NOSTALGIA DEL BALTICO

I Buddenbrook a Travemunde

I Buddenbrook in vacanza a Travemünde

“A Travemünde, paradiso delle vacanze, dove trascorsi i giorni più felici della mia vita, (…) il mare la musica entrarono nel mio cuore in perfetta unione (…).”

Thomas Mann

Ho trascorso a Travemünde una splendida domenica di luglio, e giorno dopo giorno la mia nostalgia del Baltico si fa sempre più forte: non vedo l’ora di poter tornare da quelle parti e sto già meditando progetti per l’estate prossima…

Travemünde non può, così come Lubecca, non evocare Thomas Mann, che oltre a passarvi le estati della propria infanzia ne parla abbondantemente ne I Buddenbrook.

In questa stazione balneare “figlia di Lubecca” trascorre le vacanze Antonie (Tony) Buddenbrook, ospite della famiglia del comandante Schwarzkopf ed è lì che, incontrando  Morten, il figlio del capitano, conosce l’amore.

Tony e Morten fanno lunghe passeggiate sulla scogliera, si fanno traghettare sulla spiaggia del Prinwall…

I Buddenbrook a Travemunde

A Travemünde trascorrerà poi un’estate anche il piccolo Hanno.

Hanno Buddenbrook

Travemünde è raffigurata da Mann come luogo di libertà, felicità e – nel caso di Tony – amore, in contrasto con i problemi della vita quotidiana.

Travemunde significa, per Mann, il profumo delle alghe, il vento del Baltico solcato dai velieri che a Lubecca, ai magazzini Buddenbrook della Mengstrasse, portano luppolo, mais, grano.

Molte cose sono cambiate nel frattempo ma alcuni luoghi a cui Thomas Mann fa riferimento nei suoi romanzi e nei suoi ricordi d’infanzia esistono tutt’ora. Per esempio la casa nella Vorderreihe nr.53 in cui abitava il comandante dei piloti Schwarzkopf con la sua famiglia.

Tornando a me ed alla mia nostalgia di Lubecca, Travemünde, Amburgo: per ora mi accontento di guardare e riguardare le foto e i filmini che ho fatto.

In questo  qui sotto si vede prima la spiaggia di Travemünde la mattina presto e semideserta, con i tipici “cesti” ancora chiusi e non occupati.

Poi, se volete, potete farvi lambire dalle acque del Baltico, salire con me sulla Passat e poi tornare a passeggiare lungo la spiaggia che nel frattempo si è animata e sul lungomare in cui i bambini, felici della splendida giornata di sole, giocano con l’acqua delle fontane.

  • Il film Buddenbrooks da cui ho preso le immagini che ho inserito nel post. >>
  • Travemunde >>

L’ORIGINALE DI LAURA – VLADIMIR NABOKOV

Nabokov L'originale di Laura
Vladimir NABOKOV, L’originale di Laura (Morire è divertente), tit. orig. The Original of Laura (Dying Is Fun), a cura di Dmitri Nabokov, traduz. dall’inglese di Anna Raffetto, p. 160, Adelphi, Biblioteca Adelphi n.551, ISBN 978-88-459-2448-4

9000 parole circa.
138 di quelle schede in cartoncino Bristol che Nabokov utilizzava per comporre i suoi testi.

Le schede venivano conservate in scatole per scarpe e, nella fase finale della composizione, una volta assemblate secondo l’ordine definitivo, venivano dettate da Vladimir alla moglie Véra che le batteva a macchina.

Del suo metodo di scrittura Nabokov ha parlato spesso in varie interviste, alcune delle quali raccolte nel volume Intransigenze.

Possiamo vederlo scartabellare tra le sue famose schede anche in questo video che avevo trovato su YouTube e di cui avevo parlato >> qui

In questo caso, sfogliando il volume Adelphi che ci troviamo tra le mani, siamo ancora nella fase della gestazione. Davanti a quella che a me viene da chiamare “L’Incompiuta” di Nabokov.
Le schede, infatti, non sono state ancora assemblate, il Maestro non ha avuto il tempo e l’opportunità di dare la smazzata finale al suo mazzo di carte, di dar loro l’ordine definitivo voluto dal creatore.

Noi lettori ci troviamo perciò davanti a qualcosa che ci fa si intuire una struttura possibile (ma quella che noi intuiamo sarà poi quella che avrebbe, alla fine, stabilito Nabokov?) e  qualcuna delle idee fondamentali che l’accompagnano.

Il libro si compone infatti delle riproduzioni fotografate delle schede non ancora assemblate, la loro lettura diventa una sorta di gioco letterario che comunque lascia col fiato mozzo davanti all’ultima “carta” del mazzo: l’ultima scheda che contiene soltanto una lista di verbi sinonimi di “annullamento” ed una parola indecifrabile, cancellata dalla matita di Nabokov.

Cliccate sull’immagine: vederla ingrandita merita.

L'originale di Laura

Questa lista di sinonimi acquista la sua importanza leggendo tutte le schede.

Si capisce che il personaggio principale è Philip Wild, un intellettuale obeso che sta per perdersi in una triangolazione amorosa (simile a quella dei primi romanzi russi di Nabokov) la cui giovane moglie, Flora, e qualcuno che forse si chiama Eric sono gli altri componenti.

Intuiamo che Eric non deve essere l’unico amante di Flora, ma si distingue dagli altri perchè sta scrivendo un romanzo intitolato La mia Laura che descrive nei dettagli la loro relazione.

Teniamo presente, che — come opportunamente ci ricorda la traduttrice italiana Anna Raffetto — in inglese Laura si pronuncia Lóra.

Non si tratta di un dettaglio secondario, perchè sappiamo quanto Nabokov “giocasse” con le parole, il loro suono, le assonanze, le dissonanze.

