DI QUEL CHE HO LETTO NEL 2009 E DELLA MIA NON VOLONTA’ DI COMPILAR CLASSIFICHE

Szvetan Todorov
Quali sono i libri più belli letti nel 2009?

Ho provato anch’io a compilare una sorta di classifica, come in questi giorni vedo si sta facendo in molti blog.

Ma ho rinunciato quasi subito.

Mi ritengo fortunata (ma anche, mi sia concesso un pizzico di autocompiacimento, lettrice che tutto sommato sa verso quali scaffali dirigersi e a quali referenze dare ascolto) perchè pochissimi dei libri letti quest’anno mi hanno delusa o annoiata. Di questi non ho parlato prima e non intendo certo parlare adesso.

Tutti gli altri, di molti dei quali ho scritto anche qui sul blog, mi hanno interessata, appassionata, divertita, comunque coinvolta.

Non mi sento però di definire priorità perchè i motivi per cui questi libri mi sono piaciuti sono stati i più diversi e non riesco proprio (ma soprattutto non voglio) metterli in fila utilizzando un unico, riduttivo criterio di valutazione.

Come potrei infatti scegliere, ad esempio, tra Lezione di tedesco di Siegfried Lenz e Easter Parade di Richard Yates, oppure paragonare Tentazione di János Székely con Martin Chuzzlewit di Charles Dickens o, ancora, La promessa dell’alba di Romain Gary con L’ultimo dono di Sándor Márai o con il bellissimo Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn?

Anche tra la saggistica, non potrei scegliere, ad esempio, tra Todorov e Allen, tra Citati e Magris, o paragonare Anna Funder ad Enzensberger.

Ciascuno di questi romanzi e/o saggi mi ha dato molto, ciascuno di questi libri mi ha arricchita facendomi conoscere cose diverse ed imparagonabili.

Vasilij GrossmanNo, proprio non mi sento di metterli uno dietro l’altro costringendoli in una classifica.

E poi, io preferisco parlare di autori piuttosto che di singoli testi e molti dei libri che ho amato in questo anno che sta per concludersi sono di autori che già apprezzavo e che ho cercato di approfondire.

Vasilij Grossman,  innanziutto.
Che   considero la mia più grande grande “scoperta” non solo del 2008 ma degli ultimi anni, la cui vita e opera ho appena solo cominciato ad esplorare e a cercare di approfondire.

Nabokov. Di cui ho tanto parlato e del quale parlerò ancora.

Vladimir Nabokov

E poi Irène Némirovsky, Sándor Márai, Magda Szabó, per citarne solo alcuni.

Irène Némirovsky Sandor MaraiMagda Szabo

Naturalmente ci sono state le riletture, che sono sempre, per un motivo o per l’altro, portatrici di sorprese e proficui  stupori.

Le riletture arricchiscono in ogni caso, sia   che il  libro riletto ci piaccia  più e quanto  la prima volta, sia nel caso in cui ci succede  (e può succedere,  come no)  di dire a noi stessi: “Ma come caspita ha fatto   ‘sto  libro a piacermi, in quel dì d’antan?!”

Le riletture  sono indicatori formidabili per dirci quanto “noi”  siamo rimasti eguali e quanto il libro regga al tempo ed ai  cambiamenti  dei suoi lettori, oppure se e quanto siamo cambiati e/o quanto quel libro non tollera lettori e contesti diversi da quelli in cui  comparve e venne letto  le prime volte.

Ho lasciato per ultime quelle che considero le mie “scoperte” del 2009.

Prima scoperta quel meraviglioso autore che è W. G. Sebald.

W.G. Sebald

Seconda scoperta, il coup de foudre di questi ultimissimi giorni

Thomas Bernhard
Thomas Bernhard

Ebbene sì, l’ho incontrato solo adesso, con imperdonabile ritardo, ma in compenso è stato subito amore a prima vista.
Questo signore è già entrato a pieno titolo nel mio personale Pantheon letterario.

Sono ancora stordita dall’incontro e per questo di lui non ho ancora scritto quasi nulla, nel blog.

IL PIU’ LUCIDO DI TUTTI I FOLLI

Glenn Gould e la sua sediaGlenn Gould, Foto © Gordon Parks

“Era diventato il più lucido di tutti i folli […] Appena si sedeva al pianoforte, subito Glenn si raggricciava tutto, pensai, e allora sembrava una bestia, ma a guardarlo più attentamente pareva uno storpio, e se lo si guardava ancora più attentamente appariva per quell’uomo bello e intelligente che in effetti era”

” suonò […] quelle parti delle Variazioni Goldberg […] Si raggricciò tutto e cominciò a suonare. Suonava per così dire dal basso verso l’alto,  non come tutti gli altri dall’alto verso il basso. Era questo il suo segreto.”

Per quasi trent’anni, dal 1953 sino al 1982 (anno della sua morte), Glenn Gould suonò sempre e solo seduto sulla sua particolarissima, sgangherata sedia.

Gliel’aveva costruita suo padre Bert Gould, perchè Glenn la voleva più bassa del normale, con uno schienale che fosse quasi ad angolo retto rispetto al sedile e che fosse inoltre leggera, resistente e facilmente trasportabile.
Sembra che Bert Gould abbia   preso    a modello una sedia pieghevole da giocatore di carte; la rese più corta segando ogni gamba di dieci centimetri, ed aggiunse dei martinetti che permettevano di regolarne l’altezza a seconda del repertorio musicale da eseguire.

Glenn Gould e la sua sedia

Il alto, Glenn Gould per strada a New York, nel 1956, con la sedia piegata sottobraccio mentre si reca agli Studi della Columbia Records per incidere Bach e Beethoven.

LA FAVOLA DI NATALE – GIOVANNI GUARESCHI

Guareschi Favola di Natale
Giovanni GUARESCHI, La favola di Natale
p.93, BUR Biblioteca Universale Rizzoli, ill., 2004

Seconda guerra mondiale.

Quando l’Italia firmò l’armistizio con le truppe Alleate, Giovanni Guareschi si trovava in caserma ad Alessandria.

