FEUILLETONS, ROMANZI D’APPENDICE, ROMANZI A PUNTATE

Georg Elgar Hicks George Elgar Hicks An Infant Orphan Election at the London Tavern (1865)

“il sistema della pubblicazione a puntate […] non si può pretendere che molti lettori, costretti a seguire un racconto a puntate per diciannove lunghi mesi, ne scorgano le relazioni sottili e il piano completo che l’autore ha sempre davanti agli occhi come un tessitore il telaio. Tuttavia, che io giudichi i vantaggi di questo sistema superiori agli svantaggi non vi è dubbio, dal momento che l’ho rimesso in uso con Pickwick, dopo che da tempo era caduto in disuso, e da allora l’ho sempre seguito”

Charles Dickens, Poscritto in luogo della prefazione a Il nostro comune amico (2 settembre 1865)

Dickens, come si sa, pubblicava i suoi romanzi a puntate. Era uno scrittore “da feuilleton“.

Il termine feuilleton è sinonimo di Romanzo d’appendice, ovvero un romanzo che usciva su un quotidiano o una rivista, a episodi pubblicati in genere la domenica. Feuilleton è un diminutivo di feuillet (foglio, pagina di un libro). Il feuilleton era rivolto ad un pubblico di massa ed aveva uno scopo prevalentemente commerciale (sostenere la vendita del giornale per più settimane). All’inizio il termine feuilleton indicava in Francia la parte bassa della pagina di un giornale.

Per questi motivi, il termine “romanzo d’appendice” viene spessissimo utilizzato in termini spregiativi, perchè considerato sinonimo di scarsa qualità, di robetta adatta ad un pubblico di gusti molto facili e di basso livello intellettuale.

Ovviamente, molti romanzi d’appendice avevano queste caratteristiche e sono giustamente sprofondati nell’oblio.

A mio modo di vedere però anche nell’ambito dei romanzi a puntate (d’ora in poi li chiamerò semplicemente così) non esistono automatismi. Troppo spesso ci si dimentica che moltissimi romanzi che oggi sono considerati capolavori della letteratura o comunque romanzi di ottima qualità furono pubblicati a puntate.

La lista sarebbe molto lunga, ricordo solo qualche nome e qualche titolo.

Eugene Sue

A memoria, alla rinfusa e senza approfondire troppo:

Eugène Sue (I misteri di Parigi), Dumas padre (Tre moschettieri), parecchi testi di Balzac, Collodi (Pinocchio), Flaubert (Madame Bovary), Dostoevskij (I Karamazov e Delitto e Castigo), Tolstoj (Guerra e Pace), molti romanzi di Thomas Hardy, Wilkie Collins; il grande scrittore tedesco Theodor Fontane pubblicò a puntate, tra gli altri, il bellissimo Il signore di Stechlin considerato, assieme ad Effi Briest, tra le sue opere migliori ed uno dei capolavori della letteratura tedesca…

Alcuni autori pubblicarono a puntate per scelta obbligata (oggi diremmo: “per motivazioni alimentari”, e cioè per guadagnarsi letteralmente di che vivere), altri, come Dickens, (anche) per scelta consapevole.

Ancora una volta, ed anche in ambito letterario, generalizzare è sempre rischioso.

Possono esserci eccellenti opere letterarie pubblicate con queste forme e con i vincoli che questa modalità impone (l'”happy end” è forse uno dei più pesanti) e ci possono essere tonnellate di robaccia pubblicate in un unico volume, con rilegatura e carta raffinatissima i cui contenuti valgono un decimo del loro contenitore…

Se però all’inizio del post ho riportato proprio quella frase di Dickens è perchè coglie molto bene uno dei più grossi problemi che un autore di romanzi a puntate deve fronteggiare, problema del quale Dickens era perfettamente consapevole e che, come noi sappiamo, sapeva gestire magnificamente.

Charles Dickens Our mutual friend

Noi oggi abbiamo la fortuna di poter leggere i suoi libri (e Guerra e Pace, e tutti quelli che ho citato e tutti quelli che mancano nel mio elenco) con il nostro ritmo di lettura e non con quello imposto ai primi lettori di quelle opere.

