LA LETTERATURA AI TEMPI DEL COMMERCIO

George Gissing
George Gissing

Può il romanzo di un autore vittoriano, scritto in pieno ‘800, con una struttura molto “classica”, rivelarsi straordinariamente moderno ed attuale nei suoi contenuti?

New Grub Street di George Gissing, che ho terminato di leggere giusto ieri, mostra che è possibile.

Ho scoperto questo autore grazie a George Orwell, che su Gissing scrisse un lungo articolo in cui parla di lui dicendo “L’Inghilterra ha prodotto pochi romanzieri migliori di Gissing” e a Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, grande appassionato e conoscitore di letteratura inglese, di Gissing pensava: “Scrisse molto, e non ho letto tutto, ed ho avuto torto”

Nodo centrale del romanzo è il lavoro intellettuale e la sua mercificazione.

Il libro di Gissing (autore del quale io fino a qualche settimana fa sconoscevo persino l’esistenza) è molto bello, appassionante e di piacevolissima lettura. Pieno di personaggi e con un intreccio ben costruito e merita che se ne parli in modo più strutturato di come sto facendo adesso.

Quello che mi ha soprattutto colpita del romanzo di Gissing è la straordinaria attualità dei contenuti che riguardano il senso della letteratura e le diverse motivazioni che spingono un autore a scrivere.

Molti passaggi ed intere pagine anticipano di circa un secolo molto dei dibattiti e delle diatribe che ogni giorno ci accade di leggere in molti blog letterari o nei dibattiti sulle pagine culturali di riviste e quotidiani.

Ne cito qui a titolo di esempio sono qualcuno, sperando possano rendere un’idea.

“…Al giorno d’oggi, la letteratura è una professione. Lasciando da parte i geni, che conquistano la fama per semplice forza cosmica, il letterato di successo è un abile mercante. Pensa soprattutto e in primo luogo al mercato; quando un genere di merce comincia non vendere tanto più bene, è pronto con qualcosa di nuovo e appetitoso”

“Per una carriera letteraria, il denaro sta diventando sempre più importante, soprattutto perchè significa avere degli amici. Di tanto in tanto, un uomo fortunato ha ancora successo grazie all’onesta perseveranza, ma le probabilità sono nulle per chiunque non sia in grado di sfruttare conoscenze influenti: le sue opere finiscono semplicemente con l’essere messe in ombra da quelle di chi ha maggiori possibilità”

“Le persone non hanno successo nell’attività letteraria per poi essere ammessi in società, ma si fanno ammettere in società per avere successo nel mondo letterario”

“L’arte deve essere praticata come un commercio e, comunque, così stanno le cose al giorno d’oggi. Questa è l’epoca del commercio”

“Vorrei che il giornale si rivolgesse a chi possiede solo un quarto di cultura, vale a dire la nuova, grande generazione che esce dalle scuole primarie municipali, i giovanotti e le fanciulle che sanno appena leggere […]. Queste persone vogliono qualcosa per tenersi occupate in treno, sulla diligenza e sul tram […]. Perfino le chiacchiere sono troppo sostanziose per loro: vogliono il pettegolezzo” […]

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  • Su GoogleLibri è possibile sfogliare e leggere il primo capitolo del romanzo nella traduzione italiana e l’introduzione di Benedetta Bini >>
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A TORTO O A RAGIONE – ISTVÁN SZABÓ (2002)

Harvey Keitel Stellan Skarsgard
Stellan Skarsgård (Wilhelm Furtwängler) ed Harvey Keitel (Maggiore Steve Arnold)

Con A torto o a ragione del 2002 il regista ungherese István Szabó riprende una volta ancora il tema del rapporto tra arte e politica e della responsabilità etica dell’artista.

Dopo l’attore tedesco Hofgen interpretato da Karl Maria Brandauer, protagonista del film Mephisto del 1981 del quale ho parlato >>> qui, con questo A torto o a ragione presentato al Festival di Berlino del 2002 come “evento speciale” è il turno di Wilhelm Furtwängler, il famoso direttore d’orchestra — sempre tedesco — che nella Germania nazista degli anni ’30 e ’40 fu molto amato da Hitler.

Anche in questo caso dunque il personaggio del protagonista è realmente esistito ed anche in questo caso la fonte è letteraria: narrativa per Mephisto (che era tratto da un celebre romanzo di Klaus Mann) e teatrale per A torto o a ragione, tratto dalla pièce Taking sides di Ronald Harwood (che è anche lo sceneggiatore del film), andata in scena a Londra nel 1995 con la regia di Harold Pinter.

M’è venuta fuori — mi sono resa conto — una cosina un po’ troppo lunghetta.

Ma, come al solito, mi consolo pensando che nessuno è obbligato a leggerlo, quello che scrivo.

I titoli di testa  scorrono sulle note della Quinta Sinfonia di Beethoven.

Il film si apre con una bellissima, suggestiva sequenza in cui il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler (Stellan Skarsgård) dirige l’ennesimo concerto davanti a una folla di gerarchi nazisti.

A torto o a ragione

La seconda guerra mondiale sta finendo, la Germania è ormai a due passi dalla sconfitta. Fuori dal teatro cadono le bombe, l’erogazione dell’energia elettrica si interrompe.

L’orchestra dei Berliner Philarmoniker continua però a suonare.

Agli orchestrali che la compongono è sufficiente la luce delle candele per seguire la bacchetta e gli occhi magnetici del loro Maestro, considerato il più grande Direttore del mondo.

Stellan Skarsgard

Alla fine del conflitto, però, il Comitato Americano per la Denazificazione decide di interrogare il grande direttore sui motivi per i quali non lasciò la Germania quando Hitler salì al potere e perchè spieghi i suoi più che ambigui rapporti con il Reich.

Qual’è il vero obiettivo degli americani? Compiere un arresto eccellente da proporre come emblema/esempio contro tutti i nazisti.

