LA MIA ROTE FADEN

Hannover - Rote Faden
Hannover
La “Rote Faden” dipinta sui marciapiedi del centro.
Seguendola si viene condotti in un giro di circa quattro km.
che tocca tutti i punti di principale interesse

Un paio di mesi fa ho ricevuto un messaggio privato da parte di una occasionale frequentatrice di questo blog che, tra le altre cose, si chiedeva e mi chiedeva se anche io abitassi in Germania. Aveva notato una notevole presenza di post su letteratura tedesca, viaggi in Germania realizzati o desiderati. Lei è un’italiana che vive — mi ha scritto — in Germania. Le sarebbe piaciuto parlare dei tedeschi e della Germania tra noi italiane che vivono in Germania.

Le ho detto che sono italiana, che vivo a Palermo ma che questo non mi impedisce di interessarmi alla Germania e… da allora è sparita.

Qualche giorno fa invece, un’altra frequentatrice del blog, italiana che vive a Parigi e che conosce bene il mio amore per la Francia, Parigi, per la cultura ed in particolare la letteratura francese in una mail mi diceva, scherzando: “… ho notato dal tuo blog che negli ultimi tempi hai sviluppato un’insana passione per la Germania…”.

L’aggettivo “insana” era scritto — ovviamente e tengo a ripeterlo — in modo scherzoso.

Però queste due mail molto diverse ma in qualche modo anche abbastanza simili mi hanno fatto un po’ riflettere.

E’ proprio vero infatti quello che le mie due interlocutrici hanno notato, e cioè il sovraffollamento di post sulla Germania, la sua letteratura, la sua storia.

I motivi di ciò sono più di uno, tutti talmente semplici da essere persino banali. Ne elenco solo qualcuno, e non necessariamente in ordine di priorità. Per la serie: “cambiando l’ordine dei fattori… etc.”

  • Innanzitutto mi interessa l’Europa e il ruolo della Germania nella storia e nella cultura europea è stato ed è enorme.
  • Credo di avere una discreta conoscenza della storia e della letteratura italiana e francese che ho sempre amato moltissimo.Per la musica classica sono, invece, sempre stata “tedesca” fino al midollo, la musica francese l’ho, infatti, apprezzata solo molto tardi, e soprattutto per merito di Proust. Che adorava Wagner (e ce ne sarebbe da dire, su questo, ma ora non è il momento) ma prese Faurè e Franck per il suo Vinteuil…Tornando a noi: ad un certo punto mi sono accorta che per quanto riguardava la letteratura tedesca, a parte i grandi classici tipo Kleist, Schiller, Goethe, Mann e qualche altro (che sono ormai,  almeno così voglio ben sperare, Patrimonio Universale dell’Umanità) sconoscevo quasi tutto degli scrittori contemporanei (anche qui, con alcune eccezioni costituite soprattutto da Grass e Böll), che della Germania nazista avevo una conoscenza troppo superficiale, frammentaria ed ormai abbastanza stereotipale; che della Germania divisa (dal Muro) e della DDR sapevo poco o nulla (diciamolo: mi sono scoperta di una ignoranza abissale), che insomma i miei “vuoti” erano colossali.

    Ho perciò deciso di cominciare a cercare di rimediare.

    Inoltre, non ero mai stata in Germania.

    Parigi mi ha attirato sempre come una calamita e quindi tutte le volte che potevo concedermi una gita fuori porta andavo a Parigi.

    Poi c’è la questione della lingua.

  • Non che io sia in grado di parlare correntemente il francese, ohibò (per leggerlo invece non ho problemi) ma insomma quando vado in Francia sono in grado di sostenere un qualche brandello di conversazione, anche se non troppo sofisticata mentre in Germania no e questo mi ha sempre trattenuta.Poi però mi è successo che sono stata per ben due volte a Budapest, splendida città in sono sopravvissuta egregiamente e mi sono detta: “Se sono riuscita a stare quasi un mese in mezzo a persone che parlano quasi esclusivamente l’ungherese, potrò cavarmela anche in Germania”.Mi sono presa di coraggio e l’anno scorso sono partita alla volta di Berlino. Che mi ha incantata (l’ho già scritto e ripetuto sino alla nausea e lo ripeterò ancora), in cui non ho avuto grossi problemi di … sopravvivenza linguistica e da allora ho deciso di vedere quanto più posso, della Germania.

    Non tutta, certo, perchè è enorme e con moltissime città grosse e molto importanti, però almeno le città considerate più significative voglio vederle, mi sono detta.

    E dunque a maggio sono stata a Monaco, e quest’estate Amburgo, Lubecca, Hannover… La prossima volta sarà (almeno lo spero) il turno di Lipsia e Dresda.

    Contemporaneamente, continuo a cercare di approfondire letteratura, cinema, storia. Ho parecchi libri già in lista d’attesa.

    Visitare città come Hannover, Monaco e soprattutto Amburgo dopo aver letto il libro di Sebald   Storia naturale della distruzione …. o La Germania bombardata di Jorg Friedrich significa vederle con occhi davvero molto, molto diversi da quelli di un normale turista.

  • Analogo interesse ed analoga ignoranza ho scoperto avere per la la recente storia e letteratura russa(anche qui, a parte i Grandi Classici che tutti conosciamo).Però Russia e dintorni (il territorio, tanto per intenderci, che fino a ieri era costituito dall’Unione Sovietica) rappresentano un ambito sterminato, e benchè faccia del mio meglio per saperne di più, l’impresa è ancora più ardua e le mie lacune molto più difficili da colmare. Anche se ci provo, eh, ci provo.
  • Il 99% delle mie letture di storia e letteratura italiana e francese risalgono a prima dell’apertura di questo blog, ed è questo il motivo per cui qui non parlo quasi mai di scrittori italiani e poco di scrittori francesi. Almeno, di quelli che prediligo: li ho letti e straletti tutti molto tempo fa. Però è cominciata per me l’epoca feconda delle riletture, e dunque non è escluso che tra poco comincerò ad alluvionare il blog di scrittori francesi ed italiani.E gli inglesi?! Gli inglesi per me costituiscono un mondo a parte, e prima o poi ne parlerò in un “a parte”. Perchè gli inglesi hanno anche loro — come tutti, del resto e per fortuna — una loro specificità che va rispettata.