Lóra ha una sonorità molto vicina a Flora e…ma guarda… anche  a la Lo di Lolita? Lóra come insieme di Lolita e di Flora (che, tra parentesi, ha moltissimi elementi in comune con Lolita: età, aspetto fisico, sensualità…)

Flora è, dunque, l’originale di Laura. Ma chi è veramente?

Nabokov L'originale di Laura

Ne L’originale di Laura mancano molti pezzi del puzzle che non permettono di completarlo o, per restare in metafora, mancano molte carte da gioco del mazzo; quel che abbiamo in mano non può essere assemblato nemmeno provvisoriamente: il manoscritto è appena abbozzato e incompiuto in modo irrimediabile e non deliberato.

Quel che capiamo è che Philip cerca di vendicare la propria umiliazione pubblica e letteraria ammirando La mia Laura come un capolavoro letterario e, per delle ragioni che non risultano chiare, si impegna in un processo psicologico di annullamento di se reso possibile da uno smisurato sforzo di volontà.

Il suo obiettivo è riuscire ad annullare il suo corpo, pezzo per pezzo, attraverso il pensiero e questo processo — appena abbozzato nelle schede che abbiamo in mano — sarebbe stato reso evidente e fisicamente visibile in tutte le sue fasi nelle pagine del libro completato in cui spazi vuoti e bianchi avrebbero sostituito le parole e il testo sarebbe scomparso progressivamente.

Il testo scritto, il testo cartaceo metafora del corpo umano degradato dalla vecchiaia e dalla malattia.

Come sempre, è presente il gioco di rimandi e di rispecchiamenti a cominciare dalle allusioni a personaggi di precedenti romanzi di Nabokov: un certo Hubert H. Hubert (“un inglese avanti negli anni ma ancor vigoroso […] il suo nome, falso senza alcun dubbio, era Hubert H. Hubert”) fa una breve apparizione e, maldestramente, cerca di molestare Flora. Ma lei di difende, Hubert indietreggia e poi… semplicemente muore non diventando mai il diabolico Humbert Humbert di Lolita

Altro esempio: Flora partecipa ai corsi di un professore di letteratura russa “un uomo dall’aria derelitta annoiato a morte dalla sua materia”) che pone durante le sue lezioni le stesse questioni che Nabokov amava discutere durante i suoi corsi e i suoi seminari di letteratura russa.

Come se, in qualche modo, Nabokov abbia voluto giocare a cancellare le proprie creazioni. Che però per fortuna — pensiamo noi suoi affezionati lettori — rimangono indelebili.

Certo, nonostante l’obiettiva impossibilità di poter leggere il testo di Nabokov nella forma compiuta che lui gli avrebbe dato, non c’è dubbio che la “morte per auto-soppressione” di Philip Wild abbozzata da un Nabokov vecchio e malato e prossimo lui stesso alla morte non può lasciare indifferenti.

Specialmente se teniamo conto che il sottotiolo de L’originale di Laura —- che è sia il titolo del romanzo di Eric (personaggio creato da Nabokov) che il titolo dello stesso romanzo di Nabokov che, come altre volte in passato, gioca a scrivere un romanzo su un romanzo —- recita “Morire è divertente”

Un tentativo di Nabokov, forse, di esplorare quanto più possibile la propria imminente disintegrazione: la nostra consapevolezza di lettori di quanto già egli fosse malato e sofferente quando compilava queste schede rendono di fatto straziante leggere i passaggi —- altrimenti decisamente allegrissimi ed esilaranti — dei tentativi (sempre fallimentari, d’altronde) di Philip Wild e che rimangono spesso in bilico tra il ridicolo e il grottesco/serio.

L’idea che mi sono fatta dunque io, di questo L’originale di Laura è che il nucleo tematico fondamentale sarebbe stato quello di una morte annunciata — quella del suo autore — che viene esorcizzata attraverso un libro sull’ auto-soppressione

Il volume Adelphi contiene una lunga, circostanziata e per molti versi commovente introduzione di Dmitri Nabokov in cui egli racconta il contesto in cui il padre scrisse l’abbozzo del romanzo e argomenta le motivazioni che dopo tanti anni hanno alla fine condotto lui, suo figlio, a pubblicare —- e quindi esporre al giudizio critico del pubblico un romanzo appena abbozzato e che il padre, poco prima di morire, aveva chiesto che venisse distrutto.

La decisione presa da Dmitri di pubblicare le bozze del romanzo ha visto formarsi due schieramenti pro e contro scatenatissimi ed agguerritissimi.

Non voglio entrare nei dettagli di questa polemica.

Personalmente, se ragiono in termini generali e di principio, sono decisamente dalla parte di quanto scriveva Milan Kundera ne I testamenti traditi (di cui ho già riportato uno stralcio >> qui e ne Il sipario (ne ho parlato >> qui

So anche, per averlo letto da qualche parte, che nella prefazione alla sua traduzione inglese dell’ Eugene Onegin di Puskin Nabokov ha scritto (cito a memoria, scusatemi):

“Un artista dovrebbe distruggere senza pietà i suoi manoscritti dopo la pubblicazione, per non indurre dei mediocri universitari a pensare che è possibile comprendere i misteri di un genio studiando delle versioni che egli ha eliminato. Nell’arte, gli obiettivi ed i piani non contano nulla, a contare sono solo i risultati”

Quindi, conoscendo da tempo la controversia sull’opportunità di pubblicare o meno i frammenti di questo ultimo romanzo di Nabokov ho sempre sperato che Dmitri rispettasse la volontà dichiarata di suo padre.

Le cose non sono mai però semplici come vorremmo che fossero e mi rendo conto che altro è discettare di queste cose in linea di principio e dall’esterno, altra cosa è essere il figlio di uno scrittore come Nabokov ed esser caricato di questo tipo di responsablità.

