NUOTARE SOTT’ACQUA E TRATTENERE IL FIATO – FRANCIS S. FITZGERALD

Copertina libroFrancis S. Fitzgerald, “NUOTARE SOTT’ACQUA E TRATTENERE IL FIATO. Consigli a scrittori, lettori, editori”, a cura di Larry W. Phillips, Traduz. Leopoldo Carra, 2000, Minimum Fax, ISBN 88-87765-17-0

Larry Phillips ha enucleato in questo volumetto di circa cento pagine riflessioni e giudizi espressi da Fitzgerald sul tema dello scrivere e del leggere (che come ormai dovrebbe esser stranoto ai miei Happy Few è uno dei miei tormentoni preferiti) stralciandoli dalle sue opere letterarie e dalle lettere.

Dall’insieme dei brani viene fuori che per Fitzgerald l’importante di un’opera di narrativa consiste nel fatto che la reazione deve essere profonda e duratura e che il suo effetto si deve fare sentire molto tardi, quando il lettore avrà magari già da tempo dimenticato il nome dell’autore. Deve avere una funzione di stimolo, non si deve prefiggere la costruzione di un sistema filosofico. Deve agire sull’inconscio del lettore, perchè “Scrivere bene è sempre nuotare sott’acqua e trattenere i fiato” .

Da questo volumetto riporto solo questi passaggi:

  • “Non si scrive per dire qualcosa: si scrive perchè si ha qualcosa da dire” (in “L’età del jazz ed altri scritti”)
  • “due parole, adesso, sulla pubblicità. […] secondo me, la gente non sta nemmeno più a sentire le strombazzate, di qualunque tipo siano […] “Sai che non approvo, in genere, le grandi strombazzate pubblicitarie, anche quando riportano elogi autorevoli. La gente è stanca, molto stanca di comperare bidonate, e questo, inevitabilmente, incide in modo negativo anche sui prodotti seri” (Lettera del 1934 a Max Perkins)

Chiuso il libretto, può accader poi che ci si guardi un po’ intorno, si entri in una qualunque libreria, ci si ritrovi ad annaspare tra cataste di libri “strombazzati” e ci si renda amaramente conto di quanto poco queste considerazioni, formulate da Fitzgerald negli anni ’30-’40, siano ancor oggi inattuali…

E poi: ve l’immaginate la faccia di uno degli strombazzati o aspiranti tali se dovesse capitargli di sentirsi dire che l’effetto del suo libro “si deve fare sentire molto tardi, quando il lettore avrà magari già da tempo dimenticato il nome dell’autore”? Come minimo gli prende un coccolone e sviene.

VITE PARALLELE

Mediterraneo uno, mitteleuropeo l’altro non si sono mai conosciuti, letti, né tanto meno incontrati. Contemporanei, probabilmente ignoravano la loro reciproca esistenza.

Eppure.

   

Entrambi bilingue (portoghese ed inglese Fernando Pessoa (1888-1935), ceco e tedesco Franz Kafka (1883-1924)), entrambi trascorsero la maggior parte dell’esistenza a svolgere un monotono e routinario lavoro burocratico.
A Lisbona, ogni giorno Fernando Pessoa attraversava — vestito di nero e con il cappello in testa — il quartiere del Rossio tornando a casa dal suo ufficio di Import Export dove era impiegato come corrispondente commerciale.
A Praga ogni giorno Franz Kafka — in bombetta e vestito di nero — tornava a casa in via Celetna al termine della sua giornata nell’ufficio dell’Istituto di Assicurazioni. La notte…la passavano entrambi a scrivere.

Max Brod, il grande amico di Kafka, lo definì “scrittore religioso”. Da parte sua, Pessoa era interessato all’esoterismo ed alla teosofia.