Ed infine:

  • La scelta che di volta in volta faccio dei libri da leggere o dei film da vedere non è in funzione del blog.Al contrario: sul blog scrivo soltanto dei libri o dei film che vado leggendo (e nemmeno di tutti). Questo significa, ovviamente, che a volte il blog può risultare monocorde e (perchè no?) anche monotono.Ma è così che ho deciso di comportarmi sin dal primo giorno in cui ho aperto il blog, applicando cioè la mia regola personale secondo la quale è il blog che deve servire me, e non io il blog.

    Questo può avere come effetto che i visitatori ad un certo si stufino e non tornino, ma è molto meglio — per me  certamente  ma  credo non solo per me — che io scriva di cose che realmente mi interessano e che non scriva pensando al contatore.

    Se il contatore mi dà buoni numeri ne sono felice, ça va sans dire. Se il contatore cala, mi dispiace ma non sono disponibile a cambiare modalità di postare solo per questo motivo.

Per concludere: credo che  per  parecchio tempo parlerò ancora molto di Germania, di seconda guerra mondiale, di Russia, di ex Unione Sovietica…

HEIMAT

Heimat

Finalmente ho cominciato a vederlo anche io, sistematicamente e con attenzione, approfittando del fatto che i DVD di tutta la serie si possono acquistare in edicola con scadenza quindicinale, ottimamente doppiati in italiano.

Il trailer che ho inserito è invece in tedesco con sottotitoli in inglese.

Assieme ai telefilm americani — l’unica cosa ormai che trovo guardabile in televisione — ci sono un paio di serie che mi piacciono davvero molto — la visione di Heimat costituisce la mia principale occupazione serale.

Con Heimat sono arrivata al quarto film della prima serie (Heimat 1).

Non voglio parlarne adesso, è ancora troppo presto.

Posso solo dire, per ora, che la visione di questo che, con Berlin Alexanderplatz (1980) di Fassbinder, è stato uno dei due grandi eventi cinetelevisivi del decennio 1980-89 e — dicono — una delle serie televisive più apprezzate da Stanley Kubrick, è davvero un’esperienza straordinaria.

Heimat

Chi volesse vedere Heimat e non avesse la pazienza, la costanza o la voglia di andare in edicola ogni quindici giorni, può acquistare tutta la serie direttamente >> qui

Qualche link per saperne di più su quest’opera colossale:

  • La scheda su imdb >>
  • Ottime pagine in italiano sull’ “epopea di Schabbach” >>
  • Su YouTube, stralci di un’intervista al regista e sceneggiatore Edgar Reitz (con traduzione italiana) >>

LA PROMESSE DE L’AUBE – ROMAIN GARY

La promesse de l'aube
Romain GARY, La promesse de l’aube, Gallimard, Folio Plus Classique, numéro 169, 2009

Devo alla lettura di quello splendido libro di Tzvetan Todorov Memoria del male, tentazione del bene di cui ho già parlato >> qui la mia scoperta di Romain Gary.

Todorov considera infatti Romain Gary una di quelle figure esemplari di uomini e di donne  del Novecento che — come Vasilij Grossman, Primo Levi, Margarete Buber-Neuman — pur avendo vissuto in un periodo storico atroce e pur avendo attraversato esperienze orrende sono riusciti a mantenere intatto il senso dell’umano e a non lasciarsi prendere dal demone del manicheismo.

Non poteva perciò non venirmi la curiosità di leggere qualcosa di Gary e questo La promesse de l’aube è il mio primo approccio con quest’autore.

In questo romanzo autobiografco o, se preferite, autobiografia romanzata, Romain Gary (o più precisamente Romain Kacew, perchè Gary non era che uno dei suoi pseudonimi) racconta la propria infanzia e la propria giovinezza dai primi anni trascorsi a Vilnius, in Lituania, dopo aver percorso tutta la Russia con la madre Nina, un’ex mediocre attrice ebrea abbandonata dall’uomo che è il padre di Romain e che il bambino non ha mai conosciuto.

La donna alleva il proprio figlio da sola, tra mille problemi e difficoltà. Nina ha un vero e proprio culto della Francia. Non l’ha mai vista, ma ne conosce lingua, cultura e storia quanto e più di una francese autentica. Stabilirsi in Francia, portare il figlio in Francia, vederlo un giorno Ambasciatore francese è il suo sogno. E finalmente il suo sogno si realizza: madre e figlio finiscono per riuscire ad arrivare in Francia e a stabilirsi a Nizza.

Madre e figlio contano, per sopravvivere, sulla vendita di un antico servizio d’argento che sono convinti valga milioni, ma non riescono a venderlo, non lo vuole nessuno, nemmeno gli antiquari. La madre di Romain dovrà allora ancora una volta inventarsi mille mestieri finendo per aprire un piccolo Hotel. Diventa diabetica, la sua salute si deteriora sempre di più. Le mille privazioni, i sacrifici, hanno reso questa donna non ancora sessantenne una vecchia.

Jules Dassin  La promesse de l'aube

Romain rappresenta realmente tutto, per sua madre, che nel figlio investe tutte le sue speranze, i suoi desideri; per lui, per non fargli mancare nulla nemmeno nei momenti di più nera miseria fa mille sacrifici, progetta per lui un avvenire in cui il suo ragazzo sarà come minimo un ambasciatore ed un grande scrittore (e Romain lo diventerà davvero, ambasciatore e scrittore). Si barcamena in mille modi per guadagnare del denaro, sacrificando la sua vita personale e la sua salute per l’avvenire del figlio, che non manca di nulla e che deve solo pensare a studiare e a scrivere.

Romain diventa allievo ufficiale alla scuola di aviazione di Salon-de-Provence e promette alla madre che tornerà ufficiale, ma benchè sia uno dei primi del proprio corso gli viene rifiutata la promozione perchè è uno straniero naturalizzato francese da troppo poco tempo, e rimane soltanto caporale. Come fare a comunicare questa grande delusione alla madre? A Romain non rimane che inventarsi una bugia.

Quando scoppia la seconda guerra mondiale e non rassegnandosi alla sconfitta della Francia parte per l’Inghilterra per continuare la guerra a fianco degli inglesi come semplice caporale, lasciando la madre già molto malata.

Scrive molti libri di cui la madre è fiera. Rischia la vita molte volte, si ammala gravemente ma riuscirà a guarire.

Durante tutti gli anni di lontananza e di guerra la madre riesce comunque a non fargli mancare il suo sostegno. Gli invia tante lettere, non smette mai di incoraggiarlo, di dirgli quanto sia fiera di lui.