A questo punto perciò rispetto la decisione di Dmitri del quale tutti conosciamo l’amore e il rispetto per il padre e la madre Véra, la sua cultura, la profonda conoscenza dell’opera paterna alla quale ha in passato anche dato importanti contributi con traduzioni, introduzioni, apparati di note etc.

Insomma la decisione non è stata certo presa in maniera avventata da un erede ignorante e inconsapevole delle problematiche legate ad una decisione di questo tipo.

Il volume Adelphi è curatissimo, sono riprodotte fotograficamente pagina per pagina tutte le schede manoscritte da Nabokov seguite dalla traduzione italiana di Anna Raffetto (non dev’essere stato un lavoro facile, il suo, complimenti).

Confesso che mi ha commossa vedere la grafia di Nabokov, le schede manoscritte e confrontarle con la traduzione.

La trama del romanzo, come ho già detto, si può solo intuire, ma quello che importa è che ogni singola frase è comunque sfolgorante — la voglia di citarne alcune è fortissima ma davvero mi sarebbe difficile scegliere quali — ed è inevitabile chiedersi che cosa mai sarebbe diventato questo romanzo se Nabokov avesse avuto il tempo per terminarlo.

Giusto o sbagliato che sia stato pubblicare queste schede, ormai la decisione è stata presa, il volume pubblicato ed io, da parte mia, lo consiglio caldamente.

Non a tutti, però, perchè chi non ha mai letto nulla di Nabokov non saprebbe che farsene.

Lo consiglio agli altri, a chi già conosce bene Nabokov, il suo mondo, il suo stile di scrittura. A tutti coloro (e sono tantissimi, per fortuna!) che sono in grado di cogliere i riferimenti, gli ammiccamenti, i riferimenti autobiografici.

  • Scheda del  libro >>

LO SCHERZO

Alex ColvilleAlex Colville
Visitors are invited to register, 1954
Mendel Art Gallery Collection, Saskatoon (Canada)

Ho riletto in questi giorni, dopo tanti anni, Lo scherzo di Milan Kundera.

Nella Praga del ’48, in pieno regime filosovietico, lo studente Ludvik invia alla sua ragazza una cartolina in cui, per scherzo, scrive:

L’ottimismo è l’oppio dei popoli. Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij!

La sua vita ne verrà stravolta.

Una commissione di studenti suoi ex amici lo espelle dal Partito, lo esclude dall’Università, Ludvik viene mandato a lavorare in miniera in una compagnia di “Neri”, uno speciale reparto militare costituito da “nemici della rivoluzione”.

Molti anni dopo, l’odiato Zemánek, il suo ex amico un tempo comunista fervente, quello che aveva presieduto la commissione studentesca che aveva sancito la rovina di Ludvik gli dice, parlando delle nuove generazioni (il grassetto è mio):

“Mi piacciono proprio perchè sono diversi. Amano il loro corpo. Noi lo trascuravamo. Amano viaggiare. Noi siamo sempre rimasti inchiodati allo stesso posto. Amano l’avventura. Noi abbiamo sprecato la vita a far riunioni. Amano il jazz. Noi imitavamo senza successo il folklore. Si dedicano egoisticamente a se stessi. Noi volevamo salvare il mondo. In realtà, col nostro messianismo, c’è mancato poco che non lo distruggessimo, il mondo. Forse loro, col loro egoismo, lo salveranno”

Ludvik, dal canto suo, riflette sul fatto che

“tutta la storia della mia vita aveva avuto origine da un errore, dal brutto scherzo della cartolina, da quel caso, da quell’assurdità. E sentii con terrore che le cose nate per errore sono tanto reali quanto le cose nate a ragione e per necessità […] Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse, ma tutte le ingiustizie saranno dimenticate”

A volte le date sono davvero importanti.

Kundera scrisse questo libro nel 1965.

Venne pubblicato in Cecoslovacchia nel 1967.

Venne poi pubblicato in Francia in pieno ’68 con una prefazione di Aragon mentre nel frattempo in Cecoslovacchia il libro veniva ritirato dalla circolazione.

Kundera nel ’75 si trasferì in Francia, dove da allora risiede.

I suoi ultimi libri li ha scritti in francese.

Io lessi per la prima volta Lo scherzo negli anni Novanta.

Il libro di Kundera era una finestra sull’attualità. Di cosa succedesse davvero a Praga e nei cosiddetti “Paesi dell’Est” si sapeva ancora poco, per molti La Grande Illusione esisteva ancora e il romanzo di Kundera lasciava molta gente interdetta.

Dopo Lo scherzo ho letto quasi tutto quello che di Kundera è arrivato in Italia. Del Kundera romanziere i libri che preferisco sono questo e La vita è altrove.

Rileggere Lo scherzo oggi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, dopo essere stata due volte a Praga (la prima volta subito dopo l’implosione dell’URSS, la seconda volta due anni fa) è stato come leggere due libri uguali ma diversi.

Durante la ri-lettura mi ha accompagnato il ricordo di un altro libro, scritto anni dopo quello di Kundera: L’orgia di Praga di Philip Roth , di cui avevo parlato >> qui.

E’ incredibile quanto influisca, nel nostro modo di leggere un libro, la conoscenza che direttamente o indirettamente crediamo di avere del suo contesto di riferimento.

La rilettura de Lo scherzo non mi ha delusa, tutt’altro. Mi è piaciuto quanto e forse di più della prima volta.

Ma è come se avessi letto un libro diverso.

De Lo scherzo posseggo ancora questa vecchia, cara edizione >>

L’immagine che ho inserito nel post  è quella che compare sulla copertina del volume Adelphi.

EVELINA – FANNY BURNEY

Frances BurneyEdward Francisco Burney
Fanny Burney, 1784-85 ca.
National Portrait Gallery

Frances (Fanny) Burney è l’autrice del romanzo di cui voglio parlare oggi e che si intitola Evelina.

