa introduzione di questo volume Bompiani).

A lui però dobbiamo gioielli della narrativa anglosassone come Ritorno a Brideshead, Il caro estinto (da cui nel 1965 venne tratto anche un film diretto da Tony Richardson), L’inviato speciale o Corpi vili (solo per citarne alcuni della sua vasta produzione letteraria che comprende anche raccolte di racconti).

Tra i suoi romanzi ce n’è uno che mi piace in modo particolare: Una manciata di polvere (titolo originale A Handful of Dust) del 1934, che prende il titolo da un verso della Terra desolata di T.S. Eliot.

Vi si narra di Tony Last, un gentleman inglese che, sposato e con un figlio, ad un certo punto, ed a seguito di varie vicende che non sto qui a riassumere, lascia l’Inghilterra per unirsi ad un esploratore in partenza per il Brasile alla ricerca di una mitica città sperduta. La spedizione finisce disastrosamente e Tony, colpito da malaria, viene raccolto quasi moribondo in una zona impervia del continente da un meticcio, il signor Todd, il quale lo guarisce ma solo per trattenerlo a suo servizio come “lettore”. Todd è analfabeta ma nutre un amore appassionato per i romanzi di Dickens, che Tony deve leggergli ogni sera, perchè se non legge non riceve cibo dal padrone. Tony è di fatto ridotto in schiavitù e la lettura diventa il solo mezzo di sopravvivenza

I primi giorni Tony si diverte: Dickens è uno dei suoi autori preferiti e poi si compiace del fatto che il signor Todd apprezza molto il suo modo di leggere. La situazione cambia però radicalmente quando Tony si rende conto di tre cose molto inquietanti: che gli unici libri che ha il signor Todd sono i romanzi di Dickens; che completata la lettura di tutti i volumi deve ricominciare a legger tutto da capo e soprattutto che il signor Todd (senza il cui aiuto non ha speranze di poter abbandonare quel posto isolato dal mondo) non lo lascerà mai andar via. Dopo alcuni tentativi falliti di fuga e di ribellione, Tony capisce finalmente, con orrore, che il futuro che lo aspetta sono anni di eterna lettura e rilettura dei romanzi di Dickens. Sempre così, almeno fino alla morte fisica sua o del signor Todd.

Una manciata di polvere è un romanzo molto bello. Ma non sto facendo una recensione perciò mi limito a dire che si tratta di un testo complesso dalle tante sfaccettature.
Perchè ne ho ritagliato solo una parte e proprio questa?
Perchè tutte le volte che, ciclicamente, salta fuori il giochino “Quali sono i tre (o cinque, o dieci) libri della tua vita che porteresti con te in un’isola deserta?” a me vengono sempre in mente Tony Last, il signor Todd e la costrizione a dover rileggere sempre, finchè morte non sopravvenga, la stessa manciata di libri. Ho il sospetto che quei libri, pure un tempo amati, verrebbero presto, molto prima che poi, odiati.

MSTISLAV

Un altro grande che se ne va. E’ morto Mstislav Rostropovich.
A me piace ricordarlo così:

MILAN KUNDERA e AMOS OZ

Una delle cose che mi affascina di più, della lettura, è la continua riscoperta del gioco di rimandi e collegamenti che esiste tra ogni libro ed altri libri; le associazioni di idee e connessioni di pensiero che ogni testo suscita.
Perchè ogni libro non è che il nodo di una rete e più gli autori sono grandi, più i libri si rincorrono l’un l’altro al di là dei confini del tempo e dello spazio.
L’ultima connessione in ordine di tempo mi è venuta dalla lettura di Chiacchiere di bottega di Philip Roth. Alcune frasi sul senso dell’umorismo del praghese Milan Kundera che mi hanno riportato alla mente frasi molto simili dell’israeliano Amos Oz.

  • “Ho scoperto il valore dell’umorismo nel periodo del terrore stalinista. Avevo vent’anni, e riuscivo sempre a riconoscere le persone che non erano staliniste, le persone che non dovevo temere, dal modo in cui sorridevano. Il senso dell’umorismo era un segno di riconoscimento affidabile. Da allora mi terrorizza un mondo che sta perdendo il suo senso dell’umorismo  (Milan Kundera a Philip Roth nel 1980)
  • In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo, e non ho nemmeno mai visto una persona dotata di senso dell’umorismo diventare un fanatico, a meno di non perdere il senso dell’umorismo.   (Amos Oz nel 2001, in Contro il fanatismo)