Smascherare la connivenza di Furtwängler col regime, esibirlo come trofeo di Denazificazione.

Il compito di istruire il procedimento nei confronti di Furtwängler, il più grande direttore del tempo, ma anche il direttore preferito di Hitler, viene affidato al maggiore americano Steve Arnold (Harvey Keitel).

Prima di cominciare, il suo superiore gli fa visionare decine e decine di filmati: dalle parate naziste con folle plaudenti a quelli tremendi dei massacri e di ciò che gli Alleati hanno trovato nei campi di sterminio (“Non avere fretta, c’è molto materiale, che devi ancora vedere”, gli dice).

Harvey Keitel

“Vuoi sapere che penso? Che erano tutti nazisti. Quei bastardi che sono sotto processo a Norimberga non possono aver fatto tutto da soli. Se fosse per me li processerei tutti. Ma è impossibile, sono troppi. Bisogna scegliere i più significativi.
Furtwängler si è venduto l’anima al diavolo. Devi trovare e provare i suoi legami con i nazisti. Non farti impressionare da lui. Voglio che la gente capisca perchè abbiamo combattuto questa guerra.
Dimostrami che Furtwängler è colpevole. Lui rappresenta il marcio di questa Germania”

Il Comitato ha scelto bene il suo uomo.

Chi è il Maggiore Arnold?

Nella vita fa l’assicuratore. E’ un temperamento sanguigno, un uomo scaltro e un po’ meschino, piuttosto rozzo ed ignorante.

Impermeabile alla musica classica — che non capisce e forse proprio perchè non la capisce la odia — non si farà certo sedurre dalla grandezza del Maestro.

Harvey Keitel

Ancora prima di cominciare gli arrivano da ogni parte grandi attestazioni di stima e ammirazione per la statura artistica del Maestro.

Subisce forti pressioni da parte dei Sovietici: il colonnello russo Dymshitz (Oleg Tabakov), Capo Dipartimento Arte Storica del Museo di Leningrado, grande esperto di arte tedesca, insiste a lungo perchè le accuse contro Furtwängler vengano fatte cadere e perchè il Maestro possa riprendere in pieno la propria attività.

Harvey Keitel Oleg Tabakov

“Lo voglio. Le chiedo di rinunciare alla sua indagine. Risparmierà tempo e rogne a tutti noi. In cambio vi darò un altro direttore, un compositore, quello che vi pare. Ma io voglio Furtwängler. E’ il mio direttore preferito”.

In realtà, come verrà fuori durante un drammatico colloquio a quattr’occhi tra Arnold e Dymshitz, è Stalin che vuole il direttore tedesco e lui, Dymshitz, non può che obbedire e fare di tutto per accontentarlo.

Di fronte al rifiuto di Arnold, il russo, che vive lui stesso sotto una dittatura da cui molto ha ottenuto (la direzione del Museo di Leningrado) ma con cui si è dovuto molto compromettere, è disperato.
Sa bene infatti, lui, quanto caro può costare non esaudire il desiderio di un dittatore.

“Non capisci che così mi ammazzi”.

 

Ma Arnold non ascolta niente e nessuno, tira dritto e mira al sodo: inchiodare Furtwängler.

Il Maggiore viene aiutato nelle indagini dal tenente David Willis (Moritz Bleibtreu), un giovane ebreo emigrato in America i cui genitori non sono riusciti a lasciare in tempo la Germania e sono stati trucidati dai nazisti

Harvey Keitel Moritz Bleibtreu

Come segretaria gli è stata assegnata Emmi Straube (Birgit Minichmayr), deportata nei campi di concentramento a seguito della partecipazione del padre al famoso fallito attentato contro Hitler.

Birgit Minichmayr

La strategia del Maggiore Arnold nel corso degli interrogatori è quella di non tener assolutamente conto della grandezza artistica dell’inquisito, non tener conto delle numerose testimonianze secondo le quali Furtwängler, che pure era noto per i suoi atteggiamenti antisemiti, si era di fatto adoperato per salvare la vita a molti ebrei.

A torto o a ragione - SzaboA torto o a ragione - Szabo

Arnold-Keitel incalza il Direttore con lo scopo di fare emergere le sue bassezze umane, i privilegi di cui egli, a differenza della maggior parte degli altri artisti tedeschi ha potuto godere (direttore preferito di Hitler, veniva agevolato e protetto in tutti i modi dagli alti gerarchi nazisti) le sue meschinità sia pubbliche che strettamente private: le sue donne, la sua attività sessuale, i figli illegittimi…

Il linguaggio di Arnold diventa via via sempre più sprezzante, violento ed addirittura scurrile.

Le prova tutte, per mettere Il Grande Direttore di fronte a quella che lui ritiene la grande responsabilità dell’ uomo Furtwängler: Harvey Keitel

“…perchè rimase in Germania nonostante gli orrori del regime fossero sempre più evidenti?

Perchè non cercò di emigrare all’estero come Bruno Walter, Otto Klemperer, Arnold Schoemberg, l’italiano Arturo Toscanini?

Come poteva dirigere concerti alla presenza di Hitler e dei gerarchi nazisti?

… Ha mai sentito il puzzo della carne bruciata? Io lo sentivo da quattro miglia di distanza! Le ha mai viste le camere a gas? I forni crematori?

… E mi viene a parlare di arte e di musica..! E’ questo che mette sulla bilancia, Furtwängler?!…

Lo sa perchè quando morì Hitler alla radio tedesca mandarono in onda la sua interpretazione dell’Adagio di Bruckner? Perchè lei rappresentava il massimo possibile.
E quando il diavolo crepò, volle che fosse il suo grande direttore a condurre la marcia funebre.
Lei per lui era tutto “

Per mettere alle corde Furtwängler, Arnold lo provoca su quello che — come ha saputo da uno degli orchestrali dei Berliner — era per Furtwängler un nervo sempre scoperto, e cioè la paura del Maestro di venire superato dall’allora giovane astro emergente direttore Herbert von Karajan.