Questo privilegio implica non solo una modalità di fruizione e di comprensione dell’opera completamente diversa da quella dei primi lettori, ma anche il dovere da parte nostra di tener presenti, durante la lettura, il tipo di vincoli cui l’autore, durante la stesura della sua opera, era — volontariamente o meno — sottoposto.

GEORGE STEINER E LA CRITICA LETTERARIA

George Steiner

“La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore. In modi evidenti e tuttavia misteriosi una poesia o un dramma o un romanzo afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo un libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo. Per usare un’immagine rubata a un’altra regione: chi ha davvero assimilato un dipinto di Cézanne non potrà più guardare una mela, o una sedia, come li guardava prima. Le grandi opere d’arte ci attraversano come venti di tempesta, spalancando le porte delle nostre percezioni e investendo l’architettura delle nostre convinzioni con la loro potenza trasformatrice. Noi cerchiamo di registrare il loro urto e di riorganizzare la nostra casa sconquassata secondo il nuovo ordine. E, spinti da un qualche primario istinto di comunione, cerchiamo di comunicare agli altri la qualità e la forza della nostra esperienza. Vorremmo convincerli ad aprirsi ad essa. E’ da questo sforzo che nascono le intuizioni più vere della critica.

[…]

Esiste in effetti una grande quantità di opere da seppellire se vogliamo tutelare la salute della lingua e della sensibilità. Troppi libri, invece di arricchire la nostra coscienza, invece di essere sorgenti di vita, ci tentano con le armi della facilità, della grossolanità e del più effimero dei piaceri.

Ma quelli sono i libri destinati al mestiere del recensore, non all’arte meditativa e ricreatrice del critico. Ci sono più di “cento grandi libri”, ce ne sono anche più di mille, ma il loro numero non è inesauribile. A differenza sia del recensore che dello storico della letteratura, il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. Il suo primo compito è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo”

DA HITLER A CASABLANCA VIA HOLLYWOOD – FRANCESCO CARBONE

Sul n. 15 de “Il compagno segreto”, uno dei miei siti  preferiti, da oggi si può leggere

MALGRADO HITLER
Cineasti ebrei in fuga dal nazismo

Pagine come sempre ricchissime di splendide immagini (come quella di cui mi sono “appropriata” e che ho inserito qui sopra), citazioni, suggestioni.
Pagine tutte da sfogliare, guardare, su cui riflettere. Una goduria per gli occhi e per la mente.

I pezzi che compongono questo numero de “Il compagno segreto” sono tratti dal libro

Francesco Carbone, Da Hitler a Casablanca.via Hollywood Cineasti ebrei in fuga dal nazismo
EUT Edizioni Università di Trieste, 2011

Da Hitler a Casablanca via Hollywood

ADDIO VOLODIA – SIMONE SIGNORET

Simone Signoret
Simone Signoret in Casco d’oro
(Jacques Becker, 1952)

Che Simone Signoret fosse una delle più grandi e interessanti attrici del cinema non solo francese l’ho sempre pensato.

Che avesse anche il talento di scrittrice l’avevo sentito dire eppure, quando nel 1985 uscì Addio Volodia, corposo romanzo di circa 600 pagine non lo lessi.

Temevo di restare delusa, di scoprire una scrittrice mediocre e non volevo intaccare l’immagine che di Simone avevo come la grande, indimenticabile interprete di Casco d’oro, (Jacques Becker), I diabolici (Clouzot), Therese Raquin (Marcel Carné), Dédée d’Anvers (Yves Allegret), La Ronde (Max Ophuls) e di tanti, tanti altri film (l’elenco della sua filmografia è lunghissimo).

Oggi Addio Volodia è pressoché introvabile, in italiano, ed io mi sono finalmente decisa a leggere il romanzo in una edizione dei Livres de Poche trovata su una bancarella a Parigi qualche anno fa e che era rimasta a sonnecchiare su un ripiano delle mie librerie.

Che bella scoperta! Che bel romanzo!

Struttura solida, tanti personaggi nella Parigi dei quartieri popolari e degli immigrati ebrei fuggiti, negli anni ’20, ai pogrom dell’Ucraina e della Polonia e rifugiatisi in una Francia terra, per loro, della libertà, dell’uguaglianza, della democrazia.