Pubblicato anonimo nel 1778 e tradotto ora per la prima volta in edizione italiana dalla casa editrice Fazi a cura di Chiara Vatteroni, Evelina è il primo romanzo dell’allora ventiseienne Frances (Fanny) Burney, considerata oggi, come ricorda Chiara Vatteroni nella sua eccellente postfazione, una delle madri del romanzo inglese e che finalmente si sta riscoprendo anche in Italia dopo secoli di oblio.

Evelina, l’eroina del romanzo,  è una fanciulla di nobile e facoltosa famiglia ma dalla storia personale molto travagliata.
Mr. Evelyn, un inglese, sposa una francese, M.me Duval, da cui ha una figlia, Miss Evelyn. Alla morte di Mr. Evelyn viene affidata per testamento al reverendo Mr. Villars, perchè il padre considerava la moglie inadatta ad occuparsi dell’educazione di una ragazza.

Miss Evelyn sposa Lord Belmont il quale — una volta compreso che non potrà avere accesso al patrimonio della famiglia Evelyn — brucia i documenti che certificano il matrimonio e abbandona Miss Evelyn già incinta e che muore partorendo una bambina.

La piccola Evelina viene affidata al reverendo Villars il quale si occupa di lei finchè non arriva per la fanciulla il momento di fare il suo ingresso nell’alta società londinese. Il titolo originale del romanzo dice infatti che Evelina parla della “storia dell’ingresso di una giovane donna nel mondo”.

Il romanzo inizia quando Evelina, vissuta serenamente fino a quel momento in campagna con il reverendo che ama e rispetta come un padre, riceve un invito per andare a Londra a visitare dei parenti. La ragazza, che ha sedici anni, lascia dunque la campagna per fare il suo ingresso nel “mondo”. Senza grandi speranze per il suo futuro, per la verità, cosiderato che è stata privata di tutta la sua fortuna. A Londra incontrerà la nonna materna, la francese M.me Duval, una donna ricca ma terribilmente rozza e volgare.

Il romanzo è la narrazione delle peripezie di Evelina, dei suoi incontri, delle sue uscite in società, della imbarazzante convivenza con parenti (i Branghton — zio e cugini) dalle maniere assai discutibili e villane.

L’intreccio si sviluppa descrivendo il comportamento maldestro di Evelina che provoca innumerevoli equivoci e piccole catastrofi. Ci sono nel romanzo parecchie pagine decisamente esilaranti, a questo riguardo.

La ragazza — seppure “istruita, sensibile, intelligente”  — appare infatti, come si direbbe oggi, piuttosto “imbranata” perchè l’educazione ricevuta non l’ha preparata a venire catapultata in un mondo — quello dell’alta società di Londra — in cui i particolari sono come ben scrive Chiara Vatteroni “…agghiaccianti: la violenza psicologica in agguato dietro eventi apparentemente innocui come una festa da ballo […] la rapacità dei corteggiatori che sembrano galanti e appassionati, in realtà vere e proprie mine vaganti per la fragilissima reputazione di una donna, costituisce ulteriore motivo di imbarazzo e confusione”

Evelina stessa è consapevole di tutto questo:

“finisco sempre coinvolta in qualche situazione imbarazzante o problematica a causa della mia sventatezza” (p.328)

“Non avvezza alle situazioni nelle quali mi ritrovo, e imbarazzata dalla minima difficoltà, raramente scopro come dovrei comportarmi finchè non è ormai troppo tardi” (p.403)

“Sono nuova al mondo e non avvezza ad agire autonomamente: le mie intenzioni non sono mai volontariamente colpevoli e tuttavia sbaglio sempre!” (p.410)

Il termine di questa sorta di “viaggio iniziatico” in società arriva con l’amore e il matrimonio.

Evelina è una donna e dunque, nonostante gradualmente essa acquisti maggiore padronanza di sè, capacità di giudizio e discernimento, per lei l’obiettivo finale non può che essere il matrimonio e l’affidarsi totalmente al marito, così come da bambina e ragazza faceva dipendere ogni sua decisione e comportamento da un altro uomo, l’amato Reverendo Villars.

Come ben argomenta la Vatteroni Evelina, romanzo epistolare, è un testo molto importante nella storia della letteratura inglese del settecento, anche se per troppo tempo ha occupato solo poche righe nella maggior parte dei manuali specifici e nelle antologie.

Prima di Evelina, Fanny aveva scritto una commedia, ma il padre aveva fatto grandi pressioni su di lei perchè rinunciasse al teatro, considerato allora deleterio per la buona reputazione di una donna.

Fanny Burney temeva il giudizio negativo del padre Charles Burney, che nonostante fosse uomo di cultura, compositore e storico della musica, considerava pericolosa per le fanciulle anche la lettura di romanzi e non permetteva alla figlia di leggerne.

Fanny pubblica  dunque il libro in forma anonima — arrivando persino, per eccesso di precauzione, a ricopiare l’intero manoscritto deformando la propria grafia per renderla irriconoscibile — con la complicità del fratello Charles che fa  da intermediario tra Fanny e l’editore il quale deve inviare tutte le sue comunicazioni a un indirizzo anonimo, presso un caffè…

Il romanzo  ha molto successo.

Un giorno in cui si trova in visita da amici, al padre di Fanny accade di ascoltare alcune persone di cui stima molto il gusto e la saggezza che lodano il romanzo nei termini più entusiasti. Se lo fa prestare per farlo leggere alla figlia. Fanny, imbarazzata, è allora costretta a confessare al padre che è proprio lei l’autrice di quel romanzo…

Ma non c’è solo il successo di pubblico.

Anche la critica ufficiale è entusiasta del libro giudicato frizzante, divertente, piacevole.