La paura di perdere il primato di miglior direttore d’orchestra del mondo, di lasciar libero il campo a von Karajan, di vedere assegnata a lui la direzione dei Berliner è stata, secondo Arnold, un aspetto fondamentale della ragione per cui egli è rimasto in patria.

L’avversione del Maestro per von Karajan era tale da non riuscire non solo a pronunciarne neppure il nome (anche adesso, Furtwängler non riesce a nominarlo se non come “K”), ma si dice addirittura che abbia chiesto ed ottenuto la partenza per il fronte russo di un critico che in una recensione aveva osato preferire a lui, il grande Furtwängler, “il piccolo K.”…

Sono accuse fondate o solo infamanti?

Tramite la raccolta di documenti dall’archivio, le diverse prove testimoniali, emergono le due diverse facce del direttore durante il regime: vero che Furtwängler salvò molti musicisti ebrei ma, contemporaneamente, appare chiaro che fu una figura autorevole nell’ambito della cultura nazista.

Lo scontro tra Arnold e Furtwangler si fa sempre più aspro, l’inflessibilità trasforma il Maggiore Arnold in un aguzzino.

Al punto tale che sia il Tenente Willis che Emmi Straube, che pure per le loro storie personali avrebbero tutti i motivi per sostenere Arnold, di fatto si dissociano da lui, prendendo le parti del Maestro.

Moritz Bleibtreu

Ad Arnold che furibondo urla a Willis:

“ma come può, lei, un ebreo… pensi ai suoi genitori, ammazzati da questi bastardi…Qual’è il suo segreto, com’è che sono tutti pazzi di lui?”

Willis risponde

“Ho ascoltato per la prima volta Beethoven da bambino diretto da Furtwängler e da allora l’ho sempre amato. E’ lui che mi ha fatto scoprire la grande musica. Gliene sarò sempre riconoscente”

Birgit Minichmayr

Emmi non sopporta più i modi del Maggiore e decide di andarsene:

“Il suo modo di interrogare il Maestro mi ricorda i modi con cui la Gestapo ha interrogato me...”.

E’ solo con grande difficoltà che Arnold la convince a rimanere, ma sa bene che ormai è solo, a condurre la sua guerra contro Furtwängler.

Nel film di Szabó il drammatico confronto tra il personaggio di Furtwängler e quello del Maggiore Arnold è uno scontro di titani in cui è impossibile prendere una volta e per tutte le parti dell’uno o dell’altro: opposti per principi e cultura i due uomini non riescono a comprendere altro che le proprie motivazioni.

“Lei non capisce” ed “Io non capisco” sono due frasi che Arnold e Furtwängler pronunciano, urlano, si rimbalzano, si scambiano, ora l’uno ora l’altro. Se le urlano o se le sussurrano continuamente.

Capire/non capire/non potere/non voler capire “le ragioni dell’Altro”.
E’ questa, a mio parere, la profonda chiave di lettura di questa film.

In effetti, la polarità dei due personaggi rappresenta la polarità di due universi culturali opposti in cui torto e ragione cambiano continuamente di posto, in cui è difficile stare dall’inizio alla fine dalla parte dell’uno o dell’altro, in cui è difficile scegliere tra inquisitore ed inquisito.

Più proseguivo nella visione del film, più mi dimenticavo del Maggiore Arnold e di Furtwängler.

Assistevo allo scontro tra la Prassi e l’Idea, tra Pragmatismo ed Idealismo… Ed era soprattutto questo, che mi interessava, del film. Il fatto che nei deuteragonisti le due polarità erano eccezionalmente incarnate ed “agite”, grazie alla bravura dei due attori principali.

…Ma torniamo al film.

Arnold non crede nell’arte, anzi ne è infastidito.

Il pensiero che per dovere professionale gli tocca (a lui, cui piace tanto il Boogie Woogie) ascoltare musica classica, visto che il suo inquisito è un direttore d’orchestra, lo fa sbuffare.

Mai potrà riuscire a comprendere le ragioni di Furtwängler, il quale cerca in tutti i modi di far capire che anche dirigendo una sinfonia di Beethoven ci si sta ribellando all’ideale nazista.

Arnold vede (solo ?) il “mondo umano” che lo circonda, fatto di degradazione e di dolore.

Questo fa crescere tanto la sua rabbia da far sì che ad un certo punto si metta a urlare a Furtwängler:

Harvey Keitel
“Lei, fottuto pezzo di merda e coglione!”

 

Dall’altra parte, il Maestro non ha in mente altro che l’Arte, la musica.

La sua difesa sta tutta nella frase: “Io credo nella musica ed amo il mio Paese, che dovevo fare?” ed ad Arnold che gli ringhia: “Guardarsi intorno” non sa opporre che un “Ma può davvero credere che l’unica realtà sia quella materiale? Così non rimarrebbe nulla, solo sporcizia”.

Difficile immaginare due universi mentali più distanti.

L’ignoranza di Arnold — e non solo in materia musicale — la sua condizione di vincitore lo conducono al fatale errore di una cieca arroganza, che gli impedirà di capire una realtà nazionale in cui l’arte è parte preponderante della vita di tutti, e l’ammirazione nei confronti dei suoi esecutori può trascendere persino l’attività politica.

Nemmeno Furtwängler ne esce bene, però.

L’essere messo così brutalmente di fronte a domande ormai ineludibili, l’essere costretto a confrontarsi con la ragionevolezza, la giustizia, la dimensione concretamente “umana” degli orrori su cui Furtwängler per troppo tempo ha chiuso gli occhi in nome di una superiorità dell’arte sulla vita, incrinano e a poco a poco smantellano l’atteggiamento disinvolto e supponente con cui all’inizio il Maestro si era presentato all’istruttoria, certo com’era che la sua grandezza artistica lo poneva al di sopra di qualunque giudizio etico-politico.