Rifiutò di passare alla Repubblica di Salò e al Reich. Venne quindi arrestato e inviato nei campi di prigionia di Czestochowa e Benjaminovo in Polonia e poi in Germania a Wietzendorf e Sandbostel per due anni, assieme ad altri soldati italiani: gli IMI (Internati Militari Italiani).
In seguito descrisse questo periodo in Diario clandestino

A Sandbostel, nello Stalag X B, nell’inverno del 1944 compose La Favola di Natale, racconto musicato di un sogno di libertà.

Scritta per allietare i compagni durante il loro secondo Natale da prigionieri, La favola di Natale è ispirata da tre Muse che si chiamano Freddo, Fame, Nostalgia.

“Non è una delle solite favole che rallegrano da secoli e secoli la prima giovinezza degli uomini, ma è stata scritta da uomini maturi e ad essi è stata raccontata nel Natale del 1944. E ciò avvenne in un campo di prigionia sperduto in una deserta landa del Nord”

Albertino è un ragazzino che ha imparato a memoria una poesia da recitare a suo padre per la vigilia di Natale, ma il padre, prigioniero di guerra, non è a casa ed il bambino recita la poesia alla sedia vuota.

La finestra si apre all’improvviso ed i versi si trasformano in un uccellino che vola via nel vento.

Allora Albertino decide di andare in cerca di suo padre insieme al cane Flick, anche se i due non hanno mai viaggiato prima tranne che per andare dalla nonna, che abita  nello stesso isolato.

Albertino e il cagnolino  Flick  attraversano insieme la terra della Pace diretti verso la terra della Guerra e incontrano lungo la via molti personaggi, finché non raggiungono la Foresta degli Incontri: una specie di terra di nessuno, dove finalmente si trovano davanti il padre di Albertino, che ha viaggiato in sogno per passare una notte speciale insieme al figlio.

Giovanni Guareschi Favola di Natale
“Era lui.
Era il babbo.
Era il babbo che, nella notte di Natale, era fuggito dal suo brutto recinto
e ora camminava in fretta verso la sua casa”

Arturo Coppola, compagno di prigionia di Guareschi musicò la favola e diresse l’orchestra ed il coro dei prigionieri per la rappresentazione “magica” che ebbe luogo nel campo di concentramento la sera del 24 dicembre 1944.

Beniaminow (Oflag 73 - Stalag 333)

Racconta Guareschi nell’introduzione scritta dopo la guerra:

“Questa favola io la scrissi rannicchiato nella cuccetta inferiore di un ‘castello’ biposto, e sopra la mia testa c’era la fabbrica della melodia. Io mandavo su da Coppola versi di canzoni nudi e infreddoliti, e Coppola me li rimandava giù rivestiti di musica soffice e calda come lana d’angora. […] I violinisti non riuscivano a muovere le dita per il gran freddo; per l’umidità i violini si scollavano, perdevano il manico. Le voci faticavano ad uscire da quella fame vestita di stracci e di freddo.

Ma la sera della vigilia, nella squallida baracca del “teatro”, zeppa di gente malinconica, io lessi la favola e l’orchestra, il coro e i cantanti la commentarono egregiamente, e il “rumorista” diede vita ai passaggi più movimentati.”

Ancora due disegni tratti dalla Favola:

Giovanni Guareschi Favola di NataleLa nonna di Albertino gli spiega che ogni notte visita il sogno il suo papà

Giovanni Guareschi Favola di Natale
Dopo l’avvventura natalizia, il papà deve tornare al campo.

“Papà, perchè non mi prendi con te?”
“Neppure in sogno i bambini debbono entrare laggiù. Promettimi che non verrai mai.”
“Te lo prometto, papà”

La Favola di Natale è la bella, semplice storia di un viaggio miracoloso reso possibile dall’amore di un bambino per il suo papà e di una vecchia donna per il suo “piccolo”.
Un racconto delicato pieno di ironia e speranza, una favola fatta di coraggio ed amore nonostante la disperazione del campo di concentramento.

Contiene anche, e Guareschi lo dice esplicitamente, un contenuto polemico che si comprende immediatamente guardando le illustrazioni, ma “la vicenda interessava i prigionieri forse ancora più del contenuto polemico della fiaba stessa”.

Beniaminow (Oflag 73 - Stalag 333)
Il campo di Beniaminow in un disegno di Guareschi
  • Il libro >>
  • Anni fa si poteva acquistare il libro accompagnato da un’audiocassettain cui la favola veniva letta con l’accompagnamento delle musiche e delle canzoni di Coppola.Io posseggo questa edizione, che mi venne regalata da un mio caro amico libraio proprio in occasione di un Natale

Adesso è fuori commercio, ma voglio dare egualmente le indicazioni bibliografiche. Magari chissà, si può sperare in qualche fondo di magazzino o bancarella dell’usato….

Guareschi Favola di Natale

Favola di Natale , Giovannino Guareschi (Testi e Disegni), Arturo Coppola (Musiche e canzoni d’accompagnamento per coro e orchestra), accompagnamento di Coppola all’armonica.
Rizzoli, Milano, 1992 + 1 audiocassetta, ISBN: 978-8-81765-457-9

  • La foto di Guareschi che ho inserito nel post è stata scattata nel campo di Sandbostel nel 1944

PROUST E THOMAS HARDY

Dante Gabriele Rossetti
Dante Gabriel Rossetti 1828-1882
Aurea Catena (Portrait Of Mrs. Morris)

Parlando del romanzo L’Amata di Thomas Hardy ho detto  che questo libro di per sé non mi ha entusiasmata e che ad esso continuo a preferire decisamente altre opere di Hardy.

Chiudevo però dicendo anche che la lettura è stata comunque per me estremamente interessante, e per un particolarissimo motivo al quale voglio oggi accennare.

Una delle motivazioni che mi ha spinto a leggere L’Amata (oltre il mio generale grande interesse per Hardy) era costituita dal fatto che volevo capire qualcosa di più sul perchè Marcel Proust, grande ammiratore degli scrittori vittoriani, nutrisse un interesse particolare proprio nei confronti di Hardy e proprio per quest’opera in genere considerata minore e sicuramente non tra quelle più famose.