Al n.58 di Rue de la Mare, nel XX arrondissement di Parigi, vivono i Guttman ed i Roginski. Fuggendo l’orrore dei pogrom, le due giovanissime coppie di ebrei sono arrivate l’una dall’Ucraina nel 1919, l’altra dalla Polonia nel 1921 e ciascuna di esse ha un figlio: Maurice ed Elsa (Zaza). I Guttman ed i Roginski sono gran lavoratori, affabili, calorosi.

Guttman è un artigiano che lavora il cuoio, le pelli; Roginski un pellicciaio. Le loro mogli lavorano come sarte a domicilio

Tutti e quattro vogliono solo dimenticare e la loro naturalizzazione come francesi, all’inizio del romanzo, li fa letteralmente piangere di gioia. Il ricordo delle orrende persecuzioni che si sono lasciati alle spalle nei paesi d’origine a poco a poco si allontana.

Tuttavia, pensano spesso a Volodia, un cugino scampato ad un orribile pogrom ma rimasto in Ucraina. Volodia incarna per loro il passato ed il loro paese d’origine, ormai perduto.

Per anni, complessivamente tutto va bene, le amicizie si consolidano, i due figli crescono, studiano, lavorano con successo. I Guttman e i Roginski si integrano sempre di più e pensano che la vita è proprio bella!

Ma arriva il momento in cui il veleno dell’antisemitismo che si diffonde anche in Francia crea loro dapprima solo problemi di lavoro privi di grandi conseguenze, e il tempo passa tra le normali gioie e dolori della vita quotidiana. Ben presto però ci si rende conto che la Storia, la Grande Storia è in movimento, e presto, per le famiglie Guttman e Roginski, la vita si trasforma in un incubo.

Grande affresco della Francia dal 1925 al 1945 il romanzo percorre, attraverso mille vicende, mille piccoli episodi della vita personale dei singoli personaggi, gustosi aneddoti, vicende tragicomiche — i grandi eventi che hanno investito la Francia e l’Europa dal Fronte Popolare al Patto di Monaco, al Patto Stalin-Hitler, alla Seconda Guerra Mondiale, lo sterminio della maggioranza degli ebrei e la lotta per la sopravvivenza di altri (una minoranza) fino alla Liberazione e al Dopoguerra.

Un romanzo che documenta, informa, diverte (perché c’è anche molto humour, nel libro) e commuove, scritto con mano sicura, un romanzo dall’impianto classico che si rifà alla grande tradizione del romanzo francese dell’ ‘800.

Per chi conosce la biografia di Simone Signoret (lei stessa figlia di un ebreo polacco) risultano riconoscibili anche molti elementi autobiografici riconducibili alle sue vicende personali, al suo impegno politico, alla sua esperienza di attrice e di conoscenza del mondo dello spettacolo.

Un romanzo in cui, accanto al tema dell’integrazione, dell’assimilazione c’è anche il tema della paura, sempre presente anche se apparentemente tenuto sullo sfondo: tutti i componenti delle due famiglie, infatti, hanno paura che l’incubo ritorni, hanno il problema di difendere sé stessi e i loro cari da questa paura, il problema di non permettere che questa paura, sempre latente, impedisca loro di vivere come normali cittadini francesi.

Quando ho finito di leggere il libro, ho pensato con ancora più grande ammirazione ed affetto, a Simone Signoret, morta proprio pochi mesi dopo la pubblicazione di Adieu Volodia.

Mi sono chiesta anche: perché mai un romanzo come questo non viene ripubblicato, in italiano? Che tristezza.

adieu volodiaaddio  volodia

Come ho avuto spessissimo modo di ripetere, non credo affatto (almeno per quanto mi riguarda) nella casualità del succedersi delle scelte di lettura. Non per quei libri che leggo per piacere e non per dovere.

A lettura ultimata, mi sono resa conto che Adieu Volodia mi si è improvvisamente imposto con un perentorio “leggimi, leggimi adesso!” perchè è un romanzo che, per i contenuti e i temi affrontati si inserisce nella scia di altre mie letture recenti come, ad esempio, i romanzi dei Singer (Isaac Bashevis e Israel Joshua), di Chaim Potok (In principio).

