IMPERIUM – RYSZARD KAPUSCINSKI

Ryszard Kapuscinski, Imperium
Ryszard Kapuscinski, Imperium (tit. orig. Imperium), traduz. Vera Verdiani, Feltrinelli – Collana Universale Economica, p. 276, EAN13 9788807813269

Dopo i miei post su Zarine di Troyat e Storia della Russia di Bartlett mi è stata suggerita la lettura di questo libro di Kapuscinski, che conoscevo solo di fama ma di cui non avevo letto ancora nulla. Mi sono fidata, ho seguito il consiglio e non solo non me ne sono pentita, ma mi è piaciuto talmente che ho subito comperato (e immediatamente divorato) anche Autoritratto di un reporter e In viaggio con Erodoto.

Kapuscinski è morto nel 2007. Era nato a Pinsk, in Polonia orientale (oggi Bielorussia), nel 1932. Dopo gli studi a Varsavia ha lavorato fino al 1981 come corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca PAP. Era considerato uno dei più importanti reporter del mondo, se non addirittura il più importante. Leggendo la sua biografia, viene da chiedersi se ci sia un posto nel nostro pianeta in cui Kapuscinski non sia andato. O un evento di grande portata storica al quale non sia stato presente. Armato solo di un taccuino, una penna a sfera, una macchina fotografica e di… una cassa di libri. Perchè Kapuscinski era uno che — oltre ad avere una grandissima carica di umanità ed empatia ed una straordinaria capacità di entrare in sintonia con popoli e culture anche lontanissime dalla sua — era uno che leggeva, si documentava, studiava. Cercava sempre, nei limiti del possibile, di imparare la lingua del posto in cui si recava. Era insomma un grande professionista che non guardava però soltanto all’attualità. Tra i libri che si portava dietro, non mancava mai il grosso volume delle Storie di Erodoto di Alicarnasso, suo modello, punto di riferimento: Kapuscinski vedeva infatti in Erodoto “il primo grande reporter dell’umanità” e lo percepiva come una sorta di anima gemella.

Kapuscinski ha lasciato numerosi libri-reportage (lui veramente preferiva chiamarli semplicemente “testi”), molti dei quali pubblicati in Italia da Feltrinelli.

Questo Imperium parla dell’ex Unione Sovietica, e più precisamente del suo disfacimento e del suo crollo definitivo.

Uscì a puntate, settimana dopo settimana, sulla rivista polacca Gazeta Wyborczsa. Come Kapuscinski stesso ricorda, tutti i suoi libri-reportage sono usciti a puntate “E’ un sistema di lavoro che mi va benissimo. In realtà, potrei definirmi uno scrittore a puntate, o un reporter a puntate” (*)

Perchè questo libro? Perchè “Mi rendevo conto che il nucleo del processo di disfacimento del comunismo, il cuore del divenire storico, era la Russia, ossia l’ex Unione Sovietica. Volevo descrivere quel fenomeno storico osservandolo nel suo punto centrale, e perciò scelsi la Russia e non la Cecoslovacchia, l’Ungheria o la Polonia, dove gli avvenimenti non avevano una portata globale. Quel sistema era nato in Russia e lì aveva trovato la sua tomba. Mi sembrava un dato importante. Da noi il comunismo era un sistema imposto, secondario. Per vederlo nella sua forma più pura bisognava andare là, e solo là se ne poteva studiare la caduta” (*)

Imperium è articolato in tre parti: nella prima, che riguarda gli anni 1939-1967, Kapuscinski parla dei suoi primi contatti con l’Impero; nella seconda (anni 1989-1991) vengono descritti i vagabondaggi compiuti negli angoli più remoti dell’Impero durante gli anni del suo declino. Sono tutti viaggi compiuti da solo, al di fuori delle istituzioni e dei percorsi ufficiali, viaggi durissimi in cui Kapuscinski rischia non poche volte la vita. La terza parte è costituita soprattutto da pensieri, riflessioni, ipotesi sul futuro dell’ex URSS.

Sono circa trecento pagine che ho letto la prima volta tutte di un fiato. La prima volta, dico. Perchè arrivata all’ultima pagina sono tornata immediatamente alla prima ed ho ricominciato daccapo, questa volta con la matita in mano. Adesso la mia copia di Imperium sembra un panino imbottito, zeppo di segnali e post-it.