Accenni a L’amata si trovano in una lettera di Proust a Léon Hennique del 1919 in cui scrive:

“[…] la Bien -Aimée di Hardy mi ha tenuto spesso fruttuosa compagnia, nella mia esistenza di sofferenze fisiche e mentali.
Spesso mi sembra di essere col pensiero nell’isola che risuona del rumore delle cave”

Al suo grande amico Robert de Billy scrisse, sempre a proposito de L’Amata che

“rassomiglia [va] pochino pochino, mille volte in meglio, a quello che sto scrivendo”

Il romanzo viene poi citato espressamente in una pagina de La Prigioniera.

Si tratta di quel brano in cui il Narratore, parlando ad Albertine delle ricorrenze nella musica di Vinteuil paragonandole alle ricorrenze che si trovano nelle opere dei grandi scrittori sottolinea la “geometria dei tagliatori di pietre nei romanzi di Thomas Hardy”.

” j’expliquais à Albertine que les grands littérateurs n’ont jamais fait qu’une seule oeuvre, ou plutôt n’ont jamais que réfracté à travers des milieux divers une même beauté qu’ils apportent au monde. « S’il n’était pas si tard, ma petite, lui disais-je, je vous montrerais cela chez tous les écrivains que vous lisez pendant que je dors, je vous montrerais la même identité que chez Vinteuil. Ces phrases-types, que vous commencez à reconnaître comme moi, ma petite Albertine, les mêmes dans la sonate, dans le septuor, dans les autres oeuvres, ce serait, par exemple, […] Ce sont encore des phrases types de Vinteuil que cette géométrie du tailleur de pierre dans les romans de Thomas Hardy.”

“Le spiegavo che i grandi scrittori non hanno mai composto che un’opera sola; o piuttosto non hanno mai fatto che rifrangere attraverso mezzi diversi la stessa bellezza da loro arrecata al mondo.
— Se non fosse già tardi, piccina mia, — le dicevo, — vi mostrerei nelle opere di tutti gli scrittori che leggete mentre io dormo la stessa identità che in quelle di Vinteuil. Quelle frasi tipiche, che voi, mia piccola Albertine, cominciate a riconoscere come me, sempre le stesse, nella Sonata, nel Settimino, nelle altre opere, sono, per per esempio […] Similmente, nei romanzi di Thomas Hardy, alle frasi tipiche di Vinteuil corrisponde la geometria dello scalpellino”

[…]

“je revins à Thomas Hardy. « Rappelez-vous les tailleurs de pierre dans Jude l’obscur, dans la Bien-Aimée, les blocs de pierres que le père extrait de l’île venant par bateaux s’entasser dans l’atelier du fils où elles deviennent statues ; dans les Yeux bleus, le parallélisme des tombes, et aussi la ligne parallèle du bateau, et les wagons contigus où sont les deux amoureux, et la morte ; le parallélisme entre la Bien-Aimée où l’homme aime trois femmes et les Yeux bleus où la femme aime trois hommes, etc. “

“tornai a Thomas Hardy.– Voi vi ricordate abbastanza che in Giuda l’oscuro e avete visto in La ben amata i blocchi di pietra che il padre estrae dall’isola e che, trasportati per via di mare, si accumulano nello studio del figlio, dove diventano statue; in Due occhi azzurri, il parallelismo delle tombe, ed anche la linea parallela del battello, e i vagoni contigui dove stanno i due innamorati, e la morta; il parallelismo tra La ben amata, dove l’uomo ama tre donne, e Due occhi azzurri, dove la donna ama tre uomini, eccetera;”

Marcel Proust, A la recherche du Temps perdu, La Prisonnière
La traduzione italiana è di Paolo Serini.

Proust è anche particolarmente attratto, a proposito del parallelismo geometrico e dell’ossessione per la pietra scolpita o no come “una tomba, una chiesa, una cripta”

Geometria, simmetria, ripetizione, dunque.

Sono questi gli elementi di cui Proust si serve per sostenere la tesi del Narratore secondo cui “les grands littérateurs n’ont jamais fait qu’une seule oeuvre, ou plutôt n’ont jamais que réfracté à travers des milieux divers une même beauté qu’ils apportent au monde.”

Ma oltre ciò di cui parla esplicitamente Proust, c’è ben altro, in questo romanzo del vittoriano Hardy, che lo rende singolarmente vicino allo scrittore francese.

Victorian Lady
Sir Edward Coley Burne-Jones, (1833-1898)
Portrait of a Girl in a green dress, 1890 ca.

L’amata di Thomas Hardy racconta la storia di uno scultore che crede di riconoscere l’incarnazione del suo Ideale in una quantità di donne che si succedono l’una all’altra; ma ad una fase di entusiasmo succede una fase di rapida de-cristallizzazione.

Sarà dunque un’affascinante mescolanza di incostanza e di fissità che avrà caratterizzato questo viaggio sentimentale e chimerico legato a quello che il Jocelyn Preston di Hardy chiama “le migrazioni dell’amata”:

“Era stato sempre fedele alla sua amata, ma ella aveva avuto numerose incarnazioni”.

Come più tardi nella visione proustiana dell’amore, la metafora del ruolo tenuto da attrici differenti è insistente.

Ma l’aspetto più singolare del racconto di Hardy è che a venti e a quarant’anni di distanza, Jocelyn Preston si innamora delle “tre Avice”: la nonna, la madre e la figlia; alla ragazza alla quale chiede di sposarlo — domanda che verrà respinta — egli finisce per confessare che egli, prima di lei, ha amato sua madre e sua nonna; un po’ sorpresa ma ormai disposta/rassegnata ad accettare tutto, la ragazza gli domanda se lui ha amato anche la sua bisnonna; lo scultore può dire, a questo proposito che, no, la bisnonna no…

Al termine del romanzo, tutte le amate di Jocelyn sono invecchiate o sono morte e Jocelyn Preston si sente, più dolorosamente che euforicamente… “ricacciato fuori dal tempo”.

In un certo modo, qualcosa del genere ritroviamo in Proust ne Le Temps retrouvé, ultimo volume de A la Recherche du temps perdu.