Simone Signoret
Simone Signoret in Adua e le compagne
(Antonio Pietrangeli, 1960)
  • Simone Signoret >>
  • Il libro (nell’edizione francese) >>
  • “Addio Volodia, Addio Simone”, un articolo di Nello Ajello su La Repubblica del 1985 >>

PROUST E MONET – GIULIANA GIULIETTI

Proust e Monet

Giuliana GIULIETTI, PROUST E MONET. I più begli occhi del XX secolo, Donzelli, 2011

Segnalo molto volentieri questo nuovo libro di Giuliana Giulietti, già curatrice e co-autrice del bel volume Intorno a Marcel Proust. Musica, pittura e letteratura, di cui avevo parlato >> QUI

La bibliografia su Proust e la sua opera è sterminata, eppure non si finisce mai di approfondire e di rimanere incantati proprio dal fatto di riscoprire continuamente che sempre nuovi approcci e nuovi sguardi sono possibili.

Proust è infinito.

http://tv.repubblica.it/static/swf/z_adv_player.swfGiuliana Giulietti presenta il libro presso il Centro Donna di Livorno (Fonte)

  • L’autrice >>
  • La scheda del libro >>

LA NOTTE DELL’UCCISIONE DEL MAIALE – MAGDA SZABÓ

Magda Szabo
Magda SZABÓ, La notte dell’uccisione del maiale (tit. orig. Disznótor), traduz. dall’ungherese di Francesca Ciccariello, A cura di Mónika Szilágyi, ed. Anfora, p.220, 2011

Debrecen, una cittadina di provincia dell’Ungheria.
Anni ’50.
In un freddo giorno invernale, una famiglia si prepara — come recita la quarta di copertina — all’annuale uccisione del maiale ed al conseguente banchetto.

Questo romanzo, scritto da una quarantasettenne Magda Szabó nel 1960 e cioè negli anni in cui l’Ungheria era sotto il regime fiolosovietico viene oggi reso disponibile per i  lettori italiani grazie alla casa editrice Anfora, che della grande scrittrice ungherese ha curato la pubblicazione di altri libri.

Tra questi, voglio ricordare adesso Per Elisa che, essendo la prima parte dell’autobiografia della  Szabó — rimasta purtroppo incompiuta a causa della sua morte avvenuta nel 2007 —  risulta di molto aiuto, oggi, per comprendere meglio questo La notte dell’uccisione del maiale.

Sulla scena del romanzo vediamo muoversi (e scontrarsi) due famiglie: la famiglia Tóth, i cui membri sono chiamati “i saponieri” perchè da almeno tre generazioni si dedicano appunto alla fabbricazione ed alla vendita del sapone e la famiglia Kémery, nobili ex latifondisti che, sebbene ormai decaduti ed ai quali il regime ha requisito anche l’ultimo bene immobile da loro posseduto, e cioè il palazzo avito, non avendo per questo perso la loro boria e la loro superbia trattano sprezzantemente tutto il resto del mondo.

All’inizio del romanzo apprendiamo che János Tóth (il primogenito della famiglia dei “saponieri”) è, da più di vent’anni, marito di Paula Kémery.

Per motivi diversi ma complementari, questo matrimonio non è stato mai perdonato né dai “saponieri”, che hanno visto in questo un vero e proprio tradimento delle tradizioni familiari da parte del primogenito né dai nobili Kémery che —  sebbene spiantati — non hanno mai smesso di disprezzare János e di trattarlo come un essere a loro inferiore e di cui vergognarsi nonostante egli sia da anni un maestro di scuola molto stimato da superiori e colleghi ed amato dai suoi alunni

Il romanzo si svolge tutto a Debrecen — che, detto tra parentesi, era anche il luogo di nascita della stessa Szabó che a Debrecen visse ed insegnò anche, per molti anni — nell’arco temporale di sole 24 ore.

Attraverso una serie di capitoli ciascuno dei quali centrato su uno dei numerosi personaggi guardato dal punto di vista di un altro ed attraverso un vero e proprio gioco di specchi in cui si riflette il modo in cui  ciascuno considera sè stesso e viene percepito dagli altri, in un continuo intrecciarsi di piani temporali e oscillazione tra presente e passato vediamo a poco a poco delinearsi con chiarezza uno scenario che, se all’inizio ci appariva confuso e nebuloso e difficile da comprendere, diventa via via  sempre più inquietante.