Raggiunta l’aviazione della Francia Libera combatte in Gran Bretagna, in Africa, termina la guerra con il grado di capitano, è nominato Compagnon de la Libération. Si tratta di un’onorificenza istituita dal Generale De Gaulle e come prestigio è seconda solo alla Legione d’Onore.

Jules Dassin  La promesse de l'aube

Considerato un eroe nazionale, si vede offrire l’ingresso in diplomazia per “servizi eccezionali”. In Inghilterra ha intanto   pubblicato Educazione europea, un romanzo sulla guerra partigiana in Polonia scritto nelle pause tra un’incursione aerea e l’altra.

Tornato finalmente a Nizza, alla fine della guerra, fa una scoperta che, una volta di più, gli testimonia il grande amore di sua madre.

Nel romanzo di Gary la guerra è certo presente, soprattutto nella seconda parte in cui Gary parla delle incursioni per bombardare la Germania, dei suoi rapporti con i colleghi della RAF, delle tante morti cui ha dovuto assistere.

Ma La promesse de l’aube (>> qui l’edizione italiana del libro) è però e soprattutto un libro sull’amore materno. Su come una madre straripante d’amore e di ambizione riesce a fare arrivare il figlio al di là di quanto forse lui stesso avrebbe potuto sperare.

Per suo figlio essa crede in un destino straordinario nutrito di tutte le speranze deluse di una ex attrice ebrea esiliata. E’ un amore materno, il suo, al tempo stesso esuberante e costruttivo ed è questo il nucleo centrale, l’ancoraggio di tutto il romanzo. Il giovane Gary non giudica e nemmeno commenta il comportamento della madre, si lascia trasportare da esso con fiducia e riconoscenza.

Questa “promessa dell’alba” che l’autore ha scelto come titolo è una doppia promessa: la promessa che la vita ha fatto al narratore per mezzo di una madre appassionata ma anche la promessa che egli ha tacitamente fatto a sua madre di riuscire a compiere tutto quello che lei si aspetta da lui per quanto riguarda la realizzazione di se stesso.

Il ritratto — affettuoso ed ironico — che emerge dalle pagine di Gary è quello di una russa idealista, sognatrice ed allo stesso tempo dotata di un eccezionale senso pratico, innamorata della Francia, una donna in cui coraggio straordinario e grande ingenuità, indomabile energia, spiccato senso degli affari, credulità, sono tutti mescolati.

Il romanzo di Gary esprime l’amore madre-figlio (e viceversa) con grandissima tenerezza, sensibilità ed anche humor (ci sono pagine addirittura esilaranti) ma…

… ma i bambini, i ragazzi allevati da questo genere di madri restano sempre, dice anche Gary, gravati di un debito che non sono mai certi di essere riusciti a pagare del tutto.

Diventati uomini, saranno poi sempre alla ricerca (quasi sempre vana) di una donna che sia in grado di riempire il vuoto lasciato da una madre così.

“Avec l’amour maternel, la vie vous fait à l’aube une promesse qu’elle ne tient jamais. On est obligé ensuite de manger froid jusqu’à la fin de ses jours. Après cela, chaque fois qu’une femme vous prend dans ses bras et vous serre sur son coeur, ce ne sont que des condoléances. On revient toujours gueuler sur la tombe de sa mère comme un chien abandonné. Jamais plus, jamais plus, jamais plus. Des bras adorables se referment autour de votre cou et des lèvres très douces vous parlent d’amour, mais vous êtes au courant. Vous êtes passé à la source très tôt et vous avez tout bu. Lorsque la soif vous reprend, vous avez beau vous jeter de tous côtés, il n’y a plus de puits, il n’y a que des mirages. Vous avez fait, dès la première lueur de l’aube, une étude très serrée de l’amour et vous avez sur vous de la documentation. Je ne dis pas qu’il faille empêcher les mères d’aimer leurs petits. Je dis simplement qu’il vaut mieux que les mères aient encore quelqu’un d’autre à aimer. Si ma mère avait eu un amant, je n’aurais pas passé ma vie à mourir de soif auprès de chaque fontaine.”.

“Con l’amore materno, la vita vi fa all’alba una promessa che non mantiene mai. Si è in seguito obbligati a mangiar freddo fino alla fine dei propri giorni. Dopo quello, tutte le volte che una donna vi prende tra le braccia e vi stringe al cuore, non sono che condoglianze. Si torna sempre a guaire sulla tomba della propria madre come un cane abbandonato. Mai più, mai più, mai più. Braccia adorabili circondano il vostro collo e labbra dolcissime vi parlano d’amore, ma voi sapete. Siete passati molto presto dalla sorgente ed avete bevuto. Quando la sete vi riprende, avete un bel gettarvi da tutte le parti, non ci sono più pozzi, non ci sono che miraggi. Avete fatto, alla prima luce dell’alba, uno studio molto approfondito dell’amore e portate con voi tutta la documentazione. Io non dico che occorra impedire alle madri di amare i loro piccoli. Dico semplicemente che sarebbe meglio che le madri abbiano anche qualcun altro da amare. Se mia madre avesse avuto un amante, io non avrei trascorso la mia vita a morire di sete vicino ad ogni fontana.”

Ho letto questo libro in francese per la semplice ragione che quando l’ho visto sugli scaffali della Feltrinelli l’ho comprato subito, senza chiedermi se esistesse anche un’edizione italiana (che invece esiste, come ho scoperto dopo, e che dunque segnalo). E’ per questo motivo che la traduzione della citazione è mia, abbastanza rozza e di questo mi scuso.

Sono però decisamente contenta di aver acquistato questa edizione Folioplus classiques, perchè il volume contiene non solo il testo integrale ma anche, in appendice, una notevole mole di materiale biografico, storico, e di approfondimento.

In copertina, la bella foto di Romain Gary con la sua seconda moglie Jean Seberg scattata da Raymon Depardon nel 1968

E, giustappunto, nel volume Gallimard c’è anche un interessantissimo studio iconografico intitolato De la photographie au texte che analizza proprio questa foto di copertina e parla di “ce décalage […] entre une tendresse indéniable et une absence sourde” (ma mi accorgo che sto divagando e rischio di andare alla deriva).

Romain Gary  Jean Seberg
Raymond Depardon
Jean Seberg et Romain Gary, 1968
Photo © Raymond Depardon/Magnum

Le altre immagini del post sono tratte dal film di Jules Dassin Promise at Dawn del 1970 in cui Nina Kacew, la madre, è interpretata da Melina Mercouri e Romain a 25 anni da Assi Dayan.