Stellan Skarsgård

Arnold, con i suoi metodi, la sua rozzezza, la sua ignoranza, la sua ottusità artistica ma anche con il sincero orrore per gli orrori commessi dai nazisti, nonostante tutto riesce alla fine a far almeno sorgere in Furtwängler il dubbio che, per dire di avere contrastato il nazismo, non basta essersi limitato ad alzare la bacchetta per non fare il saluto al Furhrer, e non basta aver salvato la vita a qualche musicista ebreo.

Furtwängler si rende conto che la sua celebrità, la sua fama a livello mondiale è stata resa possibile solo per aver accettato il Patto con il Diavolo, che lo ha aiutato, favorito, protetto.

Tra le macerie e i morsi della fame i tedeschi continuano ad ascoltare musica, ed Arnold urla in faccia a Furtwängler:

“Io non lo capisco il rapporto dei tedeschi con la musica! Perchè ne avete tanto bisogno?”

Lo capisce bene invece il suo assistente, il tenente Willis.

Al termine dell’ultimo interrogatorio, mentre Furtwängler scende le scale e mentre Arnold sbraita al telefono comunicando compiaciuto al suo superiore di avere incastrato il direttore, Willis mette a tutto volume il disco della Quinta di Beethoven diretta dal Maestro, ed apre la finestra perchè lui, scendendo, possa ascoltarla.

Furtwängler si arresta un attimo, riconosce la “sua” musica, guarda in alto perplesso.

Scuote la testa e prosegue.

A torto o a ragione
A torto o a ragione

La musica di Beethoven continua a risuonare mentre ascoltiamo la voce fuori campo del Maggiore Arnold:

“Non fui capace di inchiodarlo, ma di sicuro riuscii a ferirlo. So di avere fatto la cosa giusta.
Il “piccolo K.” fu più furbo, ne venne fuori profumato di rose. Diciamo che fu fortunato a non incontrarmi”

La vicenda riguarda quella realmente accaduta di Wilhelm Furtwängler, nome notissimo a tutti gli appassionati di musica classica perchè uno dei più grandi direttori d’orchestra dello scorso secolo e compositore.
Furtwängler decise di rimanere in Germania dopo l’avvento del nazismo quando altri artisti, e non solo di religione ebraica, partivano autoesiliandosi spesso per non fare più ritorno e di aver evitato così di prendere una posizione netta nei confronti della dittatura.

Questa scelta gli costò molto cara: nonostante l’ assoluzione dall’accusa di sostenitore del regime nazista, l’opinione pubblica, soprattutto quella americana, non seppe mai perdonarlo. Due volte, nel 1936 e nel 1949, gli fu negato il ruolo di direttore rispettivamente della Filarmonica di New York e dell’Orchestra Sinfonica di Chicago.

István Szabó chiude il suo film con un filmato di repertorio in cui si vede Furtwängler che, dopo aver stretto la mano a Goebbels, passa dalla mano sinistra alla destra un fazzoletto.

Lo fa per pulirsi la mano che ha toccato Goebbels? O per trovare uno stratagemma per non fare il saluto nazista?
O, semplicemente, per asciugarsi le mani sudate?

Ambiguità delle immagini.

Wilhelm FurtwanglerWilhelm FurtwanglerWilhelm Furtwangler

Taking sides, 2002, regia: István Szabó, sceneggiatura: Ronald Harwood
Principali interpreti e personaggi: Harvey Keitel (Maggiore Steve Arnold), Stellan Skarsgård (Dr. Wilhelm Furtwängler), Moritz Bleibtreu (Tenente David Willis), Oleg Tabakov (Colonnello Dymshitz), Ulrich Tukur (Helmuth Alfred Rode), Birgit Minichmayr (Emmi Straube).
Fotografia: Lajos Koltai, montaggio: Sylvie Landra, scenografia: Bernhard Henrich, costumi: Györgyi Szakács.
Musiche di Ludwig van Beethoven (1° e 4° movimento dalla Sinfonia n.5 in Do Minore, op.67), Franz Schubert (2° movim. dal Quartetto d’archi in Do Maggiore, D.956, op. 163), Anton Bruckner (2° movim. dalla Sinfonia n.7 in Mi Maggiore)
Musiche dirette da Daniel Baremboim (nuove registrazioni) e Wilhelm Furtwängler (registrazioni originali)
Germania, Francia, durata 105 min., colore

Wilhelm Furthwangler

Su YouTube è possibile vedere il filmato d’epoca con il finale del concerto diretto da Wilhelm Furtwängler il 19 aprile del 1942 in occasione del compleanno di Hitler e la stretta di mano di Goebbels al termine dell’esecuzione della Sinfonia n.9 di Beethoven >>> qui

DISPERAZIONE – VLADIMIR NABOKOV

Vladimir Nabokov Disperazione
Vladimir NABOKOV, Disperazione (tit. orig. inglese Despair), traduz. Davide Tortorella, p.226, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, 2006, ISBN 9788845920943

La storia ci viene raccontata in prima persona da uno strano personaggio che si chiama Hermann Hermann (come l’eroe di Lolita si chiamerà Humbert Humbert), incredibilmente infatuato della propria persona, parecchio stravagante (“furfante nevrotico” lo definisce Nabokov nella prefazione) e… profondamente ridicolo.

Hermann è un russo di ascendenza tedesca, vive a Berlino, si occupa di una azienda di cioccolato (che va piuttosto male), è sposato con Lydia, una emigrata russa carina, non molto intelligente (secondo Hermann) ma che ha il grandissimo merito, ai suoi occhi, di essere totalmente acquiescente e disponibile rispetto qualunque cosa Hermann le dica di fare o non fare.