Samuel Johnson, in particolare, vede nella Burney l’erede di Richardson e  di Fielding e sottolinea soprattutto le sue doti per la commedia, la verve dei suoi dialoghi, la sua abilità nel costruire una galleria di ritratti di eccentrici, l’abilità nel destreggiarsi in vari modi di parlare tra coloro che appartengono all’aristocrazia e i personaggi delle classi sociali “inferiori” (elementi questi che io però, non essendo in grado di leggere il libro in inglese, non sono purtroppo in condizione di apprezzare).

E’ un racconto in cui il grottesco occupa parecchio spazio. Fanny Burney amava il teatro, e l’impianto teatrale si nota anche in Evelina: nei dialoghi, nelle scene in cui i personaggi si punzecchiano, in cui la loro litigiosità è spinta all’estremo (esempio fra tutti l’accanimento dell’inglese capitano Mirvan nei confronti della francese M.me Duval) o dei violenti litigi all’interno della famiglia Branghton.

Quando si legge Fanny Burney, non si può non pensare a Jean Austen, che amava le sue opere.

Jane  ha reso omaggio  a Fanny in L’Abbazia di Northanger (quando cita gli altri romanzi di Fanny Burney e cioè Cecilia, Camilla, Belinda) e l’eroina del suo romanzo più popolare, Orgoglio e Pregiudizio, può in qualche modo venire accostato  a quello della sedicenne Evelina,  mentre Mr. Darcy non può non ricordare Lord Orville. Tratti di Mr. Willoughby (altro personaggio di Evelina) troviamo in Ragione e Sentimento (1811).

Sono parecchi gli  elementi nel percorso delle due scrittrici che rendono interessante l’accostamento. Provo ad accennarne alcuni.

All’epoca di Fanny, il romanzo è   un genere considerato ancora poco adatto alle donne, per le quali ci si adopera perchè abbiano un’educazione tranquilla, fatta di disegno, di acquerelli, di strimpellate al pianoforte, di passatempi delicati, di ricamo, di cucito. In breve, di tutte quelle cose che formano il carattere delle ragazze per farne delle giovani a modo, pronte per il matrimonio. Le letture vengono  si incoraggiate, ma non tutte le letture.

A quindici anni, sotto la pressione della matrigna, Fanny brucia tutti i suoi scritti. Sogna di essere letta, ma ha paura dello scandalo. La reputazione di una ragazza è così fragile…

Fanny, una volta uscita dall’anonimato, fu molto apprezzata e il suo lavoro fu riconosciuto mentre lei era viva.
Ha conosciuto la popolarità dei propri scritti.
Ma cos’è avvenuto dopo? A poco a poco è scivolata nell’oblio e questa Evelina, ad esempio,  è, che io sappia, l’unica opera di Fanny Burney reperibile in italiano.
Il nome di Fanny Burney è noto prevalentemente agli specialisti di storia della letteratura inglese ma non dice nulla alla maggior parte dei lettori e delle lettrici.

Jane Austen ha conosciuto inizi difficili, poi ha pubblicato con un discreto successo, ha ottenuto ammirazione ed un certo ritorno economico, ma non quanto Fanny.
Tuttavia, Jane Austen è presente nella mente di innumerevoli lettori, i suoi romanzi sono popolari ancora oggi, si trovano facilmente in libreria, sono tradotti in molte lingue, le sue storie hanno avuto parecchie trasposizioni cinematografiche.

Allora.
Ha senso, oggi,  leggere  una Fanny Burney?

Litigi, mancanza di tatto e di educazione, personaggi volgari popolano il romanzo.

Dopo un paio di centinaia di pagine la lettura mi era diventata — devo ammettere francamente — un po’ pesante.
Evelina è dolce, riservata, maldestra. Frequenta una società che la disprezza e che si burla di lei.

Parecchie volte mi sono trovata a chiedermi “…ma perchè  caspita  ‘sta ragazza  non se ne torna in campagna dove viveva serena e felice accanto al suo benefattore, il reverendo Villars?”.

Tuttavia Evelina è un libro che — opportunamente storicizzato e contestualizzato — secondo me merita di esser letto, perchè la Burney resta una testimone privilegiata di un’epoca, un’autrice che proietta un certo sguardo sul suo tempo e che critica la società che la circonda.

Evelina è un documento sulla vita di una donna, una fanciulla timida stretta nella morsa delle convenzioni sociali, confusa e divisa nella sua ricerca della verità nell’apparenza

Fanny Burney non è così accattivante e raffinata come la Austen, ha un senso del grottesco più marcato e un’ironia più corrosiva di quella di Jane e molto probabilmente è proprio questo il motivo per cui Jane Austen è sempre stata molto letta e lo è ancora, mentre Fanny Burney è caduta nel dimenticatoio…Chi può dirlo?

Il Tempo è un grande filtro.

Funny Burney - Evelina
Funny Burney - Evelina

Fanny BURNEY, Evelina, (tit. orig. Evelina or the History of a Young Lady’s Entrance into the World,), a cura di Chiara Vatteroni, p.576, Fazi Editore, Collana Le Porte, ISBN 88-8112-172-7

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E’ SOLO UN ROMANZO!