Jules Dassin Promise at dawn
  • L’autore >>
  • Il libro in francese >>
  • La scheda del libro nell’edizione italiana >>
  • Un bell’articolo di Daria Galateria su “La doppia vita di Romain Gary” >>
  • La scheda del film di Dassin su imdb >>
  • Un breve video su Romain Gary e  La promesse de l’aube

COME SI DIVENTA NAZISTI – WILLIAM SHERIDAN ALLEN

Come si diventa nazisti

William Sheridan ALLEN, Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935 (tit. orig. The Nazi Seizure of Power. Experience of a Single German Town 1930-35), traduz. Luciana Pecchioli, Introduzione di Luciano Gallino, p. 298, Einaudi, Collana Einaudi Tascabili.Saggi, 2005, 9788806177690

Da quali segnali, da quali sintomi si capisce se una nazione sta precipitando nella follia?

Un libro di più di quarant’anni fa ma (purtroppo) di un’attualità davvero sconcertante ci aiuta a capirlo e dimostra come sia illusorio e profondamente sbagliato pensare “a me, a noi questo non potrebbe, non potrà mai succedere”.

E’ l’eterna domanda del “come è stato possibile tutto questo?”.

Questo libro ci aiuta a capire che certe cose non solo sono possibili, ma possono sempre ripetersi. In altri tempi, in altri paesi, con altre persone, con altre modalità.

Il problema è che coloro che le rendono possibili non si ripresentano mai con gli stessi vestiti e dunque l’altro eterno problema è: “come riconoscerli? Come cogliere analogie e differenze senza prendere cantonate sottovalutandoli o sopravvalutandoli? Come riuscire a non minimizzare ma nemmeno ad enfatizzare? Come riuscire a non essere ingenui ma nemmeno paranoici?”

Credo che il libro di Allen, oltre a fare scorrre un brivido lungo la colonna vertebrale, dia una grossa mano d’aiuto, nel decodificare alcuni segnali. Ed è per questo che ne parlo.

Dopotutto, non esiste una legge che dica che si debba vivere e scrivere solo dei best-seller del momento, no?

Lo storico americano William Sheridan Allen pubblicò questo libro dal titolo The nazi seizure of power. Experience of a single German town 1930-1935 nell’ormai lontano 1965.

In esso ricostruiva la storia di una media cittadina tedesca nel periodo dell’ascesa del nazismo.

The Nazi Seizure of Power

Non si tratta di uno studio sulle cause o le origini del Terzo Reich, ma di una ricerca per spiegare il processo attraverso il quale i tedeschi di una piccola città diventarono seguaci del nazismo.

Allen tiene a precisare (lo scrive nella Prefazione) che “Una singola unità non può mai rispecchiare adeguatamente l’intero […] Tuttavia in essa si riscontrano caratteristiche rappresentative”

Il libro prende in esame un periodo di tempo ben delimitato (dal 1930 al 1935), lascia sullo sfondo i grandi personaggi e i grandi eventi della storia gettando invece luce sul mondo della quotidianità e della vita reale troppo spesso dimenticato nelle grandi sintesi storiografiche.

I grandi capi nazisti (da Hitler a Göring, Himmler, Goebels e gli altri) rimangono sullo sfondo, mentre tutta l’attenzione di Allen è concentrata su uomini e donne comuni, gli abitanti della piccola città.

Anche il territorio della ricerca è ben delimitato. Viene presa in esame la cittadina di Nordheim nell’Hannover cui però nel testo viene dato il nome fittizio di Thalburg. Ricordiamoci infatti che il libro fu realizzato negli anni ’60, e gli eventi di cui Allen parlava erano ancora troppo recenti.

Nordheim (che d’ora in poi anche io chiamerò Thalburg) era, all’inizio degli anni ’30, un piccolo centro che all’epoca della repubblica di Weimar contava circa diecimila abitanti. Una cittadina tranquilla, assolutamente “rispettabile”, che godeva di una solida ricchezza dovuta soprattutto alla presenza di molti uffici pubblici e al fatto d’essere un importante snodo del traffico ferroviario: due fattori che garantivano ai suoi abitanti impieghi fissi alle dipendenze dello Stato.

Il libro è strutturato in due parti.

La prima parte (La morte della democrazia) inizia col darci tutta una serie di informazioni sull’ambiente e sulla città. Tracciando insomma quello che chiama “Anatomia di una città“, Allen ci fornisce il quadro della situazione che ci consentirà di comprendere — dal terzo capitolo intitolato “Entrano i nazisti” — da dove si è partiti per arrivare, nel giro di pochissimi mesi, ad una situazione in cui il partito NSDAP (Nationalsocialistische deutsche Arbeitenpartei – Partito nazionalsocialista dei lavoratori) riesce a diffondersi in una città in cui il partito SPD (il Partito Socialdemocratico) è già ben radicato.

Nazi propaganda

I nazisti sono, all’inizio, uno sparuto gruppetto. Eppure, giorno dopo giorno, il partito di Hitler riesce ad impadronirsi della città sfruttando la paura della depressione e la disoccupazione dilagante, strumentalizzando il forte sentimento nazionalistico e l’amor di patria manifestando contro il trattato di Versailles, utilizzando i giornali per la propaganda, mescolando sapientemente violenza e propaganda mentre l’SPD  inizia a perdere sempre pù voti e smette di lottare contro un partito antisemita, violento e rivoluzionario.

La seconda parte (L’introduzione della dittatura) inizia con le ultime elezioni in Germania nel 1933, anno in cui Hitler divenne cancelliere e l’NSDAP inizia a lavorare per instaurare una dittatura in una città che si ritrova totalmente soggiogata al partito e nella quale ormai soltanto pochissime persone, totalmente emarginate, militano ancora per l’SPD.

Quello che salta subito agli occhi (e che d’altra parte dice lo stesso Allen) è che quello che è successo è un colpo di stato “a rate”.

Il colpo di stato, la rivoluzione che trasformò la democrazia di Weimar in una dittatura avvenne soltanto ***dopo** che gli elettori ebbero spianato la strada.

“Forse la causa di tutto questo fu che non c’era stato un colpo di stato nazista; ci fu, invece, una serie di azioni quasi legali, lungo un periodo di almeno sei mesi, nessuna delle quali costituì di per se stessa una rivoluzione, ma il complesso delle quali trasformò la Germania da una repubblica a una dittatura. Il problema era dove tracciare la linea di divisione: ma allorchè la linea poté essere tracciata con chiarezza, la rivoluzione era un fatto compiuto, i potenziali organi di resistenza erano stati distrutti uno  per uno, ed una resistenza organizzata non era più possibile.”