Giovanni Boldini
Giovanni Boldini, Ritratto di giovane donna

La situazione che Proust ci presenta ha un aspetto ancora più incongruo e scabroso: nel corso dell’ultima matinée Guermantes infatti la nonna, la madre e la figlia (Odette, Gilberte e Mlle de Saint-Loup) si ritrovano tutte e tre riunite in presenza del Narratore, del quale si può dire che ha “amato” sia Madame Swann che Gilberte nella prima parte di Du côté de chez Swann.

Adesso il Narratore, dopo aver confuso fisicamente le due donne (“Vous me prenez pour ma mère’, m’avait dit Gilberte. C’était vrai” —- “Voi mi confondete con mia madre”, mi aveva detto Gilberte. Era vero” ) sospetta che Gilberte abbia ereditato da sua madre dei costumi dubbi e pensa che essa sia —- come lo sarebbe stata una entremetteuse (mezzana) — sin troppo disposta, a presentargli sua figlia.

Certo, il Narratore de la RTP si stupisce e diffida molto più di quanto faccia l’eroe del romanzo di Thomas Hardy per la stranezza di questo eterno ritorno (che comunque non lo spinge mai, come succede al protagonista de L’Amata ad una formale richiesta di matrimonio).

Proust inoltre, ricordiamolo, non smette mai, durante tutto il corso della RTP, di esplorare i sistemi genealogici e i meccanismi della trasmissione ereditaria.

Ma soprattutto non rinuncia mai a quel grande principo della Recherche secondo il quale il desiderio amoroso, estetico o mondano (e cioè la legge suprema del suo romanzo, quali che possano essere le incongruità dei comportamenti che possano produrre) si prende gioco delle persone e non tiene conto che delle “qualità”, sempre più o meno arbitrariamente incarnate, e sempre a titolo provvisorio.

Certo, non dimentico che — nel Le Temps retrouvé — tutti ridono credendo che il Narratore scherzi quando chiede a Gilberte se ella non tema di compromettersi accettando l’invito a cena di un giovanotto (lui, che giovanotto non è più).

Ma l’apparizione di Mlle de Saint-Loup all’ultima matinée Guermantes fornisce l’occasione per una serie di variazioni didattico-poetiche destinate a razionalizzare e a legittimare le incongruità apparenti di un desiderio che, per restare fedele a se stesso, dovrà necessariamente e naturalmente passare da una generazione ad un’altra.

Ciò che viene splendidamente detto alla fine di Albertine disparue:

“C’était elle qui était maintenant ce qu’Albertine avait été autrefois : mon amour pour Albertine n’avait été qu’une forme passagère de dévotion à la jeunesse. Nous croyons aimer une jeune fille et nous n’aimons hélas ! en elle que cette aurore dont son visage reflète momentanément la rougeur

“Era lei adesso quella che un tempo era stata Albertine: il mio amore per Albertine non era stata che una forma passeggera di devozione alla giovinezza. Noi crediamo d’amare una fanciulla e non amiamo, ahimé! in lei che quest’aurora il cui viso riflette momentaneamente il rossore”

Chiudo con un passaggio dal Contre Sainte-Beuve che riflette la profonda ambivalenza di Proust rispetto agli scrittori ed agli artisti in genere da lui amati e considerati Maestri:

“Les écrivains que nous admirons ne peuvent pas nous servir de guides, puisque nous possédons en nous, comme l’aiguille aimantée ou le pigeon voyageur, le sens de notre orientation. Mais tandis que guidés par cet instinct intérieur nous volons de l’avant et suivons notre voie, par moments, quand nous jetons les yeux de droite et de gauche sur l’oeuvre nouvelle de Francis Jammes ou de Maeterlinck, sur une page que nous ne connaissions pas de Joubert ou d’Emerson, les réminiscences anticipées que nous y trouvons de la même idée, de la même sensation, du même effort d’art que nous exprimons en ce moment, nous font plaisir comme d’aimables poteaux indicateurs qui nous montrent que nous ne nous sommes pas trompés, ou, tandis que nous reposons un instant dans un bois, nous nous sentons confirmés dans notre route par le passage auprès de nous à tire-d’aile de ramiers fraternels qui ne nous ont pas vus

“Gli scrittori che noi ammiriamo non ci possono servire da guide, perchè abbiamo già in noi, — come l’ago calamitato o il piccione viaggiatore, — il senso del nostro orientamento. Ma, mentre guidati da questo [istinto] interiore noi procediamo innanzi, seguendo la nostra via, ogni tanto, quando gettiamo un’occhiata a destra o a manca sull’ultima opera di Francis Jammes o di Maeterlinck, o su una pagina ancora noi sconosciuta di Joubert o di Emerson, le reminiscenze anticipate che vi scorgiamo della stessa idea, della stessa sensazione, dello stesso sforzo d’arte che noi esprimiamo in quello stesso momento ci fanno piacere, come amabili cartelli indicatori che ci confermano che non abbiamo sbagliato strada o ci informano del passaggio vicino a noi, a volo spiegato, d’uno stermo di palombi fraterni, che non ci hanno visto”

Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, Note sulla letteratura e la critica. Traduz. ital. di Paolo Serini e Mariolina Bongiovanni Bertini

Sono rimasta parecchio stupita nel vedere quanti altri particolari della storia narrata da Hardy oltre al tema della costante e sempre inappagata ricerca di un ideale di bellezza femminile che si concretizzi in una donna in carne ed ossa, di un’ “Amata” inafferrata e inafferrabile siano in sintonia con alcuni dei più importanti leit motiv proustiani.

Le assonanze — ma forse sarebbe più corretto chiamarle coincidenze? — sono talmente numerose che meriterebbero davvero uno studio approfondito.