Jane Austen
Jane Austen in un acquerello della sorella Cassandra (1804)

“… sembra sia universale desiderio denigrare la capacità e sottovalutare la fatica del romanziere disdegnando opere che si raccomandano solo per intelligenza, spirito, e buon gusto. “Non sono un lettore di romanzi…Raramente do un’occhiata a un romanzo…Non crediate che leggo spesso romanzi…Non male, per essere un romanzo”. Questa è la solita solfa. “Cosa sta leggendo, signorina?” “Oh, è solo un romanzo!” risponde la giovane donna posando il libro con indifferenza affettata o addirittura con vergogna. “E’ solo Cecilia, o Camilla, o Belinda” ovvero, in breve, sono solo opere in cui si dimostrano le più grandi capacità intellettuali, la più profonda conoscenza della natura umana nella più limpida descrizione della sua varietà, la più vivace effusione di spirito e di umorismo, il tutto in linguaggio scelto e garbato”

 

Jane Austen
Illustrazione di Charles E. Brock per Northanger Abbey

GLI SCOMPARSI – DANIEL MENDELSOHN

Gli scomparsi Daniel Mendelsohn
Daniel MENDELSOHN, Gli scomparsi (Tit. orig. The Lost. A search for six of six million), traduz. di Giuseppe Costigliana, p.722, Neri Pozza, Collana Bloom, 2007, ISBN 9788854502253

Daniel Mendelsohn è un ebreo laico americano appartenente alla terza generazione di una famiglia di ebrei provenienti da Bolechow, (oggi Bolekhiv) —- uno stethl dell’Europa orientale (Galizia) passato dall’impero austro ungarico ai polacchi, poi ai sovietici ed infine all’Ucraina — riusciti ad emigrare negli Stati Uniti appena in tempo prima dell’inizio della Shoah.

Insegna greco antico a New York.

Proprio così: colui che si potrebbe immaginare ossessionato dall’Europa centrale lacerata nel corso dei secoli tra L’Austria-Ungheria, la Germania, la Polonia, l’Ucraina e la Russia, è in realtà un appassionato dell’antica Grecia, della mitologia, dei grandi classici latini e greci.

Lui stesso, in un’intervista, ha spiegato le ragioni di questo amore dicendo: “Io sono ebreo ed omosessuale. La componente ebrea, in me, è la componente della tradizione della famiglia, del dovere. La componente greca, pagana, è quella del desiderio e del piacere”.

Articoli e saggi di Mendelsohn compaiono sul New Yorker, sul New York Times Book Review, sull’ Esquire e Paris Review e in volumi antologici. Gli scomparsi non è il suo primo libro: prima di questo, nel 2001 aveva pubblicato The Elusive Embrace: Desire and the Riddle of Identity”, che era stato premiato come libro dell’anno dal New York Times e dal Los Angeles Times.

Questo libro è il risultato della ricerca personale che Daniel Mendelsohn ha condotto per far luce sul destino di alcuni membri della sua famiglia scomparsi nell’Olocausto.

Com’è nato Gli scomparsi? Fin da bambino, Daniel Mendelsohn si appassiona alla storia della famiglia, ricostruisce l’intricatissimo albero genealogico, ascolta le storie che gli racconta il nonno: a poco a poco riesce a delineare il quadro dell’ascendenza familiare risalendo per tre o quattro generazioni. Ma si accorge che ci sono alcune persone di cui non si parla mai, a proposito delle quali il nonno, di solito tanto loquace e generoso di aneddoti di ogni genere, diventa improvvisamente muto: si tratta del prozio Schmiel (fratello del nonno) e della sua famiglia.

Di lui viene a sapere soltanto che non è riuscito ad arrivare in America, che è rimasto a Bolechlow con la moglie e le sue “quattro bellissime figlie” e che tutti loro sono stati “uccisi dai nazisti” nel 1941.

Ma quando, esattamente? E dove? E come? Ogni volta che Daniel formula queste domande, tutti i parenti tacciono. Dello zio Schmiel e della sua famiglia nessuno vuole parlare.

Daniel però ricorda che, quando era un bimbetto di sei-otto anni, tutte le volte che entrava in una stanza in cui c’erano dei parenti ebrei, questi scoppiavano in lacrime ed esclamavano: “Oh, come assomiglia a Schmiel!”

Daiel Mendelsohn Gli scomparsi
Schmiel Jäger

Alla morte dell’amato nonno, Daniel scopre le lettere che Schmiel aveva inviato nel 1939 a suo fratello già negli Stati Uniti. La lettura di queste lettere lo spinge ad una ricerca che in un primo tempo realizza sulle carte di famiglia e utilizzando tutte le risorse che oggi Internet offre, ma che in una seconda fase svolgerà “sul campo”, andando in cerca di persona (accompagnato dal fratello minore Matt, eccellente fotografo) della manciata di sopravvissuti allo sterminio degli ebrei di Bolechow ancora viventi e che si trovano sparpagliati dall’Australia a Israele, dall’Olanda all’Austria.

Spera, attraverso i loro ricordi e le loro testimonianze, di ricostruire la storia dei suoi scomparsi.

In effetti, quello di cui Daniel si rende conto, man mano che la sua ricerca procede, è che con lo sterminio di tutta la popolazione ebrea di Bolechow non solo lo zio Schmiel e la sua famiglia sono “perduti” (“lost”, è il titolo originale inglese), ma èDaiel Mendelsohn Gli scomparsi tutto un mondo, che è andato perduto, un mondo e la sua cultura e, in parte, anche la sua lingua.

Il racconto di Mendelsohn è commovente, talvolta persino divertente, costruito come un giallo. E’ un “Alla ricerca di un passato familiare perduto” che evoca l’opera di Proust, che lo scrittore ha riletto attentamente prima di immergersi nella realizzazione di questo testo.

Ebreo di terza generazione, l’ultima ad avere la possibilità di contattare sopravvissuti della Shoah, Daniel Mendelsohn realizza un vero capolavoro, una testimonianza dell’indicibile in lotta con i tabu di questo periodo storico.

Il suo non è però un ennesimo libro sulla  Shoah.

E’ innanzitutto un’opera letteraria, che cerca di dare una risposta ad una domanda fondamentale, per uno scrittore: come scrivere di un passato che non si è conosciuto? Cosa possiamo sapere del destino di uomini e donne svanito da così tanto tempo?