Quando i cittadini, gli elettori si resero conto di ciò che era accaduto era ormai troppo tardi.

Erano ormai tutte vittime. Ma anche tutti complici.

Nazi propaganda

Il libro di Allen spiega come in poco tempo si possa distruggere il tessuto democratico di una comunità sino ad allora sostanzialmente tranquilla. Di fronte alla crisi economica, all’emergere di un’abile propaganda capace di agitare spauracchi e paure nella classe media, una società democratica come quella di Thalburg cambiò volto rapidamente per trasformarsi in una comunità regolata dalla violenza e dal razzismo.

Uno degli obiettivi principali dei militanti di Hitler fu quello di arrivare alla disgregazione della comunità nel suo complesso.

Recidere tutte le possibilità di relazioni sociali, isolare gli individui, frantumare tutti i gruppi sociali e quindi associazioni di ogni tipo (da quelle culturali a quelle artigiane etc. ai sindacati…) fu uno strumento efficace e micidiale per l’instaurarsi ed il consolidarsi della dittatura.

Raggiunto questo obiettivo, ogni individuo sarebbe stato (ed in effetti fu) in relazione non con l’altro, ma con lo stato e con il dirigente che era diventato la personificazione dello stato.

Spezzare tutti i legami sociali consentiva il controllo totale sugli individui, rendeva facile impedire la diffusione del malcontento e l’organizzazione del dissenso. La “normalizzazione” ed il controllo della stampa e del sistema di istruzione scolastica serviva anch’essa a spezzare la coesione sociale.

L’obiettivo era dunque cancellare l’intero complesso dei rapporti sociali per trasformare i cittadini in una massa disorganizzata di individui isolati come monadi.

L’obiettivo fu pienamente raggiunto, e quando i cittadini di Thalburg si resero conto di tutto questo… era ormai troppo tardi.

Per realizzare la sua ricerca Allen ha analizzato da vicino e nei minimi dettagli, come uno scienziato al microscopio, giorno dopo giorno, tutti gli avvenimenti accaduti a Thalburg dal 1930 al 1935.

Ha interrogato centinaia di testimoni, ha consultato e passato al setaccio i giornali locali e gli archivi della città, individuando così i meccanismi di una macchina implacabile che ha portato alla trasformazione del Reich, alla fine della democrazia e al trionfo della dittatura.

E’ davvero inquietante rendersi conto, pagina dopo pagina, di quanto facile possa essere per pochi uomini senza scrupoli arrivare ad imporre la loro legge a una nazione intera e come, lentamente, insidiosamente ma inesorabilmente, i traquilli cittadini di Thalburg diventarono nazisti.

“Quale dei tanti piccoli atti esattamente aveva fatto traboccare la bilancia verso la dittatura?”

“Quando è troppo tardi, è troppo tardi”

Si può apprendere molto, dall’esperienza di Thalburg.

Nell’edizione italiana Einaudi che ho letto, il libro di Allen è preceduto da un’ottima introduzione di Luciano Gallino, ed è con le sue parole che voglio chiudere:

Esso trasmette la convinzione che la distruzione d’una comunità politica, la fine della democrazia, è sempre possibile; che non ci si può minimamente illudere come troppe volte ritualmente si afferma che a sbarrare la strada a tale possibilità siano le condizioni storiche affatto differenti, il livello più alto di sviluppo economico, le istituzioni forgiate in Europa dopo il 1945 a difesa della democrazia, una supposta maggior maturità democratica dei cittadini. Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà; tra l’impulso di ridurre l’angoscia del futuro e del dover scegliere, e la volontà di non sottostare a nessun capo che decida in nostra vece quel che va bene per noi. (Dall’introduzione di Luciano Gallino)

Nazi propaganda
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QUELLI CHE LOST [2]

Lost  Quarta Stagione

A proposito di LOST, un frequentatore di questo blog che preferisce firmarsi "__M__" mi ha inviato una mail che contiene spunti interessanti e che a proposito della questione "spiegare i misteri o lasciarli insoluti? Ed eventualmente, quanto spiegare e quanto lasciare alla libera interpretazione degli spettatori?" esplicita un punto di vista ancora più… come posso dire… radicale del mio 

Ho chiesto ad __M__ l’autorizzazione a pubblicare la sua mail, per poter condividere le sue idee  con tutti noi.

Ha detto si e lo ringrazio.

Ho lasciato il testo così come l’ho ricevuto.

Di mio ci sono i grassetti (ho voluto sottolineare i passaggi che mi hanno interessata maggiormente), la scelta e l’inserimento delle immagini e l’aggiunta di alcuni link che hanno solo una funzione "di servizio".

Detto che ho letto con interesse il tuo post su Lost, e detto che sono anch’io un appassionato (lo seguo dalla prima puntata) alcune riflessioni più o meno collegate al tuo post.

  • Concordo con te quando parli di Lost come serie da seguire attivamente.

    E’ innegabilmente un pregio e in un certo senso anche il suo limite, in quanto si presta all’accusa di essere "truccata"; io preferisco una serie di questo tipo, ma capisco le obiezioni.

    Non so se hai mai visto Twin Peaks, beh in buona sostanza siamo da quelle parti come strategia di scrittura.


  • Addirittura io mi spingo oltre: non vorrei che venisse spiegato alcunché (o quasi…): credo che Lost sia una serie profondamente metacinematografica, nel senso che ha messo al centro del suo racconto la manipolazione.

    Non è un caso che reputi la terza stagione la migliore: qui il tema della manipolazione psicologica operata da Ben era centrale; ma in un senso più generale la manipolazione dello spazio e del tempo fanno da sfondo a tutto il racconto.

    Lost  Benjamin Linus

    Quello che veramente la distingue dal resto, è che il tema della manipolazione è stato a tratti portato alle estreme conseguenze (e quindi in campo…) con la manipolazione dello spettatore (specialmente nella sotto-trama di Desmond all’epoca delle sue "profezie").

    Ebbene, io mi sarei fermato lì: avrei anzi amplificato a dismisura il caos tra flashback/forward per sublimare il tutto in un finale lynchiano alla Twin Peaks. Invece per motivi più o meno comprensibili, gli sceneggiatori hanno scelto di "spiegare" nelle ultime due stagioni l’inspiegabile.