Magari qualcuno l’ha già fatto, io non lo so: la bibliografia proustiana è ormai talmente sterminata che è quasi impossibile, per una lettrice comune quale sono io, starle dietro…

Accenno solo, brevissimamente ed alla rinfusa, a qualche elemento che mi ha particolarmente suggestionata:

  • L’illusione (frustrata) di Jocelyn nei confronti di Avice (la seconda) di “sorvegliarla, di plasmare la sua mente, e educarla; e avrebbe potuto allontanarla da qualche vicino pericolo”è la stessa che il Narratore nutre nei confronti di Albertine.La fantasia — sempre inappagata — di possesso totale che egli nutre verso Albertine trova momentaneo sollievo soltanto nei momenti in cui il Narratore contempla il sonno di Albertine: Albertine che dorme non può pensare, è priva di coscienza e di volontà, è come un vegetale e dunque, finalmente, non può sfuggirgli…
  • l’Amata è inafferrabile come inafferrabili sono le quattro donne in cui sembra incarnarsi agli occhi di Jocelyn.Albertine viene definita dal Narratore un “être de fuite”, e cioé una persona la  cui vita   rimane in gran parte opaca e che resta misteriosa.Da ciò la necessità, per il Narratore, di andare a caccia della verità per sapere realmente chi essa sia.Ma non riuscirà a conoscerla, malgrado tutti i suoi tentativi, se non in modo frammentario.Nel romanzo di Hardy, più volte Jocelyn si lamenta del fatto di non riuscire  a capire che cosa pensino davvero le tre Avice, e tutti i suoi tentativi di comprendere i veri sentimenti che le donne nutrono verso di lui rimangono vani…Anche l’Amata di Hardy è un “être de fuite”.
Toulouse Lautrec Lavandaia
Henri de Toulouse Lautrec
La blanchisseuse (La lavandaia),1884-86
olio su tela, Collezione privata

 

  • Non poteva non colpirmi il fatto che la prima e la seconda Avice facciano le lavandaie: chi conosce la RTP sa bene quanto sia pullulante di anonime, deliziose, inafferrabili e sfuggenti lavandaie (e lattaie e giovani pescatrici, sia detto per inciso) di cui il Narratore si invaghisce in continuazione e che stimolano in lui fantasie erotiche…

Mi fermo qua ma, ripeto, il tema meriterebbe un approfondimento.

Per tornare sullo specifico del romanzo di Hardy, posso ben dire che, per quanto mi riguarda, L’Amata mi è servito — per quanto la cosa possa apparire bizzarra — non tanto a capir meglio Hardy quanto a far più luce su alcune idee e temi ricorrenti della RTP…

  • Il mio post su L’Amata di Thomas Hardy >>

LO EXTRA-ORDINARIO BERNHARD

Thomas Bernhard
“La difficoltà non sta nell’avere una cosa nella testa, tutti nella testa hanno cose straordinarie, le hanno continuamente fino alla fine della loro vita, le cose più straordinarie, la difficoltà sta piuttosto nel far uscire queste cose straordinarie dalla testa e trasferirle sulla carta. Nella testa si può avere tutto ed effettivamente tutti hanno tutto nella testa ma sulla carta non c’è quasi nessuno che abbia qualcosa […] Mentre nelle teste di tutte le persone ci sono le cose più straordinarie, sulle loro carte si trovano sempre le cose più banali assurde e pietose”

“Tutto è sopportabile, perchè è così comico. Non abbiamo altro al mondo che la commedia allo stato puro e qualunque cosa facciamo, non riusciremo mai a uscire dalla commedia […] Ma per potere sopportare questa commedia, di tanto in tanto bisogna scaricare il cervello, liberarlo del suo contenuto come si fa con l’urina”

 

MAX OPHULS – LETTERA DA UNA SCONOSCIUTA

Lettera da una sconosciuta  Louis Jourdan

Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls, tratto dalla novella di Stefan Zweig del 1922 della quale ho già parlato >> qui, è il secondo film realizzato negli Stati Uniti dal regista tedesco dopo il 1947.

In un’intervista rilasciata nel 1957 a Jacques Rivette e François Truffaut — allora critici ai Cahiers du cinéma — Ophüls ricorda le circostanze in cui riuscì a convincere il presidente della Universal Bill Goetz a produrre questo adattamento della novella di Zweig e come fece per incontrarlo:

“…Per potergli parlare in tutta tranquillità; sapevo quanto fosse difficile ottenere un appuntamento; e poi, c’è sempre il telefono che interrompe la conversazione. Ma c’è un bagno turco, allo studio, ed ho fatto in modo da prendere un bagno di vapore assieme a lui. Tutto nudo, sotto i getti di vapore, gli ho parlato della Lettera di una sconosciuta, gli ho detto che ero il solo regista al mondo ad essere capace di realizzare questo film, e lui mi ha risposto semplicemente, annuendo: “Why not”, e cioè “Perchè no”. E così…” (Rivette, Jacques, Truffaut, François. « Entretien avec Max Ophuls », Cahiers du cinéma n° 72, juin 1957)

E’ utile ed interessante — anche e forse soprattutto per chi già conosca la novella di Zweig — leggere

La sceneggiatura di Howard Koch e dello stesso Ophüls segue infatti, è vero, passo passo il racconto di Zweig, ma introduce anche alcuni dettagli che non sono affatto insignificanti.
Qui i personaggi hanno un nome, una precisa identità: lei si chiama Lisa Berndle ed è interpretata da una magnifica Joan Fontaine.

Lettera da una sconosciuta  Joan Fontaine

La lettera di Lisa è scritta su carta intestata del St. Catherine’s Hospital, ed a margine c’è l’annotazione di una suora:

“Questa lettera è stata scritta da una paziente che si trovava qui. Crediamo sia indirizzata a voi, perchè è il vostro nome che ha pronunciato prima di morire”…

Max Ophuls Lettera da una sconosciutaMax Ophuls Lettera da una sconosciuta

Lui si chiama Stefan Brand (Louis Jourdan).
Il nome Stefan come omaggio all’autore della novella?

Louis Jourdan

Non è uno scrittore ma un pianista. Probabilmente perchè la modalità espressiva di un musicista si presta maggiormente ad una rappresentazione cinematografica dell’attività di uno scrittore, chissà.

Di sicuro, le sequenze del film in cui Brand/Jourdan suona il pianoforte sono tra le più efficaci nel rappresentare la fascinazione che l’uomo esercita su Lisa.

Ma Stefan Brand, che da giovane era stato accolto nel mondo concertistico come grande promessa si rivela poi in realtà, con il passare degli anni, artista di mediocre talento.