Tutti e due furono incapaci di trasformare in un matrimonio (promesso ma sempre rinviato) il loro fidanzamento con donne con cui riuscirono ad avere quasi esclusivamente rapporti epistolari .
Entrambi scrissero alla loro fidanzata lettere che sembrano rivolte soprattutto a sè stessi. E d’altra parte, non è Pessoa che, in “Una sola moltitudine”, ha detto che “Le lettere d’amore sono ridicole. Non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole”?

 Ophelia Queiroz

Ophelia Queiroz,fidanzata di Pessoa
Felice Bauer
Felice Bauer
fidanzata di Kafka

Pessoa morì in un ospedale, Kafka in un sanatorio.

Ma soprattutto accomunava questi due geni letterari collocati a Lisbona e a Praga (città che potevano ancora, a quell’epoca, venire considerate ai confini dell’Europa) la solitudine infinita che emerge prepotentemente dalle pagine di “Una sola moltitudine” o de “Il libro dell’Inquietudine” (Pessoa) e dai “Diari” e dai racconti e romanzi di Kafka.

Una sola solitudine.

SPHINX – ANNE GARRETA

Anne Garreta (Universitè de Rennes), nata nel 1962, è la prima persona entrata a far parte (nel 2000) dell’Oulipo ad esser nata dopo la sua fondazione.

Anne Garreta
©R. Jacques, Paris, 1986

Nel suo primo romanzo Sphinx, pubblicato nel 1986 da Grasset & Fasquelle, Garreta aveva narrato una storia d’amore fra due personaggi l’identità sessuale dei quali non viene mai resa nota, nemmeno alla fine del romanzo. Far questo in una lingua — il francese — che come l’italiano e a differenza ad esempio dell’inglese ha una grammatica molto sessuata non è impresa da poco.

Brillante lavoro di “grammatica di genere”, gioco oulipiano sull’ambiguità sessuale dei personaggi, il libro non è solo un “esercizio di stile” fine a se stesso; Anne Garreta si serve di questa regola oulipiana che lei stessa si è data per scrivere un libro il cui tema è l’identità. O meglio e più precisamente: l’indeterminazione dell’identità sessuale.

Questo romanzo, letto alcuni fa, mi è tornato in mente in questi giorni riflettendo sulle identità ed i nick cui fanno capo alcuni blog molto frequentati e sul gioco (e qui adopero il termine “gioco” nella sua accezione più seria) delle identità sessuali in rete.

La 4a di copertina di Sphinx:

Une ancienne légende raconte que le sphinx dévorait ceux qui échouaient à résoudre son énigme; qu’en sphinx cohabitaient du lion et de l’oiseau; et que sphinx deviné se jeta du haut de quelque promontoire.

A*** danse; je erre, la nuit. Sur fond de boîte et de cabarets, à Paris, à New York. Leur histoire (amour) semble répéter la légende ancienne: aux yeux de je, A*** devient sphinx.

Mais au gré de quelle énigme? Je ne sait, mais ne peut que deviner obscurément que la résoudre serait perdre A*** et ne pas la résoudre, se perdre.

Per quel che ne so, questo libro (a differenza di altri della Garreta) non è stato mai tradotto e pubblicato in Italia. Per tradurlo, infatti, bisognerebbe “giocare” (leggi: lavorare) con la grammatica italiana allo stesso modo in cui la sua autrice ha fatto con quella francese…

LE FISSAZIONI PERICOLOSE

Emma Bovary Romanzi


Pervertono le masse.


[…]




Romanzi d’appendice


Scuola di depravazione.


Litigare sul probabile intreccio.


Scrivere all’autore per fornirgli delle idee.


Infuriarsi quando vi si trova un nome simile al nostro.