Nel maggio del 1930 Hermann si reca a Praga per affari ed è nella città di Kafka che, nel corso di una passeggiata sulle colline, incontra un barbone di nome Felix (“Felix, il felice”) in cui egli ravvisa stupefatto le sue identiche fattezze.

Felix è, insomma, il suo sosia: lui e Felix sono “due, ma con una faccia sola”.

Hermann che, come abbiamo visto, si trova in difficoltà economiche, escogita un piano criminale: uccidere il sosia, vestirlo con i propri abiti, farne ritrovare il cadavere e far incassare alla moglie il premio dell’assicurazione, raggiungendola poi all’estero e godendosi il denaro sotto un’altra identità.

Raccontata così, a prima vista la storia  potrebbe sembrare    semplicemente una delle tante varianti sul tema dell’uomo che si finge morto per poter ricominciare la propria vita (a me per esempio  viene subito in mente  Il fu Mattia Pascal di Pirandello), e probabilmente Nabokov ha anche voluto “giocare” con questo tema narrativo.

Probabilmente — così come La vera vita di Sebastian Knight ha la forma apparente della detective story — con Disperazione Nabokov ha anche, secondo me, voluto “giocare” con il genere “thriller”, di cui Disperazione presenta — se si riassume la trama in poche righe — alcune di quelle che normalmente vengono considerate le caratteristiche principali di questo filone narrativo.

Ricordo le esilaranti, spassosissime pagine di La vera vita di Sebastian Knight in cui Nabokov riassume uno dei libri scritti dal protagonista Knight e cioè il romanzo La sfaccettatura prismatica.

Come il romanzo di Knight che — scrive tra l’altro Nabokov — “non è solo un’amena parodia dello scenario di un racconto poliziesco: è anche la maliziosa imitazione di molte altre cose”, anche Disperazione non è solo una parodia di un romanzo thriller perchè, come al solito, nei romanzi di Nabokov la trama non è che un pretesto e nel libro c’è molto di più.

Ovviamente, questa storia di sosia fa subito saltare sulla sedia anche i cultori di Dostoevskij, ma sospetto che li faccia saltar su soprattutto per l’indignazione.

Tutto Disperazione è infatti costellato di tremende bordate che testimoniano lo scarsissimo apprezzamento di Nabokov nei confronti di Dostoevskij.

Scarsissimo apprezzamento che personalmente io condivido in pieno (si, si, lo so di essere in assoluta minoranza e che quando dico questo devo indossare giubbotto antiproiettile ed elmetto protettivo…) ma che tante antipatie se non addirittura odi furibondi ha procurato a Nabokov da parte dei fans di colui che Nabokov in Disperazione chiama sprezzantemente “il vecchio polveroso Dusty”.

I passaggi cui si fa riferimento al Dosto sono talmente tanti che non mi è possibile citarli tutti. Mi limito alle parole di Hermann a proposito del suo primo incontro con Felix:

“C’è qualcosa di un po’ troppo letterario nel nostro dialogo, un sapore di conversazioni torturanti in quelle bettole teatrali dove Dostoevskij è di casa; ancora un po’ e potremmo udire il sibilante sussurro della falsa umiltà, il respiro ansimante, le ripetizioni di avverbi ipnotici – e il resto verrebbe a ruota, tutto il mistico contorno tanto caro a quel famoso autore di polizieschi russi.”

Ma su Vladi e Dusty mi fermo qui, perchè il tema “Vladimir Nabokov e Fedor Dostoevskij” meriterebbe di esser trattato a parte ed a fondo. Cosa che, chissà, prima o poi cercherò di fare.

In Disperazione ritroviamo poi, anche qui, alcuni dei leit-motiv più ricorrenti nell’opera di Nabokov.
Non mi dilungo nemmeno su questi, perchè ne ho già parlato abbondantemente a proposito di altri suoi romanzi.

D’altra parte, gli appassionati di Nabokov — che sono ormai in numero sempre crescente, cosa di cui mi rallegro assai — conoscono benissimo la maestria, il funambolismo verbale, la prosa scintillante (non mi viene in mente altro aggettivo che possa rendere la mia idea) con cui Nabokov volteggia tra i temi dello specchio, del doppio, del riflesso (“La mia fantasia, bramosa di ripetizioni, rispecchiamenti, maschere” p.87).

Non si può che rimanere catturati ed affascinati dall’incredibile racconto di Hermann, ci sono momenti in cui tutto appare così deliziosamente ridicolo da esser tentati di credere che Nabokov ci stia prendendo in giro.

Ma ecco, proprio nel momento in cui pensiamo che non può essere vero che Hermann faccia quel tipo di ragionamenti … ecco che l’autore Nabokov interviene per dirci che “L’invenzione artistica contiene ben più verità intrinseca della vita reale” (p.139).

E allora proseguiamo nella lettura, e continuiamo pagina dopo pagina sempre in bilico tra la risata e la costernazione.

L’ho già detto altre volte ma sono costretta a ripetermi: Vladimir sa manipolare (termine che non uso, in questo momento, con una valenza negativa) alla grande il proprio lettore e riesce a fargli provare esattamente ciò che lui vuole e nel momento in cui lui lo vuole.

E quando crediamo di essere stati così arguti da indovinare qualcosa in anticipo, non passa molto tempo che ci accorgiamo che è stato lo stesso Nabokov a sussurrarci quel sospetto all’orecchio.

Tanto per dirne una: sarà poi proprio vero che Felix somiglia così tanto ad Hermann da essere il suo sosia? O non si tratta solo di una fissazione di Hermann?

Mi rendo conto però che le mie sono tutte parole inutili: i testi dei grandi scrittori non è possibile riassumerli o raccontarli, occorre leggerli, ed io sarei enormemente soddisfatta se solo riuscissi a far venir voglia, a qualcuno che passasse di qua e non avesse ancora letto nulla di Nabokov, di leggere qualcuno dei suoi romanzi.