Mendelsohn parte dunque per un viaggio nella “terra dei padri”, va a Bolechow in cui la popolazione (diecimila abitanti circa), prima della guerra era composta per un terzo da ebrei, un terzo da ucraini ed un terzo da polacchi. Dopo la guerra, di ebrei ne erano rimasti solo 48…

Il viaggio è deludente, Mendelsohn non apprende che banalità, del genere “tre culture che coabitavano bene”, etc.

Torna in America ed ecco, qualche mese dopo, il punto di svolta.

Una sera squilla il telefono. E’ un sopravvissuto di Bolechow che chiama dall’Australia: “… lei non mi conosce, ma io ho saputo che cerca notizie su Bolechow. Io posso esserle utile”. Inizia così per Daniel Mendelsohn, questo specialista di culture antiche, una Odissea che da New York lo porta in Australia, Praga, Tel Aviv, Vilnius; dalla Svezia a Vienna, e poi ancora in Danimarca e di nuovo, infine, in Ucraina…

Un’odissea in cui a poco a poco comincia a pensare di essere “alla ricerca della storia sbagliata — la storia del modo in cui sono morti, piuttosto che quella del modo in cui sono vissuti”.

Mendelsohn non vuole parlare di morti.

Tenta di restituire, a Schmiel ed alla sua famiglia, una vita che è stata loro rubata, un’umanità fatta di dettagli di vita quotidiana, quella che fu la “loro” vita. Il viaggio deve servire a salvare i suoi parenti “dalle generalizzazioni, dai simboli, per render loro la loro individualità”, a “riportare in vita gli scomparsi” (p.287).

Le testimonianze dei dodici sopravvissuti allo sterminio degli ebrei di Bolechow  ancora viventi, le domande che fa loro, sono prive di sentimentalismo ma ricche di partecipazione emotiva.

Confronta i nuovi dati che apprende con i dati di cui è già a conoscenza.
A tutti pone la medesima domanda: “Vi ricordate di Shmiel e della sua famiglia?”.
Le risposte sono tante, a volte reticenti, a volte contraddittorie, si tratta di dar forma e senso ad un puzzle, “sistematizzare il sapere”, “ordinare una massa informe di dati […] imporre ordine al caos” per ricostruire un tessuto familiare e con esso, inevitabilmente, anche il destino di una collettività la maggior parte della quale annientata ed i cui pochissimi superstiti sono adesso sparsi per i quattro angoli del mondo.

Daniel Mendelsohn Gli scomparsiLoro, i testimoni diretti (tutti ormai quasi novantenni) delle Atkionen naziste (e ucraine) che tra il 1942 e il 1943 avevano praticamente cancellato la presenza ebraica nel paese d’origine mostrano una grandissima dignità quando guardano vecchie foto per ricordare, risvegliare la memoria per raccontare com’era quel “paese d’altri tempi”.

Nel libro ci sono molte immagini. Ci sono le vecchie foto di Schmiel, di sua moglie e delle figlie ma anche di alcuni dei sopravvissuti e ci sono anche le foto scattate da Matt, il fratello di Daniel, ai vari testimoni.

La presenza delle immagini nel testo e del loro ruolo di attivazione della memoria non può, ovviamente, non ricordare Sebald e d’altra parte lo stesso Mendelsohn lo cita, anche se indirettamente.
E poi, si, si, certo,  anche a me è venuto    subito in mente il Sebald  de Gli emigrati...

La somiglianza tra il libro di Mendelsohn e quelli di Sebald però finisce qui, perchè per Mendelsohn il significato delle immagini si collega piuttosto alla grande letteratura classica: “Il significato delle immagini — come possono costituire un divertimento per alcuni, e suscitare una profonda, persino sconvolgente commozione per altri — è il tema di uno dei passi più celebri della letteratura classica. Nell’Eneide, il poema epico di Virgilio che quanti sono sopravvissuti a catastrofiche distruzioni riveste un particolare significato” e ricorda in particolare il passaggio in cui Enea, a Cartagine, si trova davanti un dipinto raffigurante scene della guerra di Troia e ne rimane profondamente turbato: Per i cartaginesi quel conflitto era semplicemente un motivo decorativo, […] per Enea, naturalmente, riveste ben altro significato e davanti a quella immagine che narra la sua vita scoppia in lacrime”.

Mendelsohn, con una grande sensibilità, comprende che queste immagini che per lui non sono che interessanti, istruttive o al massimo commoventi hanno, per i sopravvissuti “il potere improvviso di ricordare alle persone alle quali le mostravo adesso la vita ed il mondo dal quale erano stati strappati” perchè queste persone sono, a differenza di lui, ebreo di terza generazione, sono “persone […] ricche di memoria ma povere di ricordi”

E gli torna in mente il celeberrimo  verso dell’Eneide: “Sunt lacrimae rerum”:  ci sono lacrime nelle cose, “ma noi piangiamo tutti per ragioni differenti”.

Daniel Mendelsohn Gli scomparsi

Una componente originalissima del testo di Mendelsohn (continuo a chiamarlo “testo” perchè mi rifiuto di incasellarlo in un “genere” classificandolo come romanzo, biografia, ricerca storica, raccolta di testimonianze, perchè il libro è tutte queste cose insieme) è il fatto che la storia della ricerca è “accompagnata” dall’inserimento di riflessioni esegetiche su alcuni corposi e fondamentali passi della Torah.

Mendelsohn   utilizza  questi  passi  come griglia di lettura per le vicende storiche di cui va narrando e delle tematiche che va esplorando: la Genesi e il Diluvio (creazione —> distruzione, Olocausto —-> rinascita attraverso pochi sopravvissuti), il conflitto/rivalità tra fratelli (Caino ed Abele: perchè il nonno non mandò al fratello rimasto in Europa i soldi per il viaggio in America che avrebbe potuto salvare la vita a lui ed alla sua famiglia?), il viaggio (il viaggio di ricerca di Mendelsohn, il viaggio in America del nonno, il viaggio di emigrazione verso Paesi sconosciuti — Abramo — il viaggio di ritorno in patria — Odisseo), il viaggio in Palestina di un altro dei fratelli del nonno, negli anni ’30, il viaggio/percorso di conoscenza, il viaggio nel tempo passato.