CHIACCHIERE DI BOTTEGA – PHILIP ROTH

Copertina libro
Philip ROTH, Chiacchiere di bottega. Uno scrittore, i suoi colleghi e il loro lavoro, (tit. orig. Shop Talk. A Writer and His Collegues and Their Work) traduz. Norman Gobetti, Einaudi Tascabili Saggi, ISBN 88-06-16829-0

Un piccolo grande libro di circa 150 pagine. Un grande scrittore intervista grandi scrittori. Primo Levi, Kundera, Ivan Klima, Edna O’Brien, Aharon Appelfeld, Isaac Bashevis Singer… Sono suoi “colleghi”. Lui fa le domande giuste, ma soprattutto è capace di porsi in posizione di vero ascolto.

Le conversazioni-interviste risalgono a circa vent’anni fa. Alcuni degli scrittori intervistati sono morti. Alcuni sono ebrei come Roth. Gli scrittori dell’Europa centrale (Kundera e Klima) parlano quando ancora la caduta del Muro di Berlino è impensabile e in Cecoslovacchia c’è il regime filosovietico.

E’ un libro prezioso, da leggere con calma, senza fretta, dandosi il tempo di meditare. Mi limito ad una sola citazione, tratta dall’incontro di Roth con Primo Levi, a Torino, nel 1986.

Roth parla con Levi del suo bisogno di radici (la professione, gli avi, la regione, la famiglia, la lingua) “eppure — gli dice — quando ti sei trovato solo e sradicato quanto può esserlo un uomo hai considerato quella condizione un dono”

E Primo Levi risponde:
“Un mio amico, un eccellente medico, mi ha detto molti anni fa: “I tuoi ricordi di prima e dopo sono in bianco e nero; quelli di Auschwitz e del ritorno a casa sono in technicolor”. Aveva ragione. La famiglia, la casa, la fabbrica di per sè sono cose buone, ma mi hanno privato di qualcosa di cui sento ancora la mancanza: l’avventura. Il destino ha deciso che avrei dovuto incontrare l’avventura nell’orrendo disastro di un’Europa travolta dalla guerra” (p.12)

Philip Roth
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LA CAMICIA BRUCIATA – ANNA BANTI

La camicia bruciata - Copertina libro Tra gli scrittori che mi interessano in questo periodo c’è Anna Banti. Perciò, dopo aver parlato di Artemisia, eccomi qui con La camicia bruciata.

Pubblicato nel 1973, La camicia bruciata è — almeno in parte — la biografia romanzata di Marguerite Louise d’Orleans, cugina di Luigi XIV data in sposa (sarebbe più corretto dire “malmaritata”) a Cosimo III dei Medici. Il libro è posteriore di circa trent’anni alla pubblicazione di Artemisia (1947).

Tra i due romanzi ci sono analogie fin troppo evidenti che balzano subito agli occhi: anche qui la storia di una donna, anche qui, almeno per circa metà del volume, un impianto narrativo costituito da un dialogo tra l’autrice e il suo personaggio. Anche qui, una figura femminile che in qualche modo cerca, attraverso i secoli, di far sentire la propria voce e far valere le proprie ragioni.

Ma a mio modo di vedere sono analogie solo di superficie, perchè La camicia bruciata è, in realtà, profondamente diverso da Artemisia. Per la genesi dell’opera, per l’atteggiamento dell’autrice nei confronti del suo personaggio, per il giudizio che, implicitamente ma a tratti anche esplicitamente la Banti dà di Marguerite Louise.

Prendiamo innanzitutto il modo in cui Anna Banti si trovò a decidere di scrivere proprio su Marguerite Louise. Ce lo racconta lei stessa nella nota introduttiva al libro intitolata “Perchè”.

In essa infatti la Banti ci dice che l’idea le venne inizialmente suggerita da Emilio Cecchi che “con quel suo risolino in punta di labbra, a occhi socchiusi” le disse un giorno “Perchè non la racconta lei, la storia di Marguerite Louise?”. Ma lei era molto poco interessata al soggetto e la cosa finì lì. Fino al giorno in cui, consultando per altri motivi gli Archivi Medicei “la figura bislacca della sposa di Cosimo III suscitò la mia — assai scettica, peraltro, curiosità […] ebbi l’impressione che se ne dicessero troppo e troppo marchiane su questa “Fille de France” importata a Firenze. Era proprio così corrotta e proterva come riferivano le cronache?”.