Lettera da una sconosciuta  Max Ophuls
Lettera da una sconosciuta  Louis Jourdan

La Vienna fine Ottocento, completamente ricostruita negli studi hollywoodiani, insistentemente, manifestamente finta ed artificale risulta, grazie anche al bianco e nero della stupenda fotografia di Franz Planer magicamente suggestiva ed allegorica.

La sequenza di Lisa e Stefan seduti all’interno di un vagone del trenino del Prater mentre scorrono fondali di cartone, ad esempio, è da antologia e sembra alludere metaforicamente all’artificiosità ed illusorietà del loro stesso rapporto.

Joan Fontaine Louis Jourdan

In questa Vienna quasi sempre notturna Ophüls incastona un ritratto di donna innamorata — innamorata senza speranza — la cui delicatezza e malinconia, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Joan Fontaine (non mi stanco di ripeterlo) raggiungono lentamente e inesorabilmente punte di grande lirismo, commovente e mai sdolcinato.

La macchina da presa percorre i corridoi delle case, marciapiedi di stazioni ferroviarie, sale le scale, passa dall’uno all’altro dei componenti questa coppia tra i quali c’è attrazione, fascinazione ma anche una irrimediabile incompatibilità.

L’intensità, la profondità del personaggio di Lisa è meravigliosa in tutto il film, ma forse sono due, le scene davvero indimenticabili.

Una è quella in cui vediamo Lisa tredicenne che sull’altalena nel cortile ascolta il suono del pianoforte arrivare dall’appartamento di Stefan mentre il vento scompiglia i suoi lunghi capelli biondi

L’altra è quella in cui tutto l’amore, la dedizione, l’adorazione di una Lisa ormai donna è espressa dagli occhi di Joan Fontaine.

Lettera da una sconosciuta  Joan Fontaine
Joan Fontaine

Gli occhi, gli specchi, il rispecchiamento (o il non-rispecchiamento) di sè nello sguardo dell’altro sono elementi importanti e ricorrenti, sottolineati e scanditi dalla simmetria di alcune sequenze.

Come ad esempio quella che, all’inizio del film, mostra la giovane Lisa che, in cima alla scala, vede Stefan Brand portarsi in casa la sua amante del momento e quella, verso la fine del film, in cui è la stessa Lisa ad entrare in casa al braccio di Stefan. Adesso è lei a rappresentare per il pianista Stefan Brand solo la piacevole avventura di una notte.
Anche il personaggio di Stefan (un eccellente Louis Jourdan) è disegnato in modo molto raffinato e ricco di sfumature e questo non è da sottovalutare, perchè la frivolezza è forse più difficile da esprimere che l’amore devoto ed appassionato di Lisa.

Lettera da una sconosciuta  Max Ophuls
Lettera da una sconosciuta  Max Ophuls

E adesso, dopo ben due post dedicati a questa Sconosciuta, posso finalmente dichiarare che se focalizzo l’attenzione sulla storia d’amore e sui due personaggi della coppia, è decisamente al film di Ophüls che vanno le mie preferenze.

Può forse sembrare paradossale, ma gli elementi introdotti nella storia dal regista-sceneggiatore fanno si che essa risulti molto più sottile e struggente di quanto appaia nella novella.

E, sempre rispetto alla storia, sono convinta che il particolare del duello di Stefan Brand con il marito di Lisa sia il vero colpo di genio della sceneggiatura perchè assegna all’uomo un bisogno di riscatto finale che finalmente dà un senso all’amore di questa donna che non gli è più sconosciuta ma che adesso rivive pienamente nel suo ricordo come “Lisa”.

Sugli aspetti che invece trovo notevoli nella novella di Zweig mi sono già espressa nel post a lui dedicato.

Tornando al film, voglio chiudere con queste parole di Georges Sadoul:

“Come nelle opere più belle di Ophüls, l’apparente leggerezza nasconde pessimismo e tristezza, una tenerezza vicina alla crudeltà. La scenografia è rimasta celebre come una delle imprese più difficili e intensamente poetiche della Hollywood di quegli anni.”

(Georges Sadoul, da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968 >>)

Joan Fontaine Lettera da una sconosciuta Ophuls

Letter from an Unknown Woman (1948), regia di Max Ophüls, tratto dal racconto Brief einer Unbekannten di Stefan Zweig, Sceneggiatura Howard Koch,Max Ophüls,
Principali interpreti e personaggi: Joan Fontaine (Lisa Berndle), Louis Jourdan (Stefan Brand), Marcel Journet (Johann Stauffer), Art Smith (John), Mady Christians (Signora Berndle), Carol Yorke (Marie)
Fotografia: Franz Planer, Montaggio: Ted J. Kent, Musiche: Daniele Amfitheatrof
B/N, 86 min., USA, 1948

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  • Il film su YouTube (in inglese) >>
Lettera da una sconosciuta

LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA – STEFAN ZWEIG

Zweig Lettera di una sconosciuta
Stefan ZWEIG, Lettera di una sconosciuta (Tit. orig. Brief einer Unbekannten), traduz. Ada Vigliani, p.88, Adelphi, Piccola Biblioteca Adelphi, 2009, ISBN 9788845924460

Un libriccino (solo 88 pagine, lo si può leggere in un’ora) che mi ha dato molto da pensare.

Cerco di andare con ordine.

Il famoso romanziere R, tornato a Vienna dopo “una ritemprante vacanza “, si rende conto che è il giorno del suo quarantunesimo compleanno.

Arrivato a casa, la sera gli viene consegnata una strana busta che non presenta informazione alcuna circa il mittente. La apre con noncuranza.

La lettera è di circa venti pagine. Non è firmata. In alto, a destra, poste come intestazione e apostrofe, solo le parole

“A te, che mai mi hai conosciuta”.

Una donna gli dice che il proprio bambino è appena morto, e che lei sta scrivendo accanto al corpicino esanime del figlio.

L’attenzione dell’uomo è catturata. Egli si immerge totalmente in una lettura che lo occuperà fino all’alba.