Le riflessioni di Kapuscinski toccano molti dei temi cruciali che riguardano questo mondo sterminato, complicatissimo, e per tanti versi quasi indecifrabile e derivano tutte dalla sua osservazione diretta costantemente messa a confronto con i testi che legge e studia: libri di storia, memorialistica, documenti ufficiali.

Ne ricordo solo alcuni:

La questione dei grandi spazi, per esempio: Kapuscinski percorre da solo, in Transiberiana e con altri mezzi di fortuna l’immensa Siberia e confrontando la sua esperienza con ciò che ha letto nella memorialistica degli scampati ai lager stalinisti riflette sull’ “influsso esercitato dai grandi spazi dell’Impero sull’anima russa”, perchè secondo lui “per regnare in un paese così sconfinato si è dovuto creare uno Stato sconfinato. Questo ha sprofondato i Russi in una contraddizione. Per mantenere i grandi spazi il russo deve mantenere un grande stato, e per mantenerlo spende tutta la sua energia, che poi non gli basta più per il resto: organizzazione, economia, ecc. ecc. Spreme tutte le sue energie per lo stato, che lo schiavizza e lo opprime” (p.38).

Teocrazia e dispotismo autocratico: se lo Zar era Dio, “i bolscevichi si sforzano di inserirsi in questa tradizione […] il capo dello stato sovietico non è più soltanto il riflesso terreno di Dio, è Dio stesso”. E’ così che Kapuscinski spiega la sistematica distruzione di molte chiese (il capitolo dedicato alla distruzione sistematica voluta da Stalin della Cattedrale del Salvatore a Mosca è semplicemente magnifico): “per fare di sè la nuova divinità deve demolire le case del Vecchio Dio […] e sulle loro fondamenta elevare nuovi templi, nuovi oggetti di ammirazione e di culto: Sedi del Partito, Palazzi dei Soviet, Comitati. In questa trasformazione o, più esattamente, in questa rivoluzione, viene operata una semplice e radicale sostituzione di simboli” (pp. 94-95)

Il lager ed i suoi elementi costituitivi, analogie e differenze con i lager nazisti, i genocidi di intere popolazioni di contadini ucraini fatte morire per fame “Tecnicamente parlando buona parte si poteva annientare impiantando qualche camera a gas. Ma Stalin si guardò bene dal commettere un errore del genere. Chi costruiva camere a gas se ne prendeva anche la colpa., si addossava il marchio dell’assassino. Stalin quindi scaricò la colpa dei delitti sulle vittime stesse: morite di fame perchè non volete lavorare, perchè non vedete i vantaggi offerti dal kolkhoz” (p.242).

Il capitolo in cui Kapuscinski parla della sua permanenza a Kolyma, uno dei peggiori lager staliniani in cui morirono a centinaia di migliaia vale, da solo, tutto il volume.

Vittime e boia: “…in molti casi era impossibile distinguere nettamente i due ruoli. Uno prima picchiava come inquisitore; poi finiva in prigione e veniva a sua volta picchiato: scontata la pena, si vendicava, e così via, e così via. Era un mondo in forma di circolo chiuso, con una sola via d’uscita, la morte. Un gioco d’inferno dove perdevano tutti” (p.184)

Potrei continuare a lungo: sulla genesi del cosiddetto Homo Sovieticus, per esempio. O sulle pagine in cui si parla di un popolo che non sa più fare domande perchè ha imparato che porre domande può costare la vita.

Nel libro non ci sono soltanto le nevi della Siberia ma anche i colori, i suoni, i profumi e le tragedie delle terre del Sud, a cominciare dall’Armenia. Perchè Kapuscinski non si stanca mai di avvertire che “della Russia è tanto più facile parlare quanto più la si nomina in senso astratto […] ma a questo livello di generalizzazione molti problemi perdono significato, non contano, spariscono” (p.258). La Russia insomma non è un monolito. Tiene molto anche a precisare (come scrive nell’introduzione ad Imperium) che il suo libro ” … non è una storia della Russia e dell’ex URSS nè un resoconto dell’ascesa e caduta del comunismo in questo stato e neanche un manualistico concentrato di conoscenze sull’Impero.
E’ la mia relazione personale di viaggi compiuti nelle sconfinate distese di questo paese (o meglio di questa parte del mondo), cercando sempre di arrivare fin dove me lo consentivano il tempo, le forze e la possibilità.”

In realtà, chi legge le sue pagine ricava una gran mole non solo di informazioni di prima mano perchè frutto dell’osservazione diretta, ma anche innumerevoli stimoli di riflessione.