Perchè in Nabokov c’è, a dispetto delle maschere, delle parodie, dei camuffamenti, un grandissimo amore per la letteratura e questo amore deve essere considerato, per chi si accosta a questo grande autore, un vero e proprio principio “a priori”:

“Innanzitutto, adottiamo (non solo per questo capitolo, ma in generale) il seguente motto: La Letteratura è Amore. Adesso possiamo continuare.”, scrive Nabokov in Disperazione.

Vladimir Nabokov aveva 33 anni quando scrisse — in russo — la prima versione di Disperazione. Era il 1932 e Nabokov si trovava a Berlino (“dove un’altra mostruosità aveva cominciato ad annunciarsi con il megafono”).
Fu a Berlino che nel 1936 il romanzo fu pubblicato per la prima volta da una casa editrice émigré dopo che il testo era già comparso a puntate, nel 1934, a Parigi. Come i lettori di Nabokov sanno, le sue opere del primo periodo, quelle scritte in russo, venivano pubblicate sotto lo pseudonimo di Vladimir Sirin (o Sirin-Nabokoff).

In seguito, lo stesso Nabokov tradusse in inglese il romanzo con il titolo Despair, poi in francese (titolo La Méprise).
Nabokov aveva idee molto precise e talvolta originali a proposito della traduzione di un’opera letteraria ed è per questo che il titolo si modifica da una versione all’altra (il titolo francese infatti, se lo traduciamo in italiano, suona come “Lo sbaglio”, “L’errore”).

Inoltre, da una versione all’altra, nel corso delle varie ri-edizioni, l’autore non esitava ad apportare modifiche anche sostanziali tanto che, come lui stesso dice, è possibile, paragonando le edizioni russa, inglese e francese, trovare differenze, aggiunte e tagli.

La prima edizione inglese non ebbe successo, e fu poi profondamente riveduta negli anni ’60.

E’ su questa versione che è stata realizzata la traduzione in italiano di Davide Tortorella.

All’epoca della seconda revisione del testo inglese, Nabokov era ormai uno scrittore celebre, l’autore cui Lolita aveva dato il successo mondiale.

Lui e la moglie Véra curavano con molta attenzione la ristampa delle prime opere e a ciascuna di esse Nabokov antepose delle prefazioni che ne raccontavano la genesi, l’iter editoriale e l’accoglienza della critica e del pubblico.

Detto per inciso: queste prefazioni sono tutte, a mio avviso, dei veri gioielli stilistici.

Sono spesso anche esilarantissime e meriterebbero di venir lette ed analizzate anche a prescindere dai singoli testi cui si riferiscono ma su questo non è adesso il momento di soffermarsi.

La Prefazione di Disperazione, scritta a Montreux nel 1965, è costituita da circa quattro pagine che sono un vero e proprio fuoco d’artificio.

Nabokov racconta, tra l’altro, come una bomba tedesca distrusse tutte le giacenze della prima edizione inglese, di cui rimase solo la copia da lui posseduta e fu anche per questo motivo che la seconda versione inglese e quella francese vennero rivedute e modificate.

A proposito delle differenze presenti nelle varie stesure, Nabokov scrive:

“Ho rivisto Otcjanie da cima a fondo […] so […] come sarei stato felice ed emozionato nel 1935 se avessi potuto leggere in anticipo questa versione del 1965. L’adorazione estatica di un giovane scrittore per quel vecchio scrittore che egli sarà un giorno è la più lodevole forma di ambizione. Quest’adorazione non è reciproca in quanto il soggetto più anziano nella sua più vasta biblioteca, pur rievocando con nostalgia un palato naturale e occhi senza cataratta, riserva solo un’impaziente alzata di spalle al confusionario principiante della sua giovinezza”

Sono rimasta talmente estasiata da queste quattro pagine che mi accorgo che sarei tentata di ricopiarle per intero il che, evidentemente, non è il caso di fare.

Mi limito a citare la chiusa della Prefazione, in cui, a proposito del protagonista Hermann, Nabokov scrive:

“Non ricordo che cosa ne è stato di lui in seguito, Dopotutto, nel frattempo sono passati altri quindici libri e un numero doppio di anni. Non ricordo nemmeno se il suo progetto di girare quel film sia mai andato in porto”

Nella pagina precedente, paragonando Hermann Hermann e Humbert Humbert aveva scritto:

“Si somigliano solo nel senso in cui possono somigliarsi due draghi dipinti dallo stesso artista in differenti periodi della sua vita. Sono entrambi furfanti nevrotici, eppure in Paradiso c’è un sentiero verdeggiante dove Humbert ha il permesso di passeggiare una volta l’anno al crepuscolo: mentre l’Inferno non concederà ad Hermann la libertà sulla parola”.

Nel 1978 il regista tedesco Rainer Werner Fassbinder diresse il film Despair (titolo tedesco Eine Reise ins Licht) tratto dal romanzo di Nabokov.

Despair Fassbinder

Gli interpreti erano Dirk Bogarde (Hermann Hermann), Andréa Ferréol (Lydia Hermann), Klaus Löwitsch (Felix).

Non ho visto il film e dunque non posso parlarne. Su di esso ho letto giudizi molto controversi.

Su YouTube c’è questo lungo stralcio.
E’ in inglese con sottotitoli in…ehm… serbo croato. Però ci si può fare egualmente, io credo, un’idea dell’impostazione di Fassbinder.
Mi è sembrata molto interessante la musica della colonna sonora, per quel poco che ho potuto vedere/sentire.

Despair Fassbinder
Despair Fassbinder
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COSA MANGIANO GLI EROI LETTERARI?