La Banti chiarisce molto bene, in questa nota introduttiva, di essere stata “lontanissima dal desiderio di riabilitarne la memoria” e che ciò che l’aveva spinta alla scrittura era stato il desiderio di “considerarne le malefatte con criteri un po’ più obiettivamente aggiornati”.

E infatti la scrittrice non è affatto tenera con Marguerite Louise, tutt’altro. A cominciare dal celebre incipit:

“Non parla, ronza, sibila, punge. Non vede la finestra aperta, sbatte sui vetri. Qui c’è sangue da succhiare, fuori la luce dove tutto dilegua le è nemica. Aspetta il buio per abbassarsi a volo radente, minimo vampiro protetto da un nome, Marguerite Louise: il guscio dove si crede ancora una principessa”

Con questa manciata di righe Marguerite fa dunque la sua entrata sulla scena del romanzo tratteggiata come una zanzara, una parassita, una succhiasangue, una vampira. Che si agita a casaccio e che per questo non è in grado di valutare gli ostacoli che ha di fronte. Una che non è niente ma si crede chissà che cosa. Che se non fosse “protetta” dal nome che porta e dalla parentela che la lega al Re Sole nessuno prenderebbe in considerazione.

E non finisce qua. Lo scambio di battute tra l’autrice ed il suo personaggio, più che un dialogo ed uno scambio alla pari tra persone che si stimano (come era in Artemisia) qua somiglia di più ad un processo. Il tono della Banti sembra più quello di un Pubblico Ministero. Marguerite viene accusata di atteggiarsi ad “attrice che declama”, il contesto in cui si muove è un “teatrino”, le persone di cui si circonda “servi di scena”. “Spogliatevi dei vostri orpelli e lasciatevi inventare con qualche verisimiglianza”, le intima la Banti a pag.38.

Marguerite Louise pensa solo a se stessa, non ama nessuno, nemmeno i suoi tre figli che abbandona a Firenze per sempre senza rimpianti pur di tornarsene in Francia. “Vous n’aimez personne, Mademoiselle”, la ammoniva Madame de Rairé, la sua prima governante, il faut vous corriger” (p.107). L’anaffettività è uno dei suoi caratteri distintivi.

“L’amour, diceva, mi manca l’amore […] lei lo intendeva in modo curioso, avrebbe voluto essere adorata senza ricambio […] era difficile volerle bene […] le persone che l’avvicinavano, uomini e donne, dovevano comportarsi nel modo che lei, nella sua testa, aveva stabilito”. Sono queste le parole che la Banti mette in bocca a Cintia, la serva cantatrice e violinista che rimane al fianco di Marguerite per anni, prima a Firenze e poi a Parigi.

Ma a poco a poco “il teatrino crolla”, autrice e personaggio non dialogano più. Marguerite esce di scena, diventa personaggio assente. La voce narrante in terza persona diventa unica e stabile. Avanzano e conquistano il primo piano altre figure femminili. Anna Ludovica, figlia di Marguerite e di Cosimo rimasta vedova dell’Elettore di Baviera tornerà in Firenze e alla morte del padre e del Gran Principe Ferdinando suo fratello prenderà il potere. Sarà l’ultima discendente dei Medici. Violante Beatrice di Baviera, moglie di Ferdinando (e dunque nuora di Marguerite) che, rimasta anch’essa vedova, governerà per tre anni Siena dimostrandosi contro ogni aspettativa donna capacissima di gestire e di amministrare la cosa pubblica e sarà molto amata dai suoi sudditi.

Toccherà proprio a Violante scoprire a Siena alcuni documenti (tra i quali uno del celebre scienziato e scrittore Magalotti) che documentano le calunnie diffuse su Marguerite Louise dal bigottismo dei Medici.

Ma se i Medici hanno sicuramente enfatizzato se non addirittura inventato molti degli atti attribuiti a Marguerite Louise il cui comportamento nell’ottica di una morale più moderna può risultare tranquillamente ridimensionato, non per questo, a mio parere, il giudizio complessivo della Banti è molto lusinghiero, nei confronti di Marguerite.

La morale secentesca avrà pure esagerato, con lei, ma quello che Anna Banti scrive a pag. 48 non mi par proprio vada molto sul leggero : “…dalla prima adolescenza. Fin da allora eravate, malgrado le fantasticherie romanzesche, bene attenta ai vostri interessi: oggi vi si attaglierebbe il ruolo di una dattilografa americana divenuta padrona di pozzi di petrolio, pluridivorziata, lagnosa e tirannica”.