Un’ultima cosa: Kapuscinski dedica le ultime pagine del suo “testo” ad una sorta di bilancio delle sue osservazioni ed alla formulazione di alcune ipotesi sul futuro della Russia: ecco quella che mi ha maggiormente colpita:

Scrive Kapuscinski nel 1994: “Di perestroika e di glasnost’ non parla più nessuno. Il partito democratico, così attivo nella lotta al comunismo, è stato relegato ai margini della scena politica e lì resta, a metà tra lo sbando e l’oblio. In genere oggi in Russia si parla molto meno di democrazia […] Corre un clima propizio al rafforzamento di metodi di governo autoritari, favorevole ad ogni forma di dittatura.” (p.273).

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(*) da Autoritratto di un Reporter

Ryszard Kapuscinski

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LA MARCHE À L’ETOILE – VERCORS

Targa a Vercors su le Pont des Arts
La lapide dedicata a Vercors sul Pont des Arts a Parigi
Foto Gabriella Alù, 2007)

La fama di Vercors (pseudonimo di Jean Bruller) è legata soprattutto allo straordinario successo del suo romanzo breve Le silence de la mer ed al film di Melville che da esso fu tratto. Ne ho parlato tempo fa in questo post.

Ma Vercors non ha scritto solo Le silence de la mer. Ha scritto anche altre cose, molto belle.

Nella vecchia edizione Einaudi che posseggo io sono contenuti ad esempio altri suoi romanzi brevi, tra cui uno intitolato La marche à l’Etoile tradotto in italiano con il titolo Il cammino verso la stella.

Racconta la vita di Thomas Muritz, giovane ebreo ungherese nutrito di cultura francese che per fuggire all’antisemitismo dilagante in Ungheria percorre a piedi tutta l’Europa avendo come meta agognata Parigi e la Francia, da lui vista come terra di giustizia e di libertà:

“Era per Thomas il fascino di quella Parigi traboccante di umanità e di storia, di quelle pietre, di quelle strade, di quei quartieri che vivevano nei romanzi di Dumas, di Balzac, di Eugène Sue”.

A Parigi Thomas ci arriva, ci si stabilisce defintivamente mettendo su famiglia e ci vive servendo e amando profondamente questa che lui considera la sua vera patria (la amò sempre “di un amore aggrottato ed eccessivo”, scrive Vercors).

Ma, con l’occupazione nazista ed il Governo di Vichy, questa patria di adozione, da lui tanto profondamente amata, lo tradirà ignobilmente. L’ebreo francese Muritz morirà per mano di francesi. Collaborazionisti.

La marche à l’Etoile viene pubblicato il 25 dicembre 1943, dodicesimo volume delle Editions de Minuit, la casa editrice clandestina fondata da Vercors.

In un primo momento Vercors aveva pensato di intitolare il racconto Posseder le soleil. Il riferimento è ad un verso di Saint Louis di Claudel, una meditazione del re di Francia sui doveri dei francesi: “Ce n’est pas assez de posseder le soleil si l’on n’est pas capable de le donner” (“non basta possedere il sole se non si è capaci di donarlo”).

Aveva poi deciso per il titolo La marche à l’Etoile. Guardando un vecchio portare una stella gialla aveva pensato: “La stella gialla che la Francia di Pétain avrebbe imposto a mio padre, se fosse vissuto”.

…Perchè La marche à l’Etoile è un vibrante omaggio di Vercors alla memoria di suo padre, Louis Bruller, di cui apprende la vera storia soltanto nel 1942 da una vecchia amica di famiglia. Da lei Vercors viene a sapere dell’odissea del padre che a sedici anni aveva abbandonato il suo paese natale, l’Ungheria e della sua “marche à l’étoile, verso il paese di Victor Hugo e della rivoluzione francese…”.

Il padre di Vercors, come Thomas Muritz — il protagonista del racconto — pensano di avere raggiunto il traguardo delle loro speranze quando arrivano, emozionati, sul Pont des Arts di Parigi, su

“…ce point du monde où l’on embrasse à la fois (…) l’Institut, le Louvre, la Cité- et les quais aux bouquins, les Tuileries, la butte latine jusqu’au Panthéon, la Seine jusqu’à la Concorde”.