Vladimir Nabokov Despair

“Non c’è scrittore che non nutra il sogno di trasformare chi legge in uno spettatore; c’è mai riuscito qualcuno? I pallidi organismi degli eroi letterari, alimentati sotto il vigile occhio dell’autore, crescono per gradi con la linfa vitale del lettore; perciò la genialità di uno scrittore consiste nel conferire loro la capacità di adattarsi a questo cibo — non molto appetitoso — e di crescere robusti grazie ad esso, talvolta per secoli”

Vladimir Nabokov, Disperazione

In alto, la copertina di una edizione inglese di Despair

P.S. Se qualcuno dei miei Happy Few avesse in questi ultimi mesi pensato che io con Nabokov ho smesso, o che di lui mi sono stufata, o che (c’è un sacco di gente che raggggiona così) “tanto ormai l’ho letto”…. beh, se avesse pensato questo pensiero,  si affrettasse a toglierselo  presto dalla capa, ‘sto pensiero.

Non abbandono mai gli autori che amo.

SVICOLANDO

Un vicolo di Cefalù

Me ne sono andata una settimana a mare, a Cefalù

Una settimana e forse più senza computer, senza connessione, senza cavi, senza cercare un Internet Point e svicolando in un vicolo come quello che ho fotografato qui sopra quando per caso mi capitava di vederne uno nelle strade principali (ormai, un Internet Point lo si trova ovunque…)

Il tutto è stato estremamente salutare.

Ho letto  tre libri uno più tosto dell’altro dei quali può darsi parlerò qui.

Sono persino   riuscita  (anche se con fatica) a non stramazzare  per lo sconforto nell’apprendere i risultati elettorali, e mi riferisco non solo all’Italia ma a tutta l’Europa, che mi sembra si colori sempre più di un bruno funesto.

Anyway.
Chiudo  questo post con  un mio  self portrait cefaludense.
E’ bene, di questi tempi, cercar di mantenere i piedi per terra.
Sperando che un cavo MT non si trasformi — com’è, come  non è — in un  cavo AT.
…Perchè ci siamo  vicini, io credo.

Anyway
  

gabrilu  a Cefalù

I DONI DELLA VITA – IRÈNE NÉMIROVSKY

I doni della vita
Irène NÉMIROVSKY, I doni della vita (tit. orig. Les Biens de ce monde), traduz. Laura Frausin Guarino, p. 232, Adelphi, Collana Biblioteca Adelphi, 2009, ISBN 9788845923616

Per me, che i libri di Irène Némirovsky li leggo oggi, è difficile se non impossibile non tener conto, durante la lettura, del momento storico in cui essi furono scritti e del tragico destino personale dell’autrice.

Questo I doni della vita, ad esempio, venne scritto negli anni della seconda guerra mondiale quando la furia antisemita era al suo culmine e la Némirovsky, ebrea che viveva in Francia sin da bambina ma cui la Francia non aveva mai concesso la cittadinanza dovette accettare di pubblicare il suo scritto sul giornale di destra Gringoire, dove uscì a puntate tra aprile e giugno del 1941.

Irène ed il marito (anche lui ebreo), con due bambine piccole da mantenere, avevano un disperato bisogno di soldi.

Irène Némirovsky non poteva più firmare con il suo nome, perciò il romanzo venne pubblicato con la dicitura “romanzo inedito di una giovane donna” e solo nel 1947, cinque anni dopo la deportazione di Irène ad Auschwitz dove, già malata di asma, era morta di tifo, venne pubblicato in volume.

I doni della vita è una saga famigliare strutturata in trenta capitoli nei quali, attraverso la storia di tre generazioni di Hardelot — ricchi borghesi di provincia e proprietari delle omonime Cartiere — vengono ripercorsi trent’anni di storia di Francia, dagli inizi del Novecento a quelli della seconda guerra mondiale che vedono l’occupazione della Francia da parte dei tedeschi. L’ultima parte del libro è scritta dunque mentre gli eventi narrati si stanno svolgendo.

Gli Hardelot vivono a Saint-Elme, sono molto ligi alle regole di classe, molto attenti a mantenere la loro indiscussa rispettabilità ed il prestigio di cui godono da parte di tutta la cittadina.

Nell’universo familiare degli Hardelot, dominato dalla figura del vecchio patriarca Julien, i valori dominanti sono quelli della solidità, della rispettabilità, del denaro in quanto strumento indispensabile per consentire che tutto, di generazione in generazione, si tramandi di padre in figlio. I matrimoni vengono combinati privilegiando l’appartenenza alla stessa classe sociale e la consistenza della dote che la futura moglie potrà portare per mantenere e possibilmente aumentare il patrimonio della famiglia.

La filosofia è quella del mantenimento dello status quo ante, ogni cambiamento o deroga dai valori e principi considerati sacri ed immutabili non viene preso in considerazione nemmeno come possibilità.

Tutto questo pensa soddisfatto il vecchio Hardelot — il patriarca — durante un pranzo di famiglia:

“… un profondo senso di stabilità e di sicurezza gli colmava l’animo. Era sicuro di sè e di tutto ciò che lo circondava: la casa era solida, ben costruita, ben salda sulle fondamenta; l’impresa prosperava; la famiglia gli obbediva, il denaro era investito in titoli di Stato. […] sapeva quello che pensavano, quello che facevano i contadini, gli operai, i figli. Sapeva quello che avrebbero fatto, quello che avrebbero pensato in futuro. In lui e attorno a lui tutto era tranquillo, indistruttibile”

Ma ecco che in questo universo familiare così placido avviene la prima rottura: Pierre, figlio unico ed unico erede del patrimonio familiare all’ultimo momento si rifiuta di sposare la donna a lui destinata da nonno e genitori e si sposa per amore.

La storia di Pierre ed Agnés è quella di un amore che attraversa tutto il romanzo — dall’estate del 1910 sino alla seconda guerra mondiale — superando ogni sorta di drammi privati e pubblici.