(Dal “Dizionario dei luoghi comuni” di Gustave Flaubert)



N.B.: Post ispirato dal post “Cervantite” (e da tutti i relativi commenti) del blog di MariaStrofa










TOTEM E TABU

Copertina dell' Ulisse di Joyce

LA LIBRAIA DI JOYCE – NOEL RILEY FITCH

Il libro
Noel Riley Fitch, “LA LIBRAIA DI JOYCE. Sylvia Beach e la generazione perduta”,
Traduz. di Tina D’Agostini e Monica Fiorini, prefaz. di Liliana Rampello
Il Saggiatore, 2004, pagg. 558

Quando Archibald McLeish seppe, nel 1962, che Sylvia Beach era morta sola nel suo appartamento di Parigi disse: “Lei non è sola, non lo è mai stata e non lo sarà mai. Era circondata dalla sua Compagnia”.

Sylvia Beach
Sylvia Beach
fonte

Come ha osservato Letizia Paolozzi in una bella recensione di questa biografia di Sylvia Beach scritta da Noel Riley Fitch (University of Southern California e American University di Parigi) “E’ probabile che l’egocentrico, arrogante, superbo, ingrato, elemosinante supergeniale autore dell’Ulisse, colui che ha cambiato la sorte del romanzo novecentesco, proverebbe un qualche sconcerto nel vedere che […] c’è un libro che non ruota soltanto intorno a lui”

Questo di Noel Ridley Fitch è uno di quei libri da abitarci dentro, di quelli che quando li finisci ci metti un po’ a riprenderti e ad iniziare una nuova lettura. A me, almeno, è successo questo, e il libro, come si può vedere, sta ancora sulla mia scrivania. Tanta è stata infatti la potenza evocativa di un’intera epoca storica, un mondo, un ambiente (in questo caso la Parigi letteraria dagli anni ’20 agli anni ’60), di un personaggio straordinario come fu quello di Sylvia Beach.
Americana trasferitasi negli anni Venti a Parigi, Sylvia Beach vi aprì e diresse per decenni la piccola ma divenuta ben presto leggendaria libreria “Shakespeare and Company” in rue de l’Odéon, proprio di fronte alla libreria francese “La Maison des Amis des Livres” di Adrienne Monnier, sua amica e compagna di vita per oltre trent’anni.

Il n.12 di Rue de l’Odéon fu per decenni, come il n.20 di Rue Jacob (la casa di Natalie Clifford Barney) e il salotto di Gertrude Stein e Alice Toklas al n.35 di Rue de Fleurus uno di quegli indirizzi che sono ormai entrati a far parte della memoria collettiva che rievoca il cosmopolita mondo artistico e letterario della Parigi di quegli anni in cui gli americani (“espatriati” per scelta o per necessità o anche solo di passaggio a Parigi) si incontravano, lavoravano, polemizzavano, si scontravano, si sostenevano tra di loro o con i colleghi francesi.

La libreria di Sylvia fu per decenni il punto di incontro, il crocevia della maggior parte di loro: si andava da Sylvia per tenersi al corrente delle ultime novità delle pubblicazioni anglo-americane, per prendere un tè con lei e Adrienne, per chiacchierare, scambiarsi consigli e opinioni.

Nel documentatissimo testo della Ritch vediamo sfilare alla “Shakespeare and Company” Hemingway ed Ezra Pound, T.S. Elliot e Gide, Paul Valery, Sherwood Anderson, Thorton Wilder e Sinclair Lewis; Valery Larbaud e Fitzgerald e Simone de Beauvoir e Tristan Tzara e con loro un numero talmente grande di letterati ed artisti da rendere impossibile elencarli tutti.

Sylvia Beach
Sylvia Beach davanti la Shakespeare & Co.

“Shakespeare and Company” divenne ben presto un punto di riferimento anche per tutti quegli studenti americani o francesi che si rivolgevano a Sylvia Beach per trovare romanzi e riviste letterarie di difficile reperimento. Sylvia non si limitava a vendere libri. La sua era anche una biblioteca circolante e, periodicamente, nei piccoli locali di Rue de l’Odéon scrittori e poeti leggevano brani delle loro opere ad un pubblico numeroso e attento: Gide, Valery, Elliott vi tennero pomeriggi di lettura rimasti memorabili.