La frase “Ieri il mio bambino è morto” — l’incipit della lettera — tornerà spesso e la donna scrive chiaramente che, se lui sta adesso leggendo questi fogli, significa che anche lei è morta.

La lettera — una lunga lettera d’amore scritta di getto, appassionata e pervasa da una immensa tristezza — gli racconta la storia della vita della donna ma rivela anche, allo scrittore, uno spaccato di esistenza di cui egli non era consapevole.

La storia narrata è quella di una ragazzina di tredici anni che si innamora follemente di un uomo — uno scrittore famoso — prima ancora di averlo visto e incontrato (“Ancora prima che tu fossi entrato nella mia vita, eri già avvolto in un nimbo”)

Quando finalmente lo incontra per le scale, dopo giorni di appostamenti, la sua vita viene segnata per sempre: “…è forse necessario dirti che da quel giorno […] nient’altro più mi interessò all’infuori di te […]?”.

La ragazzina inizia allora tutta un serie di appostamenti, spia il giovane scrittore, lo segue, l’ama follemente ma in segreto; si accorge che a lui piace uscire la sera e sedurre donne eleganti e piene di fascino, ne comprende il carattere duplice ed allo stesso tempo lo mitizza: “tu sei per così dire bifronte, sei un giovanotto ardente e spensierato, tutto dedito al gioco e all’avventura, ma anche, nell’esercizio della tua arte, un uomo colto, di sterminate letture, ligio al dovere e di una serietà inflessibile”.

Gli anni passano, la ragazzina diventa una giovane donna, i due abitano ormai in posti diversi ma tutta l’esistenza della donna, le sue scelte, le sue decisioni sono prese esclusivamente in funzione del suo ossessivo desiderio di incontrare di nuovo l’oggetto del suo amore, di essere da lui conosciuta e ri-conosciuta.

Finchè, finalmente, il suo sogno si avvera.
I due passano una notte insieme, e poi un’altra, anni dopo, senza che lui si ricordi mai nè riconosca che si trova davanti la ragazzina di un tempo nè la giovane donna di qualche anno prima. Non si ricorda di lei.

Per lui non si tratta, di volta in volta, che di episodi piacevoli ma che non hanno alcun peso, senza storia nè memoria; per lei si tratta dell’amore della vita.

Questa lunga lettera gli rivela un passato di cui non era consapevole e che adesso, sotto lo sguardo appassionato di un essere che ha ignorato, si sforza in ogni modo di ricordare.

Nel libro si narra dunque di un amore totale, passionale, che si proclama disinteressato; l’amore nascosto nell’ombra di una donna che dichiara di non chiedere niente in cambio se non di poterlo finalmente confessare, questo suo grande amore.

Racconta di una ferita viva, aperta, in cui la morte del bambino rappresenta il tragico simbolo di un amore che il tempo non ha indebolito nè intaccato.

Una dichiarazione d’amore fanatica, febbrile, tenera e folle, la lettera-testamento di una donna morente divorata da una passione assoluta, da un vero e proprio amour fou.

Questo racconto lungo (o romanzo breve) pubblicato da Zweig nel 1922, ebbe un successo straordinario e contribuì in maniera decisiva alla popolarità dello scrittore austriaco non solo nel suo Paese ma presso un pubblico internazionale.

Lettera di una sconosciuta viene spesso definito “romanzo epistolare”.
Impropriamente, perchè quello che leggiamo (e che lo scrittore R. legge assieme a noi) è in realtà un lungo monologo cui la morte di colei che scrive vieta irrimediabilmente qualunque possibilità di scambio e di interlocuzione.

“A te solo voglio parlare, per la prima volta ti dirò tutto: dovrai conoscere tutta la mia vita, che è sempre stata la tua e di cui tu non hai mai saputo nulla. Ma conoscerai il mio segreto solo quando io sarò morta e tu non dovrai più darmi risposte”

La scrittura di Zweig è, come sempre, magnifica: una scrittura lirica, spesso elegiaca; immaginifica, espressiva, persino sontuosa, con la sua ricchezza di aggettivi, di proposizioni, di avverbi.

Dal punto di vista della scrittura non ho dubbi: siamo proprio davanti al migliore Zweig.

Discorso molto più complesso e anche più interessante riguarda invece la storia narrata, il tipo di messaggio veicolato, il sistema (e la scala) di valori che risulta rappresentato dal racconto, l’immagine di donna che ne viene fuori e, finalmente, l’idea di amore che la sconosciuta incarna, rappresenta ed esalta.

Rileggendo questo testo (ma sarebbe più onesto da parte mia dire “leggere”, perchè troppi anni sono passati dalla mia prima lettura) ho avuto decisamente enormi difficoltà a identificarmi con questa donna che scrive di essersi votata all’amato “con tutta l’abnegazione di una schiava, di un cane”.

Nonostante il mio grande amore per Zweig devo purtroppo ammettere che questa volta il libro, se lo considero esclusivamente centrando l’attenzione sulla storia d’amore, mi irrita, decisamente.

Può chiamarsi “amore”, questo della Sconosciuta?! E se di amore dobbiamo parlare, di che caspita di amore si tratta?!

Più che amore, ai miei occhi questo è annullamento del sè, autodistruzione, delirio e mitomania, ossessione, monomaniacalità.

Zweig è bravissimo, perchè per rendere quella che è una vera e propria adorazione della sconosciuta per lo scrittore, quando la donna parla del suo amato utilizza spesso il registro della lingua di preghiera.

Altro che piedistallo! Quest’uomo è veramente Dio!

Non ho avvertito alcuna empatia con la Sconosciuta, alcuna simpatia con questa donna che ha fatto tutto da sola: il suo amore è una partenogenesi.

Poi però ho cercato di esplorare più in profondità questo testo di Zweig, di non farmi condizionare fermandomi alla superficie romantica della storia d’amore (unilaterale) della Sconosciuta, ed allora m’è sembrato di cogliere cose davvero molto interessanti.

Una tremenda esemplificazione del fenomeno della “cristallizzazione così ben descritto da Stendhal in De l’amour, per esempio.