Ma a stravolgere il mondo degli Hardelot non c’è solo il gesto il Pierre: la guerra, i bombardamenti che radono al suolo l’intera cittadina di Saint-Elme e la casa di famiglia, l’esodo di massa per fuggire all’invasione dei tedeschi… sono tanti, e drammatici, gli stravolgimenti che si susseguono con un ritmo sempre più incalzante.

Charles Hardelot, il padre di Pierre, si guarda attorno mentre durante la prima guerra mondiale fugge con la famiglia da Saint-Elme bombardata dai tedeschi e non si riconosce più nel mondo in cui vive:

“Da che mondo è mondo, a difendere la sua incolumità, la sua libertà, i suoi beni, c’erano sempre state le leggi, le convenzioni sociali, le abitudini. E lui non poteva credere che adesso, di punto in bianco, queste leggi, queste convenzioni non valessero più, fossero state abolite”

Questo tema del cambiamento è, io credo, il leit motiv principale del romanzo, una sorta di “basso continuo” che accompagna le vicende dei protagonisti.

“Alla fine — rifletteva riprendendo il filo dei pensieri — che tutto resti uguale per me o per gli altri che importanza ha? L’essenziale è che esista in sé” pensa Pierre.

Ma, sembra voler dire la Némirovsky raccontandoci la storia degli Hardelot, la classe media francese è solida, non si lascia destabilizzare, riesce comunque a reagire.

Pierre ed Agnés (ed il loro figlio Guy) riescono persino ad assumere e metabolizzare la necessità del cambiamento, a dimostrarsi adattabili riuscendo a non farsi travolgere

“Pianificavano il futuro senza fretta, con cautela, a suon di piccole frasi reticenti, prudenti, come un bambino costruisce un castello di carte trattenendo il respiro. Ma il bambino sa che il castello è fragile; loro, invece, da bravi borghesi, erano sicuri del loro domani. Nonostante le spaventose crisi che imperversavano in Europa, nonostante i disordini sociali, le guerre, il retaggio della sicurezza loro ce l’avevano nel sangue.”

Per Charles Hardelot i doni della vita erano “Tante responsabilità, tante angosce, tante prove”

Suo figlio Pierre e la moglie Agnés riescono però, con la forza del loro sentimento, a difenderli, questi ” doni della vita” perchè, pensa Agnés “i doni della vita lei li aveva riposti nel granaio, e tutto l’amaro e il dolce della terra avevano dato i loro frutti”.

Questo romanzo, che forse non è tra gli “imprescindibili” della Némirovsky presenta però (a parte l’altissima qualità della scrittura su cui ormai credo sia proprio superfluo dilungarsi ancora) alcune particolarità che vorrei sottolineare.

E’ il primo testo tra quelli da me letti  di questa autrice in cui non compare nemmeno una volta la parola “ebreo” ed in cui il tema dell’ebraismo e dell’antisemitismo non viene  nemmeno accennato.

Narrando la storia di tre generazioni di una francesissima ricca famiglia della borghesia di provincia la Némirovsky dà prova, come sempre, di una acutissima capacità di analisi sociale e psicologica ma descrivendo, come si suol dire, “vizi e virtù” degli Hardelot e pur non facendo ai suoi personaggi alcuno sconto e sottolineandone debolezze e meschinità a me è sembrato di cogliere nella descrizione di questo spaccato di borghesia una sostanziale ammirazione per la tenacia, il pacato coraggio con cui vengono affrontate e superate avversità di ogni genere.

Ammirazione, in altre parole, per la sostanziale “solidità” di queste persone.
E forse anche  —  chissà  — un pizzico di  (affettuosa)  invidia.

Infine il romanzo si può leggere anche — come d’altra parte è stato notato da più parti — come una sorta di “prova generale” del capolavoro incompiuto che è Suite francese (la cui stesura sembra che la Némirovsky portasse avanti in parallelo) e questo in particolare per quanto riguarda le due scene di esodo presenti nel romanzo.

Nella prima gli Hardelot fuggono da Saint-Elme durante la prima guerra mondiale, nella seconda assistiamo all’esodo dei parigini che abbandonano la capitale davanti all’avanzata nazista durante la seconda guerra mondiale — “Quel giorno, i più prudenti lasciarono Parigi fin dal mattino. Pioveva a dirotto.”, è l’incipit del capitolo.

Questo esodo  costituirà, come sappiamo,  il tema principale di tutta la prima parte di Suite francese.

Tornando a quanto ho già detto all’inizio: se penso che Irène Némirovsky scriveva delle tragedie della guerra e dell’occupazione nazista della Francia in tempo reale e “in presa diretta” mi è impossibile leggere questo romanzo senza farmi condizionare da emozioni e riflessioni che vanno ben oltre la qualità letteraria del testo.

I doni della vita, scritto in un momento così drammatico per la vita della Francia e dell’autrice, una donna apolide braccata dalla furia antisemita e alla quale la sua amata Francia non aveva dato alcun aiuto, nemmeno concedendole il pur esile filo di speranza che avrebbe potuto rappresentare la concessione della cittadinanza, è tuttavia — ed incredibilmente — un romanzo sostanzialmente ottimista. Ha persino un lieto fine.

Mi ha sempre profondamente impressionata, nei libri della Némirovsky scritti ed ambientati durante la guerra, la totale assenza di odio.
Nelle sue pagine troviamo amarezza, delusione,  scoramento.

Mai,  però, una sola parola di odio.

Voglio chiudere il post con un passaggio in cui Irène, “voce fuori campo” riflette sulla guerra e sulla morte:

“La gente aspettava la guerra come l’uomo aspetta la morte: sa che non le sfuggirà, gli sia concessa soltanto una proroga. “D’accordo, verrai, ma aspetta un po’, aspetta che abbia costruito questa casa, piantato quest’albero, fatto sposare mio figlio, aspetta che non abbia più voglia di vivere” (p.150)

Ad Irène Némirovsky, che di voglia di vivere ne aveva tanta, la guerra e la morte non concessero alcuna proroga.

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