Ma voglio citarlo tutto, questo passaggio, nella bella traduzione di Adele Vaudagna Marchisio:

“… Neanche il suo amore lo aveva ingannato: l’aveva condotto dritto al cuore delle sue aspirazioni, a quel punto del mondo dove, girandosi appena, si abbraccia tutto insieme l’Institut, il Louvre, la Cité– e le bancarelle dei libri, le Tuileries, la collina del quartiere latino fino al Panthéon, la Senna fino alla Concordia. Un compendio straordinario che gli gonfiava il cuore di una meravigliosa oppressione. Rimaneva là, mentre gli ultimi raggi del sole sfavillavano dietro Passy, coronavano di rosso la freccia di Notre-Dame e aderivano passando alle asperità architettoniche del Louvre. Sotto i piedi gli scorreva un fiume pieno di maestà e di compostezza, un fiume che non aveva bisogno, come il Danubio o la Vtlava, di farsi notare per essere ammirato. Le acque a quest’ora erano luminose e pesanti come mercurio iridescente. Alcune chiatte passavano lentamente. I pittori, sulle sponde, facevano i loro bagagli. I pescatori si ostinavano senza amarezza. Studenti e vecchi si attardavano a frugare i banchi degli antiquari. Sartine e modiste gli passavano accanto e lo guardavano con stupito interesse, questo giovanotto dai tratti fini, perduto in una contemplazione impassibile e che non restituiva le occhiate”

Oggi sul Pont des Arts, luogo che simbolizza l’influenza culturale della Francia nel mondo, c’è una grande lapide nella quale si legge:

A la mémoire de
VERCORS
(Jean BRULLER)
CO-FONDATEUR en 1942 des
EDITIONS DE MINUIT
avec LE SILENCE DE LA MER
et des
OUVRIERS DU LIVRE
Qui par leur dévouement, au peril de leur vie sous l’occupation nazie,
ont permis à la pensée française de mantenir sa permanence et son honneur
1942 – 1992
Ce lieu du monde, unique et prestigieux,
qui hantait ses pensées, nourissait ses rêves,
exaltait son âme: le pont des Arts.
Vercors, La Marche à l’Etoile


L’ultima volta in cui  sono stata a Parigi, lo scorso ottobre, sono andata apposta al Pont des Arts a cercarla ed a fotografarla, questa lapide.

Oggi è il Giorno della Memoria, ed io voglio celebrarlo a modo mio.
La memoria storica è fatta anche di una lapide sotto un ponte.

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CHE COSA VUOL DIRE ESSERE LAICO

Scriveva  Claudio Magris in un articolo  comparso sul Corriere della Sera il 20 Gennaio 2008

“Quando gli uomini parlano senza capirsi e credono di dire una cosa usando una parola che ne indica una opposta, nascono equivoci, talora drammatici sino alla violenza. Nel penoso autogol in cui si è risolta la gazzarra contro l’invito del Papa all’università di Roma l’elemento più pacchiano è stato, per l’ennesima volta, l’uso scorretto, distorto e capovolto del termine «laico», che può giustificare un ennesimo […] tentativo di chiarirne il significato.

Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l’opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.

La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. […]
Laicità significa tolleranza, dubbio rivolto anche alle proprie certezze, capacità di credere fortemente in alcuni valori sapendo che ne esistono altri, pur essi rispettabili; di non confondere il pensiero e l’autentico sentimento con la convinzione fanatica e con le viscerali reazioni emotive; di ridere e sorridere anche di ciò che si ama e si continua ad amare; di essere liberi dall’idolatria e dalla dissacrazione, entrambe servili e coatte. Il fondamentalismo intollerante può essere clericale (come lo è stato tante volte, anche con feroce violenza, nei secoli e continua talora, anche se più blandamente, ad esserlo) o faziosamente laicista, altrettanto antilaico.

Il testo integrale dell’articolo si può leggere QUI

LA PIETRA DI LUNA – WILKIE COLLINS

Wilkie Collins La pietra di luna cover
Wilkie COLLINS, La pietra di luna (tit. orig. The Moonstone), traduz. P. Jahier e Maj-Lis Rissler Stoneman , p. 533, Garzanti, Collana I grandi libri, ISBN-13: 9788811368656

De La pietra di luna avevo un piacevole ma molto vago ricordo legato ad uno sceneggiato realizzato dalla Rai negli anni Settanta, ma non avevo mai letto il libro dal quale era stato tratto. Quando però in agosto mi sono entusiasmata per La donna in bianco ho deciso finalmente di leggerlo e non essendo riuscita a trovarlo nelle librerie della mia città ho dovuto ordinarlo ed acquistarlo on line. Me lo sono poi gustato nei giorni tra Natale e Capodanno.

