Stacy SCHIFF, Véra. Mrs. Vladimir Nabokov, curato da L.Scarlini, p.557, Fandango Libri, Collana Mine Vaganti, ISBN-13: 9788887517170
Scrive Stacy Schiff nell’appendice di questa monumentale biografia che Brian Boyd, esperto dell’opera di Nabokov ed autore di una ancora più monumentale biografia di Vladimir (che non mi risulta essere stata mai pubblicata in italiano) l’aveva dapprima “assolutamente scoraggiata” e che poi l’ha “assistita generosamente nella ricerca”.
Per questo libro, reso possibile da una borsa di studio della Fondazione Guggenheim, Stacy Schiff ha ottenuto — secondo me molto meritatamente — il prestigioso Premio Pulitzer.
Scrivere la biografia di Véra ha significato per Schiff, di fatto, (ri)scrivere anche quella di Vladimir.
Ma ha significato soprattutto la necessità di utilizzare tutte le capacità e l’intuito investigativo che un buon biografo deve sapere mettere in atto.
Perchè parliamoci chiaro: Véra Nabokov, questa “donna senz’ombra” che per tutta la vita ha cercato di depistare biografi, giornalisti, perfino amici e parenti dal cercare di capire chi fosse mettendo in atto tutte le tecniche del mimetismo e del camuffamento, non rappresentava certo un oggetto (diciamo così) semplice, per un biografo.
Amatissima dal marito, amici e parenti non riuscivano invece ad avere con lei un rapporto di sincero affetto pur ammirando le sue grandi capacità intellettuali. La si metta come si vuole, Véra non è certo una persona che si può liquidare con un “…Era la moglie di…”. Anche se — sospetto — a lei questo sarebbe molto piaciuto.
Ma cerco di andare con ordine.
Vladimir Nabokov aveva ventiquattro anni quando incontrò a Berlino la donna che doveva diventare non soltanto sua moglie ma anche la sua assistente, il suo agente, la sua musa, la prima lettrice di tutti i suoi libri: Véra Evseïevna Slonim.
Come lui, Véra è nata in Russia. La sua è una ricca famiglia ebrea e Véra — come Vladimir — ha avuto un’infanzia felice e confortevole.
Poliglotta già da giovanissima, sin da bambina parla e scrive correntemente in particolare il francese e l’inglese. Minuta, occhi blu e capelli biondi, Véra è molto bella.
Dopo la Rivoluzione ha trovato rifugio a Berlino. E’ in questa città, ricca di fermenti culturali ma in cui regna il caos politico, che Vladimir e Véra si incontrano nel 1923. Il loro amore sopravviverà all’esilio e ad una intera vita trascorsa sotto il segno del nomadismo. La vita degli emigrati è durissima. Per sopravvivere Nabokov dà lezioni di lingue, di tennis e persino di pugilato.
Fuggiti dalla Germania nazista (Véra è un’ebrea, orgogliosa di esserlo e non fa nulla per nascondere le sue origini), si trasferiscono a Parigi. Nonostante la situazione politica generale e l’avanzata dei nazisti, la coppia (che nel frattempo ha avuto un figlio, Dmitri) e nonostante tutti i preoccupati appelli degli amici americani ed esuli russi che li invitano a lasciare l’Europa è restia a lasciarsi ancora una volta tutto alle spalle. I Nabokov si decidono finalmente soltanto nel 1940, quando si rendono conto che il precipitare degli eventi li mette davvero in serio pericolo. Riescono infine ed all’ultimo momento, superando mille difficoltà burocratiche, ad imbarcarsi per gli Stati Uniti dove si stabiliscono ma la ricerca di lavoro e la passione per le farfalle di Vladimir (che Véra condivide) li porta a frequenti trasferimenti in Stati diversi.
Fino a quando, dopo l’enorme successo di Lolita non decidono di tornare in Europa e, preso alloggio in un grande albergo di Montreux, in Svizzera, vi rimarranno sino alla morte di entrambi.
Véra era una donna affascinante. Il suo fascino, a detta di tutti quelli che l’hanno incontrata, rimase tale anche nella maturità, anche dopo che a soli trent’anni a causa delle fatiche, dello stress, del troppo lavoro, della vita piena di rischi i capelli le diventarono tutti bianchi.
Ma Véra non è soltanto bella, è una donna di cervello ed è la sua influenza invisibile piuttosto che la sua immagine che attraversa tutta l’opera di Nabokov. Certo non è facile essere la moglie di un uomo che si inventa il termine “ninfetta” quando lei ha 56 anni, che è un genio della letteratura ma che è privo di qualsiasi elementare senso pratico, che lascia a lei tutto ciò che riguarda i rapporti con gli agenti, gli editori, gli avvocati. Che delega a lei la maggior parte della sua corrispondenza non solo professionale ma anche quella personale (le iniziali con cui Véra firmava le lettere, V.N. ben si prestavano all’ambiguità dell’intepretazione circa il mittente…). Che le dà da rivedere le sue opere e anche le loro traduzioni. Che la vuole sempre accanto durante le sue lezioni di letteratura all’Università dove Véra non solo gli fa da preziosissima assistente ma addirittura prepara lei stessa alcune lezioni, tenendone molte al posto suo quando Vladimir è malato o troppo occupato con i suoi libri, correggendo al posto suo i compiti degli studenti. Pare che gran parte delle famose lezioni di letteratura russa tenute da Nabokov sia stata lei a prepararle. Ovviamente con l’approvazione del marito.