  • Reputo la quinta stagione la peggiore di Lost proprio per le considerazioni precedenti: il logos cancella inevitabilmente la tensione mitica delle stagioni precedenti (la mia preferita è la terza, e le puntate della quarta prima dello sciopero degli sceneggiatori, credo verso la 12/13 circa). Tra l’altro espone la spiegazione alle banali critiche sulla congruità di quello che spieghi; non voglio assolutamente dibattere su questo livello, ma alcune scelte sono ridicole (es: tutta l’idea della bomba, Sayid che estrae il primario a fissione da una bomba a fusione in 5 minuti, non si potevano inventare qualcos’altro?; i ridicoli dialoghi di Juliet nell’ultima puntata; etc.). Insomma tolto lo spazio vuoto che doveva riempire lo spettatore non resta spazio se non per sbagliare per gli sceneggiatori…
  • Lost  S05 Sayid

    Lost  S05 Juliet


  • Oltre al difetto "strategico" la quinta stagione mi pare abbia anche qualche difettucio spicciolo: forse sono diventato ipercritico, ma mi pare che si sia un po’ esagerato comprimendo molti avvenimenti in poco spazio. Ci sono puntate – specialmente quelle prima del ritorno sull’isola, non sono preciso perché ho visto la serie in lingua originale qualche mese fa, mentre la davano in USA – che mi sembrano un po’ affrettate, come se l’urgenza di dire tante cose portasse a una certa mancanza di attenzione ai dettagli.
  • Più o meno questi sono i pensieri che di getto hai rievocato con il tuo post  

    L’ULTIMO DONO – SÁNDOR MÁRAI

    Sandor Marai
    Sándor MÁRAI, L’ultimo dono. Diari 1984-1989 (tit. orig. Napló 1984-1989), a cura di Marinella D’Alessandro, p.236, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, 2009, 9788845923913

    San Diego, California. Il 21 febbraio 1989 Sándor Márai si spara un colpo di pistola. Ha 89 anni.

    Nato nel 1900 a Kassa, una piccola cittadina dell’ Alta Ungheria che oggi appartiene alla Slovacchia, nel 1948 aveva definitivamente scelto la via dell’esilio ed aveva abbandonato la sua amata Ungheria per non sottostare al regime filosovietico e dopo una breve permanenza in Europa si era trasferito negli Stati Uniti dove aveva vissuto per circa trentanni in California.

    Questo libro è il diario che dal 1984 al 1989 raccoglie i pensieri degli ultimi anni della vita di questo grandissimo scrittore ungherese. “Corre l’anno al quale è intitolato il romanzaccio di Orwell”, è la prima annotazione che leggiamo, data 7 gennaio 1984.

    Gli ultimi anni di Márai sono costellati di lutti.

    Il 4 gennaio 1986 muore l’adorata moglie Lola, la sua compagna di vita, diventata tutt’uno con lui nei 62 anni del loro matrimonio.

    Márai, mezzo cieco ed anche lui con gravi problemi di salute assiste la moglie nella sua lunga malattia (“Ma quanto ci metto a morire?” sono le parole che lei ripete incessantemente durante la lunga agonia), e non si stacca dal suo capezzale.

    Durante i terribili mesi della malattia Márai scrive poco sul diario. Le annotazioni sono scarse, ma tutte dedicate a Lola.

    Sono annotazioni commoventi e strazianti.

    L’autore di Le Braci, de L’eredità di Eszter, il creatore di tanti indimenticabili personaggi femminili scrive di Lola oramai quasi cieca e devastata dalla malattia:

    “È altrettanto bella, a ottantasette anni, di quanto lo era da giovane – in modo diverso, ma è bella. Non so fino a quando reggeranno le mie forze, ma vorrei rimanere con lei, aiutarla, curarla fino all’ultimo istante”

    “Questa bellissima donna, di una bellezza che la vecchiaia ha nobilitato, fisicamente è ancora di una integrità stupenda. Ma dentro di lei è saltata la corrente” e subito dopo, ricordando e citando una frase del suo romanzo Le braci, scritto tanti anni prima:

    “Che la vita imiti la letteratura certe volte corrisponde al vero. Per esempio ‘Del fuoco non sono rimaste ormai che le braci”

    L’ultimo dono che avrebbe voluto sarebbe stato di andarsene con lei:

    “Siamo coetanei, abbiamo vissuto una vita completa (ottantasei anni), se il destino avrà pietà di noi, ce ne andremo entrambi contemporaneamente: sarebbe l’ultimo dono“.

    Dovrà assistere invece alla morte di Lola e, dopo averne disperse le ceneri nell’Oceano, continuare un’esistenza ormai svuotata di senso.

    Nel 1985 muore Gabor, l’ultimo dei suoi tre fratelli, il più giovane. Il 23 aprile 1987 muore improvvisamente, a soli quarantasei anni, János, l’amato figlio adottivo.

    Sándor Márai negli ultimi anni della sua vita, segnata dai lutti, è solo ed isolato: “Quasi tutti coloro ai quali ero legato da un vincolo personale sono morti, crepati”. Si allontana da tutto, anche dalla letteratura, ma non dai suoi diari, fedeli compagni fino alla vigilia della morte.

    Il succedersi dei giorni è scandito ormai solo da brevi ma intense annotazioni che si rivolgono essenzialmente alla faticosa conquista di un quotidiano, al tentativo di dare senso al momento e alle azioni di un presente che gli appare sempre più estraneo…

    L’ultimo dono è un’estrema confessione in cui Márai mette a nudo il suo cuore, formula bilanci esistenziali, è di fatto un vero e proprio testamento autobiografico in cui alle dolorose riflessioni sulla vecchiaia, la malattia e la morte si fondono anche molti dei temi più cari allo scrittore ungherese.

    Annota lucidamente tutti i segnali di decadenza del suo corpo e della sua mente, ed il 1° luglio del 1986 scrive:“Devo ancora mettere ordine nelle giornate come meglio posso, barcollando, mezzo cieco; ma la mia non è più vita, sono soltanto i preparativi per la partenza. E in questa condizione non vi è nulla di angoscioso: l’unica cosa che mi preoccupa è di riuscire a farla finita, prima che sia la situazione a finirmi”.

    “La malattia” dice “è una dimensione spaziale, così come il tempo” e la morte “è vicinissima, se ne avverte l’alito, l’odore. E questa familiarità non suscita allarme, anzi, è quasi tranquillizzante”.