Quando la cristallizzazione si compie, un innamorato/a non vede più l’Altro/a in una luce reale. Sminuisce le proprie qualità ed esalta ogni minima attrattiva della persona che ama, l’amore diventa una questione di fantasia e di proiezioni fantasmatiche. La Sconosciuta di Zweig costruisce (e distrugge) la propria vita non investendo nella persona reale dello scrittore ma nell’immagine di lui che si è costruita nella mente.

Ma con la cristallizzazione non siamo ancora che sulla cima dell’iceberg.

Il tema (anche questo ricorrente in modo ossessivo) che mi è sembrato davvero centrale e che alla fine ha reso i miei occhi notevole questo libro è quello del “conoscer-si”, “ri-conoscer-si”.

Questa centralità la colgo a cominciare dal titolo (Lettera di una sconosciuta), nell’intestazione (“A te, che mai mi hai conosciuta”), al fatto che nessuno dei personaggi ha un nome (unicamente lo scrittore viene identificato, all’inizio, ma solo con una iniziale: lo scrittore R.”).

E poi il continuo ricorrere, in tutta la lettera, di frasi come “Mai, mai mi hai riconosciuta!” (p.66), “prendimi con te, così che tu possa finalmente riconoscermi” (p.75), “L’incantesimo della cecità” (p.76), “Tu, tu che mai mi hai conosciuto e che io ho sempre amato” (p.11). Etc. etc., perchè di frasi simili è pieno il testo.

Da questi ed altri indizi si capisce che la Sconosciuta soffre, più che di non vedere il suo amore ricambiato, di non essere mai riconosciuta, quindi ricordata, quindi di non esistere, agli occhi dell’amato preso dalla “cecità”.

La cosa peggiore non è l’odio, ma l’indifferenza. Questa donna tanto innamorata si dispera davanti all’indifferenza di colui che ama. Ogni volta che lo incontra si rende conto di essere ai suoi occhi una perfetta sconosciuta. Agli occhi di lui lei non ha mai una identità, una esistenza concreta. Lui non la “vede”. Lei vorrebbe che lui la riconoscesse e dunque, riconoscendola, le conferisca una identità e una esistenza.

Ma le cose sono davvero così semplici come sembrano? O c’è anche dell’altro?

Perchè a me, in tutto questo sembra di cogliere il senso di un gioco perverso.

Perchè se è vero che lo scrittore appare come un uomo piuttosto leggero, nelle sue relazioni amorose, è altrettanto vero che lei non fa nulla di tangibile per entrare in una vera relazione con lui, per confrontarsi, per farsi riconoscere. Anzi. Fa di tutto per nascondersi, per non rivelarsi.

Salvo poi lamentarsi di non essere stata… riconosciuta.

L’arrendevolezza, la remissività, lo stare ai margini di questa donna è solo di superficie. In realtà, è lei che ha sempre condotto il gioco: è stata sempre e solo lei a decidere quando incontrarlo, quanto svelarglisi, quanto rivelarglisi. Anche adesso, alla fine della vita, è lei a decidere tutto.

Non gli ha mai detto nemmeno che da lui ha avuto un figlio, e solo alla morte sua e del bambino lo scrittore lo apprende.
Da questa lettera.

Apparentemente vittima, la donna ha in realtà esercitato nei confronti dell’uomo il grande potere di negargli nei fatti alcuna possibilità di assumere qualsiasi tipo di responsabilità.

Dicendo continuamente “Non chiedo niente” ha in realtà sempre vietato all’uomo la possibilità di dare o negare qualsiasi cosa. Gli ha negato la possibilità di scegliere.

Non c’è del delirio di onnipotenza, in questa Sconosciuta?

L’unico momento in cui la donna decide di esistere finalmente agli occhi del suo amato (perchè — ripeto — è lei, e solo lei che, fino alla fine, decide ogni cosa) è quando gli scrive questa lettera.

Trovo estremamente significativo che lo strumento che sceglie per “il momento della verità” sia quello  della scrittura, cioè proprio lo strumento di comunicazione utilizzato professionalmente dall’amato che, non dimentichiamo, è… uno scrittore.

Uno scrittore affermato ed anzi famoso.

Come Stefan Zweig, colui che ha scritto la lettera della sconosciuta.

Questo libro è sicuramente una storia d’amore, ma è anche — e chissà, forse soprattutto — un libro sul rapporto con la scrittura.

Lettera di una sconosciuta è un magnifico racconto sulle relazioni tra le persone e sul legame a volte doloroso e indispensabile che colui/colei che scrive ha con la scrittura.

Scrivere.

Scrivere per esistere, perchè non sia (stato) tutto vano.

Scrivere per vivere.

Una curiosità biografica che mostrerebbe come in questo libro Zweig si sia persino concesso il lusso di giocare con la propria autobiografia.

La sua relazione sentimentale con Friderike von Winternitz, che poi divenne la sua prima moglie, era infatti cominciata con una lettera anonima di lei, grande ammiratrice  di Zweig,   scrittore già affermato.

Si dice che, quando uscì il racconto, Frederike ne rimase profondamente ferita…

Friderike von Winternitz nel 1912
Friderike von Winteritz e Stefan Zweig
Friderike e Stefan Zweig nel 1920
  • La scheda del libro >>

post-it Dal racconto di Zweig il grande Max Ophüls trasse nel 1948 lo splendido film Lettera da una sconosciuta.
Ne parlo  >> qui

UN INDIMENTICABILE PRINCIPE ANDREJ

Vyacheslav Tikhonov


Vyacheslav Tikhonov
, indimenticabile interprete del principe Andrej  Bolkonsky nel film Guerra e Pace di Serghei Bondarchuk, è morto ieri ad 82 anni.

Ho appreso la notizia visitando il bel blog russianfilm che su uno dei miei post dedicati proprio al film di Bondarchuk aveva  lasciato un gentilissimo commento.

Sul loro blog ho trovato un video molto bello, che propongo anche qui.

E’ una carrellata sui vari ruoli interpretati da Tykhonov nel corso della sua lunga carriera di attore.

Peccato che la maggior parte dei suoi film non siano mai arrivati, in Italia.

Il video è russo, ma niente paura: ci sono solo immagini e musica, ed è quindi fruibilissimo da tutti in tutto il mondo.