Ma Sylvia Beach, che non era una editrice ma soltanto (soltanto ?!) una intelligente libraia fu anche quella che si gettò a capofitto nell’impresa di dare alle stampe — senza avere alcuna esperienza in materia di editoria — l’“Ulisse” di Joyce quando questi era ancora uno scrittore semisconosciuto ed il suo romanzo non solo veniva rifiutato da tutte le case editrici ma la sua pubblicazione proibita per legge in America ed in Inghilterra perchè dichiarato osceno.

Sylvia Beach e James Joyce
Sylvia Beach e James Joyce

 

Che cosa spinse Sylvia a gettarsi in questa impresa che per più di dieci anni la coinvolse totalmente? Scrive la Fitch:

“… desiderio di celebrità, una buona dose di perspicacia, una forma di legame erotico e sollecituidine materna, una fede cieca, compassione ed incapacità di dire di no. Ma per prima cosa bisogna dire che lo riteneva un grande scrittore”.

Sylvia non si limitò a pubblicare l’ “Ulisse” superando mille problemi e difficoltà. Venne letteralmente travolta da Joyce e per dieci anni fu per lui una sorta di factotum che gli risolveva tutte le necessità professionali e personali occupandosi dei suoi traslochi, della sua corrispondenza, delle sue malattie, della sua famiglia. Rischiando il fallimento economico della sua amata libreria a causa delle spese folli di Joyce il quale non aveva alcun scrupolo, per saldare i debiti da cui era sempre sommerso a causa del tenore di vita decisamente al di sopra delle sue possibilità, di attingere direttamente alle casse della “Shakespeare and Company”.

Sylvia Beach
James Joyce con Sylvia Beach e Adrienne Monnier
Foto di Gisele Freund

fonte

Scrive ancora la Fitch: “Sylvia si trovò completamente intrappolata nella fatica erculea di pubblicare l’opera di Joyce e di amministrarne la carriera. Riceveva da Joyce quelle che lui chiamava “liste del droghiere” piene di cose da fare. Sapeva bene che fare qualcosa per Joyce significava fare tutto per Joyce. Joyce la vedeva […] come bestia da soma”.

E’ grazie al frenetico lavoro di Sylvia che l’ “Ulisse” diventa presto conosciuto non solo in Francia ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove copie clandestine vengono introdotte sfidando le leggi federali. Ben presto, Joyce diventa un autore di fama mondiale.
Ma nonostante tutta la sua ammirazione per Joyce, Sylvia riesce a resistere al suo tentativo di trasformare la sua libreria in una “fabbrica per Joyce”, di farsi “joycizzare” completamente.
Ed è a questo punto che, a mio parere (supportato però dai fatti ben documentati dalla Fitch), Joyce rivela tutta la sua ingratitudine, la sua misoginia, la sua meschinità.

Dopo averla economicamente rovinata, la tradisce per passare a editori che gli hanno promesso più soldi, violando un contratto scritto e portandola al punto da rinunciare a tutti i diritti che le spettano come editrice. Dopo averla insomma spolpata economicamente fino all’osso, la molla piena di debiti e sull’orlo della bancarotta.

“La lettura di questo libro, in particolare la seconda parte, può scatenare un notevole disprezzo per le misere qualità umane di James e – viceversa – una grande ammirazione per Sylvia.” leggo in una recensione de “L’Indice”. Sottoscrivo e sottolineo.

Ma Sylvia Beach non si farà travolgere da Joyce. Il filo conduttore della sua esistenza restano sempre la sua libreria e Adrienne e pur mantenendo intatta la sua ammirazione per gli scritti di Joyce riesce a prendere le distanze dall’uomo. Per salvare “Shakespeare and Company” dai nazisti ai quali si era rifiutata di dare una copia della ormai preziosissima prima edizione  dell'”Ulisse” e che per questo avevano minacciato di requisire il negozio, riesce in poche ore a nascondere i suoi 5000 libri. Supera anche la morte di Adrienne, suicidatasi dopo una terribile malattia.