    E poi “C’è qualcosa di indiscreto nel vivere più a lungo di quanto sia conveniente. Come quando i padroni di casa si scambiano un’occhiata sopra il capo dell’ospite: ma quand’è che se ne va?”

    Un mese dopo la dispersione nell’oceano delle ceneri di Lola, Márai aveva acquistato una pistola. Quattro mesi dopo si era iscritto a un corso per imparare a usarla. La sua più grande preoccupazione era che qualche imprevisto potesse impedirgli di decidere lui il momento della “partenza” (“Se i miei occhi peggiorano chissà se riuscirò a trovare la pistola nel cassetto”)

    Il 15 gennaio 1989, le ultime righe del diario: “Aspetto la chiamata alle armi, non la sollecito, ma non la rinvio neppure. È giunto il momento”.

    Il 21 febbraio, si spara un colpo di pistola alla tempia.

    I pensieri dello scrittore ungherese contenuti in questi Diari si fanno dunque sempre più cupi e tristi ma ci regalano anche riflessioni sul mondo contemporaneo e sulla letteratura.

    Márai non scrive più romanzi ma dice: “Non scrivo, non leggo, ma a volte sogno che sto scrivendo qualcosa. In sogno le righe scorrono come quelle di un testo proiettato sullo schermo. E le righe hanno un senso, la scelta delle parole è corretta, la composizione è piena di vita. Non sono ‘io’ a scrivere tutto ciò, è qualcosa che accade dentro di me”. E ancora: “la via di ritorno dalla vita alla morte è oscura, brancolo dal nulla verso il nulla e lungo il percorso, ogni tanto, una parola, un concetto risplendono come lucciole nella buia foresta”.

    Anche prima del definitivo volontario abbandono dell’Ungheria nel 1948 Márai aveva trascorso gran parte della sua vita a girare l’Europa.

    “Uomo dai molteplici esili”, come lo definisce Gianni Contessi nella presentazione del volume di André Reszler Budapest. I luoghi di Sándor Márai di cui ho già parlato >> qui, Márai aveva vissuto anche Berlino, Parigi e, in Italia, a Salerno.

    Ma nonostante il suo amore per i viaggi ed il suo cosmopolitismo Márai si è sempre sentito “scrittore ungherese”.

    “Patria mia bella, lingua ungherese, che mi rimanga conservata fino all’ultimo istante”

    Non mancano in queste pagine estreme e sconvolgenti, annotazioni soprattutto sulla letteratura ungherese di cui lo scrittore legge ogni notte i suoi poeti più amati ma anche su Conrad, Santa Caterina da Siena, Henry James, Marx, Dostoevskj, sull’esilio e sul bilinguismo.

    Rifiutò l’aureola dello scrittore in esilio: volle essere sempre e soltanto uno scrittore “ungherese”. Non scrisse dunque mai in inglese, il che non favorì la sua popolarità all’estero, anche se fu circondato da rispettosa ammirazione.

    Mantenne sempre i contatti con l’Ungheria, ne leggeva le riviste, seguiva i nuovi autori. In patria la sua fama era consolidata, ma egli rifiutò l’offerta di pubblicazione dell’opera omnia fino a quando ci fossero soldati russi in Ungheria.

    Nelle pagine di questi Diari l’intreccio tra annotazioni saggistiche e note relative alla propria vicenda personale è strettissimo e la forza evocativa della scrittura straordinaria.

    L’ultimo dono è un libro bellissimo ma straziante, straziante ma bellissimo, che contiene pagine estreme e sconvolgenti, lucide e commoventi.

    Un libro sul quale ho esitato molto a scrivere perchè ci sono testi dei quali si ha quasi il pudore di parlare.

    Ho letto L’ultimo dono appena arrivato in libreria, e cioè circa due mesi fa. Per poterne scrivere ho dovuto in qualche modo metabolizzarlo, prenderne, per quanto possibile, le distanze.

    E’ questo anche il motivo per cui ho preferito dare più spazio di quanto faccio di solito alle citazioni testuali: ho pensato fosse giusto lasciar parlare soprattutto Márai.

    Di una cosa però sono assolutamente certa: lasciandoci queste pagine, lasciandoci “con” queste pagine, Márai ha lasciato a noi lettori il suo più splendido “Ultimo dono”.

    • Il libro >>

    QUELLI CHE LOST

    Lost-The Incident

    La Quinta Stagione di LOST si è conclusa anche sulla RAI e questo, secondo la regola ferrea anche se non scritta vigente tra i lost-maniaci italiani, rende liberi di poter finalmente parlare senza rischiare di venir linciati per "spoileraggio". Orrendo termine che però rende l’idea.

    Ma per tranquillizzare quelle due o tre persone che non hanno ancora visto quest’ultima stagione ma avessero intenzione di farlo, dico subito che non entrerò nel merito della storia, quindi chi ha voglia può leggere tutto il post senza temere di ricevere rivelazioni non richieste.

    Mi va solo di fare qualche considerazione generale.

    Secondo me questa Quinta Stagione (d’ora in poi la chiamerò QS) è stata una vera e propria cartina di tornasole, un test formidabile per stilare una tipologia di "Quelli che LOST".

    Lascio da parte tutti coloro che LOST non l’hanno mai visto nè mai degnato di uno sguardo. Persone tutte rispettabilissime, veh, ci mancherebbe. Però queste persone, non avendo visto nemmeno una puntata non possono far parte della mia idea di tipologia del "Quelli che LOST"

    Vediamo gli altri.

    Innanzitutto ci sono "Quelli che LOST" lo hanno mollato già alla seconda e terza stagione. Sono stati parecchi e lo sappiamo bene.

    Tra coloro che invece ancora lo seguono e che sono comunque ancora veramente tanti si sono formati due schieramenti agguerritissimi entrambi. Lo so perchè seguo molti forum su LOST (oh, yes!).

    Allora.

    Ci sono i "Quelli che LOST" che ad un certo punto si sono persi completamente nei meandri della storia e dei continui salti temporali dei personaggi nel passato, nel presente (ma quale presente? Perchè nemmeno di quale fosse  il presente, si era mai sicuri, in questa tornata di LOST) e nel futuro, nei rimandi e nei collegamenti con particolari, eventi, personaggi addirittura delle prime puntate (e quindi di ben tre anni fa).

    Disperati, irritati, esasperati, questi spettatori non ci capivano più un accidente e quindi si sfogavano con gli autori che secondo loro "ci stanno prendendo per il naso", "non sanno più che cosa inventarsi", "non c’è un progetto, tirano fuori situazioni che non hanno nè capo nè coda a seconda dell’umore del momento".