La pietra di luna — da molti giudicato il capolavoro di Collins — è considerato in assoluto non solo un libro che segnò una svolta storica nel genere classico della letteratura poliziesca, ma addirittura uno dei testi di riferimento dell’intera letteratura gialla di tutti i tempi.

Tomas S. Eliot ne era entusiasta; tanto da dichiarare che “tutto quello che c’è di buono e di efficace nella narrativa poliziesca moderna lo si può già trovare nella Pietra di luna. Gli autori più recenti hanno introdotto l’uso delle impronte digitali e di bagatelle dello stesso genere, ma in sostanza non hanno realizzato alcun progresso rispetto alla personalità o ai metodi del sergente Cuff”

Trattandosi di un libro centrato su un mistero e sulle indagini per chiarirlo, è difficile parlare della trama senza rischiare di togliere, a chi non l’avesse ancora letto, il gusto delle mille sorprese e dei continui colpi di scena. Posso solo dire che tutto ruota attorno alla sparizione della Pietra di Luna, un preziosissimo ed enorme diamante indiano ed alle mille intricatissime vicende che da questa sparizione derivano.

Come già La donna in bianco nel 1859-60, anche La pietra di luna, del 1868, nasce come un feuilleton: venne infatti pubblicato prima a puntate su The Year Round e poi in tre volumi ottenendo uno strepitoso successo.

“Make’em laugh, make’em cry, make’em wait”, cioè “falli ridere, falli piangere, falli attendere” era il motto di Wilkie Collins, la sua formula magica per tenere sempre viva l’attenzione dei lettori puntata dopo puntata. Ed infatti, Collins si rivela un maestro nell’orchestrazione dei tempi dell’attesa e della dilatazione degli eventi, nel complicare la vicenda principale con decine di garbugli secondari, nel riuscire a dipanare poi la matassa di misteri ingarbugliata a volte ai limiti dell’inverosimile. Come scrive giustamente Roberto Barbolini nell’introduzione a questa edizione Garzanti, ne La pietra di luna questa pratica (già molto presente ne La donna in bianco) è portata al parossismo. Più volte durante la lettura ci si chiede come farà mai l’autore a dare un senso ai mille fatti apparentemente incomprensibili che succedono. Ci si sente persi, a volte si fa persino fatica a ricordare tutti i collegamenti. Eppure — miracolo! — Collins nell’ultima parte del libro riesce a dare una spiegazione plausibile di tutto, tutti i tasselli del puzzle vanno al loro posto non solo, ma ci si rende pure conto che quasi tutti gli elementi per risolvere il mistero ci erano già stati belli e forniti, addirittura spiattellati dalle prime pagine ma noi non eravamo stati capaci di coglierli.

Anche ne La pietra di luna manca il protagonista e non c’è l’autore onniscente: il racconto degli eventi è affidato ad una staffetta di personaggi che di volta in volta raccontano con svariate modalità (lettere, memoriali, testimonianze processuali) e dal loro punto di vista ciò che hanno visto e udito. Una tecnica che punta molto sulla interpretazione soggettiva dei vari narratori e sulla polifonia delle voci.

Ci sono pagine molto spassose, ne La pietra di luna, perchè Collins si rivela anche un grande umorista nel tratteggiare alcune caratteristiche di certi personaggi: il maggiordomo Betteredge, per esempio, cui è affidata la narrazione degli eventi per ben duecento pagine circa è rappresentato con grande affetto ma anche con grande ironia perchè Collins lo utilizza per prendere di mira pregiudizi e stereotipi di un certo modo di pensare degli inglesi; oppure la signorina Clark, l’ insopportabile zitella bigotta ed invadente. C’è dell’umorismo anche nel modo in cui Collins delinea alcune caratteristiche del sergente Cuff (e che fanno pensare a Barbolini come in Cuff possa in qualche modo celarsi non solo il parente stretto di Sherlock Holmes ma anche l’antenato di Nero Woolf). Nel romanzo quindi ci sono tutti gli ingredienti della ricetta di Collins: l’attesa, il mistero, il sorriso.

post-itDa La pietra di luna sono stati tratti due film: il primo è del 1915, regia di Frank Hall Crane, l’altra del 1935, regia di Reginald Barker.

Gli adattamenti televisivi pare siano stati più di uno. Io voglio ricordare qui lo sceneggiato italiano in sei puntate trasmesso dalla Rai nel 1972.