Presenza-assenza costante, assiste il marito in tutte le sue fisime e paranoie (e Vladimir ne ha tante, eh). Lo segue nell’amore per le farfalle scarrozzandolo in macchina da un capo all’altro degli States (lui si è sempre rifiutato di imparare a guidare) e cacciando farfalle assieme a lui. Molte delle pagine che raccontano il girovagare di Humbert Humbert e di Lolita rievocano questi vagabondaggi.
Vladimir è molto fiero dell’abilità di Véra nel catturare e conservare gli esemplari.
Quando Nabokov, in piena crisi di scrittura, prende un bidone per la spazzatura, vi getta il dattiloscritto di Lolita e gli dà fuoco, è Véra che si precipita a salvarlo. Lei, convinta sostenitrice dell´impresa disperata di scrivere un romanzo così audace, di prevedibile difficile collocazione e di scarso successo commerciale. Nabokov confessò a un amico, sapendo di non esagerare: “Senza Véra non avrei mai scritto una riga”.
Véra è un fenomeno straordinario dell’ “esserci” senza mai “apparire”. Uno spirito indipendente senza essere indipendente. Una donna che ha deciso di essere “il secondo violino di un uomo che di se stesso diceva: “Penso come un genio, scrivo come un autore eminente, parlo come un bambino”.
La biografia scritta da Stacy Schiff, ricca di documenti inediti, ci illumina sulla vita nascosta di Véra, permette di distinguere, individuare il suo ruolo nel lavoro del marito. Racconta la storia di una coppia dal destino davvero fuori dal comune. Non è una ninfetta quella che il “padre” di Lolita ha amato per tutta la vita, ma un’ affascinante signora dai capelli bianchi.
Un libro che ci permette anche di scoprire chi era questa donna allo stesso tempo severa, intransigente e discreta e che cosa è stata la sua vita durante cinquantaquattro anni vissuti all’ombra di un genio di cui è stata per più di mezzo secolo la compagna, la complice, la guardia del corpo e soprattutto l’alter ego.
Un libro che (si) pone alcune domande fondamentali come per esempio questa: “Perchè una donna dalla volontà forte e indipendente […] assecondava tutte le opinioni del marito?” (p.165)
Perchè questa cura quasi maniacale di esserci ma di non apparire mai?
Le risposte e le argomentazioni che fornisce la Schiff mi sono sembrate estremamente interessanti. Ne riassumo schematicamente qualcuna. I grassetti sono miei.
Véra intese il matrimonio come una professione. Elevò ad arte il ruolo di moglie (p.67)
Era una donna di grandi capacità, ma non aveva ambizioni (p.180).
Era una maestra del mimetismo e del camuffamento (p.269), una donna per interpretare la quale la parola chiave è “maschera” (p.282). Aveva un vero e proprio “culto della cancellazione”. Faceva impazzire i biografi. Conservò religiosamente tutte le lettere inviatele da Vladimir ma distrusse tutte quelle scritte da lei a lui. Anche il diario veniva scritto a quattro mani, e spesso, dice la Schiff, è difficile capire quali siano le parti scritte da Véra e quelle scritte da Vladimir.
Véra era, secondo la Schiff “una donna timida, con troppo lavoro, morbosamente legata alla sua privacy e di elevati principi” ma che, proprio per questo, poteva apparire “irritabile, musona, distante e intransigente.”
A lei non importava. Lasciava che “le versioni falsificate di Véra Nabokov si disponessero le une sopra le altre, mentre l’originale rimaneva ignoto. Sembrava si ritenesse capace di convincere chiunque che non aveva ombra o che, se c’era dietro di lei una forma nera angolare, questa senz’altro non le apparteneva. Lasciava perplesso il biografo” (p.417)
Sono rimasta colpita da moltissime cose, leggendo questa biografia. Ne accenno solo due.
L’epistolario “pas des deux” e la questione della firma (o delle firme).
Era Vèra a tenere tutta la corrispondenza di Vladimir, l’interlocutore non sapeva mai chi davvero fosse l’autore della lettera che riceveva. Le iniziali uguali (V.N.) agevolavano molto, ma Véra perfezionò la tecnica del camuffamento: negli anni ’50 firmava ancora Véra Nabokov e scriveva a nome e per conto del marito. Poi cominciò a firmare ambiguamente V. Nabokov ed infine trovò la formula perfetta che conservò sino alla fine firmando “Mrs. Vladimir Nabokov”. Ma… colpo di scena: usò a volte anche un altro camuffamento firmando come “J. G. Smith”, un immaginario segretario della Cornell. Dice la Schiff: “Era questo signore che scriveva le lettere velenose di non raccomandazione per conto del professor Nabokov”.
Quando morì, il titolo del necrologio del New York Times diceva: “Véra Nabokov, morta a ottantanove anni, moglie, musa ed agente”.
Le sue ceneri furono unite a quelle del marito, e sulla pietra tombale oggi si legge
ECRIVAIN
VERA NABOKOV


Foto di Sheva Fruitman
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