     Il  tutto culminante nel  Grande Grido di Dolore:

    "LOST non è più LOST"
    e  (refrain)
     "Hanno rovinato una splendida serie televisiva" etc.

    L’altro schieramento è formato da "Quelli che LOST" lo seguiranno tutto, fino in fondo, che non si sono persi e non si perderanno nemmeno una puntata, che quando non capiscono qualche passaggio si vanno a rivedere le puntate anche di tre anni fa per controllare, verificare, confrontare.

    Già. Perchè ogni vero appassionato di LOST che si rispetti è fornito di DVD con tutta la serie completa in lingua originale, senza doppiaggio ed al massimo con sottotitoli.
    E soprattutto con i titoli degli episodi, che sono molto significativi e che nella versione RAI hanno pensato bene (cioè, male) di eliminare

    Questo secondo schieramento, al quale appartengo io, sostiene invece che questa QS, superati i primi momenti di reale disorientamento provocato soprattutto dai continui balzi temporali di cui dicevo sopra, ha in realtà recuperato e dato un senso a moltissimi eventi misteriosi delle Stagioni precedenti.

    Certo, ha aperto anche altri misteri: basti pensare che il magnifico ultimo episodio intitolato The incident si chiude con ben due strepitosi finali paralleli che aprono baratri ricolmi di interrogativi… Non poteva che essere così, perchè la serie non è ancora finita, la suspense deve rimanere assicurata e la curiosità tenuta sempre viva, ma ci si è accorti che tanti fili sono stati riannodati, molte cose che erano sembrate inspiegabili sono risultate invece comprensibilissime.

    Ho avuto anche io il mio bel momento di crisi,  eh, non credete.

    A circa metà stagione, anch’io sono stata tentata di abbandonare il campo ma… ho resistito e adesso sono ben lieta di averlo fatto.
     
    Non voglio farla tanto lunga, ma avendo seguito tutta la serie con divertimento ed attenzione, mi sono fatta questa idea: credo che il vero spiazzamento, per molti di coloro che si erano entusiamati il primo e forse anche il secondo anno ma che poi hanno gettato la spugna non sia stato causato tanto dai salti temporali, dal complicarsi della trama, dal numero dei personaggi principali e secondari che aumentava sempre di più etc. quanto da un altro fattore.

    All’inizio, molti di noi (me compresa, sia chiaro) avevamo considerato LOST una serie televisiva come tante altre, una fiction di azione, avventura, suspense. Una serie televisiva alla quale si poteva assistere rilassati, uno spettacolo di puro intrattenimento. Di alta qualità ma pur sempre di semplice, puro intrattenimento.

    LOST si è rivelato però — soprattutto a partire dalla Terza Stagione — tutt’altra cosa.

    Ci siamo accorti che LOST non si può seguire distrattamente, che richiede una enorme concentrazione ed attenzione, una grande capacità mnemonica. Come ho già detto, infatti, sono moltissimi i riferimenti e le allusioni ad episodi delle prime stagioni, episodi e particolari cui allora magari non avevamo dato importanza perchè ci erano sembrati marginali e che si rivelano adesso, invece, molto importanti per capire quello che succede.

    La differenza fondamentale rispetto ad altre anche ottime serie televisive (e ce ne sono parecchie) consiste secondo me nel fatto che LOST richiede una partecipazione attiva da parte dello spettatore, gli chiede di decifrare simboli, di operare connessioni, di decodificare allusioni letterarie.

    Lo "spettatore ideale" di LOST non è uno spettatore passivo. Gli viene chiesto di metterci del suo. Di mettere alla prova la sua memoria, la sua capacità di connettere elementi anche lontanissimi, di decodificare, di decifrare.

    Il livello dell’azione, del colpo di scena, del "e adesso che succede?" è solo il primo livello. Era il più evidente, e forse è questo che in una prima fase ha attratto molte persone. Scoprire poi, strada facendo, che molte cose non ti venivano semplicemente "spiegate" ma che eri tu, spettatore, a dover far lavorare il cervello per comprenderle… beh, per molti questo è risultato veramente spiazzante.
    Come anche accettare il fatto che non tutto può essere spiegato, che non sempre il motore degli eventi può esser (ri)conosciuto.

    LOST si reinventa e si inventa continuamente, anno dopo anno ha assunto connotati sempre nuovi. I personaggi principali hanno subito evoluzioni ed involuzioni impensabili, in una normale fiction. Le loro azioni non hanno mai una sola motivazione, di nessun evento esiste il rapporto "effetto da un’unica causa".

     LOST è una rete.

    Forse è per questo che molti l’hanno mollato ma è forse anche per questo che quelli che non lo hanno fatto ci si appassionano sempre di più.

    La decisione di chi l’ha molltato è assolutamente comprensibile e legittima, intendiamoci: LOST è diventato faticosissimo da seguire.

    Se posso permettermi una  boutade che deriva da una citazione dallo stesso LOST, direi che… rischia di farti sanguinare il naso, nello sforzo  che fai per cercare  di ricordarti tutto.

    Lost-The Incident

    Io mi sto rivedendo una per una tutte le puntate di questa ultima stagione e vado a consultarne altre delle prime stagioni e più lo rivedo e più scopro particolari di cui non mi ero accorta prima.

    Insomma trovo perfettamente comprensibile che molta gente preferisca un prodotto meno difficile, più rilassante ed in cui non ci sia bisogno di far sanguinare tanto la propria materia grigia.

    Rimane il fatto però che quelli di noi che non si sono arresi stanno traendo davvero gran divertimento da questo che ormai è innegabile, secondo me, essere l’evento televisivo che, a livello di fiction ha veramente cambiato il modo di fare televisione.

    … Ed ora scusate, ma devo andare a ripassarmi l’episodio S03E02.

    Lost-The Incident


    N.B.
    Le immagini sono tratte dall’episodio S05E17 intitolato The Incident.

    E già che ci sono: lo sapevate che la clip originale americana di presentazione della QS si intitola In search of Lost Time (Alla ricerca del tempo perduto)?.  Ma  sì ‘! Ma   davvero?!   Ma  vah!!!!

    Così, tanto per dire.

    E ringraziatemi anche,  eh, chè  non vi ho detto  nulla   del "chi è" e  del "dove" e del  "perchè" delle  graziose  immaginette che ho messo.