Sempre circondata dall’affetto e dalla stima dei suoi amici letterati, quando morì, nel 1962, fu ben a ragione dunque che McLeish potè dire che non era stata, non era e non sarebbe mai stata sola.

L’OMBRA DI GERDA

Gerda Taro
Gerda Taro

Nei libri che si occupano dei più grandi fotografi del XX secolo, non si vede mai una foto scattata da Gerda Taro. Al massimo, viene segnalata per essere stata “il grande amore” di Robert Capa. Per tanti anni dopo la sua morte, Gerda è stata come un’ombra.
Gerda Taro e Robert Capa
Eppure fu non solo l’amatissima  compagna di Capa, ma anche la prima fotografa di guerra uccisa in azione. A soli 27 anni, la sera del 25 luglio sulla strada da Brunete a Madrid al seguito dei repubblicani spagnoli in guerra contro i franchisti. Non aveva potuto esercitare la sua attività di fotografa che per soli due anni.

Dan Franck, nel suo “Libertad!” dedica molte belle pagine a Gerda, alla sua storia con Capa, alla sua attività di fotografa nella guerra civile spagnola, alla sua morte.

Copertina libroAdesso un altro autore, François Maspero, ha scritto un intero libro su di lei: “l’Ombre d’une photographe, Gerda Taro”. In esso, Maspero spiega l’oblio su Gerda non solo con la rimozione che le vicende della guerra civile spagnola hanno subito all’indomani della seconda guerra mondiale, ma anche con il fatto che molti dei clichè firmati Capa erano stati presi indifferentemente da lei o dal suo compagno. Ed infine, i genitori di Gerda — il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nata a Stoccarda nel 1910 — i soli che avrebbero potuto presentarsi come aventi diritto, sono morti nelle camere a gas naziste.

Il libro di Maspero non è comunque l’unico segnale di un recupero della figura di Gerda Taro: dopo la biografia scritta da Irme Schaber pubblicata in Germania nel 1994 e uscita adesso in Francia con il titolo “Une Photographe révolutionnaire durant la guerre d’Espagne” è prevista, per la primavera del 2007, una mostra internazionale itinerante a lei dedicata che verrà allestita a New York, Londra e Parigi.

Gerda esce finalmente dall’ombra.

Un paio di link:

PROSAICHE MUSICALITA’

A proposito di musicalità in testi di prosa.

Antonio Pizzuto

Ridevano. Parlottavano. Si ritrassero. C’era un pianoforte in fondo. Se ne levò dai bassi un solenne accordo ribattuto. Pareva l’inizio di Così fan tutte, o della stupenda seconda sinfonia di Beethoven che lo rammenta. Ma ecco. Non era. In arsi quella tonica scese di grado nella terza minore, tesi che vi ritornò simmetricamente su un ritmo da barcarola e raggiuntala, questa deviò in battere al secondo tono appoggiandovisi, ma per esserne rimandata con una replica. Poi di alto ascendente la terza ricadde due volte nella sua tonica, che divenne cadenza. Ruote di un carro contro l’acciottolato vi aggiunsero i loro colpi di tamburo. No. Era tutt’altro . Era cantofermo, era un basso continuo in voga, mezzo popolare mezzo fiammingo, il tema del dileggio pei calandrini e lo insegui come vespa, no come vespa, brioso, qual colpa se si è felici, spensierate, quale delle due peraltro a proporlo e sonarlo, una sola Alda al mondo.

(Antonio Pizzuto, “Si riparano bambole”, Sellerio Editore, Palermo, 2001)

Ora. Il testo è musicale non  certo perchè parla di musica ma perchè il ritmo delle frasi, la metrica delle parole usate lo rendono tale. Provare a leggerlo a voce alta per credere.