E, tornando alla nota introduttiva, leggiamo: “In fondo, questa cugina del Re Sole mi risultava, malgrado l’evidenza del suo rango, altrettanto sconosciuta di una qualunque borghesuccia attuale che si butta dalla finestra, va a sapere perchè.” Aggiungendo più avanti “alla fine conclusi che se proprio insistevo ad occuparmene […] dovevo reinventarla”.

In una intervista, la Banti dice che i suoi romanzi sono “interpretazioni storiche” piuttosto che “romanzi storici”. Per come la vedo io, la Marguerite che emerge dalla “interpretazione storica” della Banti non è che sia granchè meglio, mi pare, di quella figura di Gran Corruttrice che i Medici tendevano ad accreditare: la Marguerite bantiana è una femminetta noiosamente “lagnosa e tirannica” i cui capricci risultano oltre che inutili anche autodistruttivi, incapace di amare, incapace di essere realmente trasgressiva.

… Sbaglierò ma io ho chiuso il libro convinta che le figure femminili di Anna Ludovica e Violante Beatrice di Baviera — con tutti i loro difetti e i loro problemi — stavano molto più simpatiche di Marguerite, alla Banti. Perchè si tratta di figure discutibili quanto si vuole ma, ciascuna con le proprie modalità, figure di donne forti che sono riuscite ad utilizzare tutti gli spazi concessi dai rigidissimi vincoli imposti a tutte le donne del loro tempo in generale e quelli imposti alle donne della loro condizione sociale in particolare.

La “ribelle” Marguerite, con il suo esibizionismo e tutta la sua smania di libertà, non ottiene come risultato, alla fine, che di vivere come prigioniera in un convento e di morire “sola e dimenticata”. Le “obbedientissime” Anna Ludovica e Violante Beatrice riescono, al contrario, la prima (l’Elettrice Palatina) ad arrivare al governo del Granducato di Toscana e a lasciare un segno nella storia diventando una delle figure medicee ancora oggi più apprezzate e la seconda (Violante) lascia il governatorato di Siena “compianta e rimpianta”, con “modi del congedo sereni e controllati”, con un “sorriso timido” ed occhi “teneri, larghi e limpidi”.

Nota a proposito del libro: La camicia bruciata è un testo non più reperibile nelle normali librerie. Se si è molto fortunati lo si può forse trovare in qualche bancarella o nelle librerie di antiquariato. La copia che ho io è una vecchia edizione Mondadori – De Agostini del 1987, collana “‘900 – Capolavori della narrativa contemporanea”. Note introduttive di Attilio Cannella.

Anna Banti, foto

Altri punti di vista (anche molto diversi dal mio) su La camicia bruciata:

IL SOGNO DI MIA MADRE – ALICE MUNRO


Alice MUNRO, Il sogno di mia madre (titolo originale The Love of a Good Woman), traduz. di Susanna Basso, Einaudi, Collana ET, p.366, ISBN 88-06-17515-7

Ho appena terminato di leggere un’altra raccolta di racconti di Alice Munro, “Il sogno di mia madre”. Otto storie di donne. Alcune delle quali molto dure.
Non ho molto da aggiungere a quello che già avevo scritto a proposito di “Nemico, amico, amante” se non che da questa lettura ho avuto la definitiva conferma della altissima levatura di questa scrittrice canadese.

Ho voglia però di riportare due pareri che su di lei hanno espresso due autori che apprezzo molto, Pietro Citati ed Antonia Byatt e che condivido totalmente.

  • “Da Henry James, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è l’enigma” (Pietro Citati)
  • “[I suoi racconti] contengono elementi del probabile e insieme fratture e disastri. L’interesse della Munro è da sempre rivolta al tessuto della “normalità” sia al colpo di forbici che la taglia di netto” (Antonia Byatt)

Anche questa volta, come già mi era successo con Nemico, Amico, Amante, trovo che l’immagine scelta da Einaudi per la copertina, anche se molto bella, non rispecchi per nulla lo spirito e il contenuto del libro. Ma son gusti personali.

EUTANASIA RUSTICANA – RICCARDO ARIOTI

Copertina libro
Riccardo ARIOTI, Eutanasia rusticana. La guarigione di Augusto Ammirabile, ed. SOVERA, Roma, 2006, p.158, ISBN 88-8124-653-X

Il risvolto di copertina dice ben poco dell'autore. Solo che "è nato in Sicilia e vive a Roma".
Io conosco Riccardo Arioti dai tempi del liceo. Lo dichiaro subito, perchè è elemento che non va taciuto. Scrivere cosa si pensa del libro di un amico non è la stessa cosa che scrivere cosa si pensa del libro di un perfetto sconosciuto.