Come in puzzle, come dalla tessitura di un arazzo, la figura, “l’intreccio” prende forma.

I buchi cognitivi che ci avevano resa all’inizio poco comprensibile e a tratti difficile la lettura vengono colmati. Diventano  comprensibili ed,  acquistando senso,   la figura che si delinea sotto gli occhi di noi che leggiamo assume contorni sempre più drammatici.

Lo scenario che si delinea è uno scenario in cui il succedersi degli eventi, di piccoli gesti solo apparentemente banali ed insigificanti, delle riflessioni e dei ricordi dei singoli personaggi ci fa presto avvertire in modo sempre più incalzante l’approssimarsi della tragedia.

Il romanzo si chiude con un bellissimo e catartico finale, a proposito del quale ovviamente non anticipo nulla.

Ho adoperato non a caso termini come “scena”, “scenario”, “tragedia” e “catarsi” perchè quello che ci offre Magda Szabó è proprio la rivisitazione — per mezzo di una struttura e di una strategia narrativa molto moderna — dell’antica tragedia greca.

Dell’antica tragedia greca La notte dell’uccisione del maiale ha non solo le caratteristiche formali dell’applicazione delle tre classiche unità aristoteliche (unità di tempo, luogo e azione) ma soprattutto il senso — di cui il lettore acquista pagina dopo pagina sempre maggiore consapevolezza — della inelutabilità degli eventi, della tragicità degli effetti che possono derivare da micro-episodi apparentemente banali.

Un gesto compiuto generosamente e con le migliori intenzioni, per esempio  può rivelarsi  (come spesso succede nei romanzi della Szabó)  distruttivo, mentre la catastrofe (nel senso strettamente etimologco del termine) può venire da una scoperta casuale, dalla percezione distorta di un gesto, una parola, uno sguardo dell’altro.

Nella struttura e nello stile di scrittura (molto colto e raffinato) del romanzo ritroviamo il gusto, la conoscenza, la passione che Magda Szabó nutriva  sin da bambina per il mondo della cultura classica e della tragedia greca e che abbiamo imparato a conoscere proprio da quello che lei stessa ci ha raccontato in Per Elisa.

Magda Szabó però non sarebbe la grande scrittrice che è se fosse rimasta congelata dentro  antiche formule; scrittrice del suo tempo, risulta modernissima nell’uso sapiente, ad esempio,  della  tecnica della molteplicità dei “punti di vista”.

Un uso che lo stesso Henry James, considerato l’inventore di questa tecnica per quanto riguarda la letteratura occidentale sono sicura avrebbe non solo apprezzato ma invidiato.

Romanzo molto duro, ne La notte dell’uccisione del maiale nessun personaggio è completamente innocente o completamente vittima.

Tutti hanno qualcosa da rimproverare agli altri ma anche colpe di cui doversi vergognare, nessuno risulta simpatico o antipatico senza se e senza ma; il libro  è un romanzo di amore e di morte, ma anche, in qualche modo, di resurrezione.

E’ un libro che fa venir voglia — giunti all’ultima pagina — di ricominciare dall’inzio. Perchè una volta terminato  ci rendiamo conto, improvvisamente, che tutto il dramma era contenuto già nel primo paragrafo e che la Szabó aveva disseminato nel corso della narrazione decine di indizi che soltanto giunti alla fine noi lettori siamo in grado di “vedere” e decodificare.

Se il romanzo, proprio come una tragedia greca, ha un protagonista e un deuteragonista, è anche vero però che in esso nessun personaggio può dirsi davvero secondario o marginale: ciascuno ha una sua precisa collocazione, necessità di esserci, funzione.

E siccome i personaggi sono parecchi, e siccome per noi lettori italiani non è certo facilissimo memorizzare nomi e cognomi ungheresi (cui si aggiungono vezzeggiativi, diminutivi e nomignoli) personalmente ho apprezzato enormemente il fatto che proprio all’inizio del libro la curatrice Mónika Szilágyi abbia inserito un dettagliato elenco dei personaggi completo di dati anagrafici e soprattutto dei legami di parentela che intercorrono tra di essi.

La prime venti, trenta pagine del romanzo sono già — per precisa scelta narrativa della Szabó — abbastanza ardue da comprendere, e personalmente non so come sarei riuscita a superarle senza il supporto di questo elenco.