L’adattamento era di Carlo Fruttero e Franco Lucentini, sceneggiatura e regia di Anton Giulio Majano. Il cast era formato da Valeria Ciangottini, Aldo Reggiani, Bruno Alessandro, Giancarlo Zanetti, Maresa Gallo, Enrica Bonaccorti, Mario Feliciani, Andrea Checchi, Lida Ferro, Vittorio Stagni, Elsa Ghiberti

Lo voglio ricordare anche perchè non posso fare a meno di pensare con nostalgia ad una televisione in cui gli adattamenti dei grandi classici erano affidati a veri scrittori ed in cui gli attori erano veri professionisti e non a bellone e belloni che non hanno la minima idea di dove stia di casa il concetto di recitazione, come sempre più spesso avviene oggi.

Ma questa è un’altra storia.

 

Wilkie Collins
Wilkie Collins

PER TUTTI GLI DEI

Il monitor del mio Mac ha deciso improvvisamente, dopo quasi otto anni di onesto, indefesso e fedelissimo lavoro, di… defungere. Si è spento e non ha voluto più dar segni di vita nonostante tutte le mie amorevoli cure. La dipartita è avvenuta venerdi sera poichè queste cose succedono sempre, com’è noto, nei week end o nelle feste comandate oppure il giorno di Ferragosto.
Amen.
Si vede che anche gli dei della telematica avevano deciso che era proprio arrivato il momento che mi prendessi una pausa più che sostanziosa. Non solo dal blog ma anche dal web, dalla posta elettronica etc.

Da ieri pomeriggio però ho uno splendido monitor nuovo di zecca, piattissimo, grande però molto maneggevole e luminoso. Ideale per vedere film. L’ho subito inaugurato ieri sera guardandomi American Gangster di Ridley Scott e godendomi Denzel Washington in tutto il suo splendore e ascoltando deliziata la sua voce vera, che mi solletica i precordi  con effetti beatifici   tali da  farmi dimenticare  spesso di andare a  guardare i sottotitoli  in italiano 

American GangsterDenzel Washington

Il tutto dopo aver visto però la puntata di Lost su RaiDue, si intende, chè di Lost, come dovrebbe ormai esser noto, non perdo una puntata fin dal primo anno. Insomma, come si suol dire, i mali non sempre vengono tutti per nuocere e gli dei, tutto sommato, si son mostrati benigni.

BLOG STOP

Blog Stop

Mi fermo un po’.

Non perchè abbia nulla da dire, da scrivere o su cui postare, ma anzi per l’esatto contrario.
E quando si comincia ad aver troppo da dire, vuol dire che è arrivato il momento in cui è meglio cominciare a tacere.

BOLLYWOOD, BOLLYWOOD!

Devdas

Ho scoperto molto per caso, qualche giorno fa, questo mondo che sconoscevo e mi sono sentita immediatamente come Alice nel Paese delle Meraviglie.
Ho cominciato a procacciarmi i film più importanti, me la sto spassando alla grande e mi sto ubriacando con i suoni e l’incredibile cromatismo di questo cinema coloratissimo, vibrante, drammatico e visionario.

In tre giorni ho visto tre  film di circa tre ore e mezza  l’uno…e ne ho almeno altri sei che mi aspettano

Sto  cercando di districarmi con tutti quei nomi che fino ad oggi mi erano assolutamente sconosciuti e per me difficilissimi da memorizzare, a cercare di capire quali sono i film migliori (la produzione di Bollywood è sterminata, altro che Hollywood, ed ovviamente ci sono anche moltissime schifezze), che cosa mi conviene cercare e che cosa scansare. Quali sono gli attori migliori e quali le mezze cartucce. E poi, vedere film parlati in hindi anche se con sottotitoli in inglese   non è mica roba da ridere, almeno per me 
Insomma, un bel da fare…

In alto, una locandina di Devdas, un film di cui mi sono subito innamorata e che è una grande, incredibile festa per gli occhi.

COSA SIGNIFICA DONARE?

Oggi gran parte  di Fahrenheit è   dedicata, guarda un po’, al tema del DONO.
Son soddisfazioni, eh.
L’occasione di questo spazio a Fahrenheit è il Convegno internazionale dal titolo Cosa significa donare? promosso dal Dipartimento di Filosofia dell’Università Roma Tre e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria che si svolge proprio i questi giorni.

  • La puntata di Fahrenheit >>. Magari tra domani o dopodomani mettono pure il Podcast, chissà.
  • Il convegno di RomaTre. Il programma è scaricabile in formato .pdf >>