Riccardo ha scritto un libro non facile, a tratti molto duro, che può anche risultar sgradevole, con uno stile di scrittura espressionista in cui il grottesco di certe situazioni è tale da riuscire a virare persino nel comico.

Protagonista della storia è Augusto Ammirabile, figlio di Armando, ricco banchiere interessato solo agli affari e al denaro e che "non ne aveva mai voluto sapere di avere tra i piedi il figlio". Un padre odioso che ha sempre disprezzato Augusto, frustrato tutti i suoi desideri e le sue aspirazioni e che lo apostrofa sempre con un "imbecille".

Augusto, dominato da questa figura paterna persecutoria che vede come "un uomo di ferro, un uomo potente, un uomo capace di risolvere ogni situazione" e nei cui confronti nutre un potentissimo senso di colpa, tanto più devastante quanto privo di motivazioni apparenti  ha sviluppato un'indole fantasiosa ma anche fortemente misogina e con inquietanti tratti paranoici.

Ma Augusto a sua volta ha un figlio, Armando (stesso nome del nonno), affetto fin da bambino da una malattia che ne ha intaccato a fondo le capacità intellettive e lo ha reso del tutto  non autosufficiente. La presenza di questo figlio, rifiutato dal nonno Armando per il quale "semplicemente non esisteva; non sapeva nemmeno se si trovasse in un manicomio, di quelli dove buttano le chiavi, o nella fossa delle Marianne, chiuso in una bara senza colpa nè provviste"  cambia radicalmente la vita di Augusto.

Questi tre uomini sono gli attori principali del romanzo — le figure femminili essendo  infatti molto marginali. Tre uomini che di generazione in generazione si trasmettono e replicano di padre in figlio non soltanto il nome ma anche — ciascuno con modalità diverse — la incapacità di relazionarsi con i propri simili ed in generale con il mondo esterno.

Tra Augusto ed il figlio Armando di cui si è fatto completamente carico si instaura a poco a poco un rapporto strettissimo che è il nucleo centrale del romanzo. Questa coppia padre-figlio si connota sempre di più come una relazione simbiotica ed autocentrata in cui il rapporto ha come presupposto l'esclusione del mondo esterno e come condizione di sopravvivenza la reciproca dipendenza: "Sono Augusto, questo è mio figlio Armando…siamo due persone felici, ciascuno ha bisogno dell'altro e non siamo mai soli" .

Tutta la macchina narrativa è allestita per escludere ogni "rumore" esterno a questo singolarissimo rapporto di coppia: Augusto è largamente benestante, non ha economicamente bisogno di lavorare.  Questo consente a lui di dedicarsi completamente al figlio ed all'autore del libro di dedicarsi completamente al tema delle dinamiche relazionali.  Villa Selva e la tenuta dalla quale è circondata sono amministrate e curate dal padre (lui si limita ad abitarci). Il feudo è enorme ma Augusto praticamente non lo conosce ("il fondo agricolo una appendice ornamentale della dimora") e ci si va solo per cogliere la frutta e la verdura che servono per i pasti del figlio.

Eliminato ogni riferimento che consenta di collocare con precisione la vicenda nel tempo e nello spazio: solo il nome di alcune piante (ulivi, aurucarie), l'accenno al mare e la descrizione di lunghe giornate di sole cocente consentono di ipotizzare che il romanzo si svolga in una (imprecisata) regione del sud di Italia. Escluso ogni riferimento temporale (solo un articolo di giornale che dice che "L'Italia ha dichiarato guerra alla Germania").

Centro del mondo è dunque il microcosmo di Villa Selva, in cui Augusto ed il figlio Armando trascorrono le loro giornate scandite dagli implacabili rituali dettati dai bisogni primari: nutrire Armando, lavarlo, vestirlo, vegliare sul suo sonno, assisterlo nelle laboriose necessità evacuatorie.

Ad un certo punto però qualcosa giunge a rompere in modo drammatico questo equilibrio che comunque si è instaurato, rimescola tutte le carte in tavola e viene a stravolgere l'esistenza di Augusto e di Armando… ed a questo punto, ovviamente, mi fermo.

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  • LA VERA SORPRESA

    Sandor Marai, foto

     

    “… la vita si ripete meravigliosamente, nulla accade come ci si aspetterebbe, niente più ci sorprende. Di vere sorprese, pensava, ce n’è solo una nella vita: è quando scopriamo di essere anche noi, proprio noi, mortali. ”

    Sándor Márai, Divorzio a Buda