Quello che emerge a poco a poco e in modo sempre più distinto dalla lettura de Gli scomparsi non è soltanto l’individualità di Schmiel Jäger, della moglie Ester e delle figlie Lorka, Frydka, Ruchele e Bronia (di cui all’inizio della ricerca l’autore non conosceva nemmeno i nomi propri) ma i caratteri dei testimoni, la loro personalità, il loro essere accomunati ma anche divisi da un passato comune,  il loro non riuscire a prendere emotivamente le distanze dalle terribili esperienze di sessantanni prima   che li hanno segnati per sempre (“qualcosa si è spezzato dentro”, è una frase ricorrente) nonostante il radicale cambiamento determinato dall’essere emigrati in paesi, continenti, culture e lingue diverse da quelle di origine.

Gli scomparsi è un libro molto bello e coinvolgente, ricco di storie dentro altre storie: c’è la storia della famiglia di Schmiel, la storia di una comunità (gli ebrei di Bolechow), la storia di una ricerca storica, le storie dei sopravvissuti, le storie di viaggi nel tempo, nello spazio, nella memoria… la storia della attuale famiglia americana di Daniel e del suo rapporto con i propri fratelli…

Certo, occorre una certa attenzione per non perdersi nelle decine e decine di nomi di quasi quattro generazioni (ma in questo aiuta molto l’albero genealogico posto proprio all’inizio del libro) e dei testimoni, nel labirinto delle continue scoperte, smentite, ipotesi, tentativi di verifica delle ipotesi, testimonianze a volte contraddittorie, nella struttura linguistica spiraliforme.

Come tutti i grandi libri, la lettura  de  Gli scomparsi  richiede   pazienza ed attenzione, ma il testo di Mendelsohn si legge molto scorrevolmente e l’autore si rivela, pagina dopo pagina, un grande scrittore.

Nella sua ricerca, Mendelsohn si comporta come un detective che vuole sapere, non giudicare.

Non cerca il “perchè” ma il “come”. Più volte nel libro, e in tutte le interviste che ho letto, Mendelsohn ripete di non essere ossessionato dalla Shoah:

“Per me era solo una questione di famiglia, un interesse privato. In fondo volevo scoprire quale fosse stato il destino di zio Schmiel e degli altri” (p.402)

Procedendo in questo modo Mendelsohn si rivela non solo una persona sensibile, delicata, ricca di calore umano, rispettoso degli altri, erudito ma non pedante ma fornisce anche, in realtà, uno spaccato molto realistico e commovente sui massacri della Shoah.

Comprendendo che “Per i lettori è naturalmente più piacevole assimilare il significato di un vasto affresco storico attraverso la storia di una singola famiglia” (p.34) riesce ad innescare in chi legge quel processo di identificazione e di empatia che è indispensabile per potere, se non immedesimarsi, almeno avvicinarsi alla comprensione di un dramma che ha travolto milioni di persone. Non a caso il titolo originale del libro recita “Six of six million”.

Sei milioni è solo un’entità numerica astratta, mentre il racconto dettagliato di come vennero trucidati sei individui dei quali è possibile tratteggiare personalità, piccole abitudini quotidiane (“portava la borsetta in questo modo”, aveva delle belle gambe”, teneva la casa come uno specchio”) ci commuove profondamente e contribuisce molto — può sembrare paradossale, ma è così — ad ampliare la nostra conoscenza sulla Shoah nell’Europa orientale, sui rapporti tra ebrei ed ucraini ( “gli ucraini erano i peggiori di tutti” , ripeteva sempre il nonno di Daniel)

Joyce Carol Oates ha ragione quando dice che il libro di Mendelsohn ha molte assonanze con Alla ricerca del tempo perduto di Proust, ed Alessandro Piperno, in un articolo, scrive che Proust sembra essere “il convitato di pietra” del libro. Le frasi lunghe e sinuose di Mendelsohn, nelle quali abbondano gli incisi e le parentetiche, le sue circonvoluzioni, i ritratti di certi personaggi, la grande sensibilità che gli permette di cogliere attraverso mezze parole, uno sguardo, un accenno, i sentimenti non espressi apertamente, inespressi e inesprimibili dei suoi interlocutori.

D’altra parte, che Mendelsohn ponga in qualche modo Proust come una sorta di “nume tutelare” della sua opera lo colgo anche nel fatto che egli sceglie come epigrafi per la parte iniziale (Bereishit, ovvero il principio) e per quello finale (Vayeira, ovvero l’albero nel giardino) della sua opera proprio due  frasi di Marcel Proust.

La prima è tratta da La prisonnière:

“Quand nous avons dépassé un certain âge, l’âme de l’enfant que nous fûmes et l’âme des morts dont nous sommes sortis viennent nous jeter à poignée leurs richesses et leurs mauvais sorts…”

Superata una certa età lo spirito del bambino che era in noi e le anime dei nostri defunti profondono ricchezze e incantesimi su di noi…”

La seconda è tratta da À l’ombre des jeunes filles en fleur:

“c’est que dans l’état d’esprit où l’on «observe», on est très au-dessous du niveau où l’on se trouve quand on crée.”

“…la condizione mentale di chi “osserva” è di gran lunga inferiore a quella di chi crea”

Pubblicato per la prima volta nel 2006, Gli scomparsi ha ottenuto un enorme successo in tutto il mondo ed ha già collezionato un notevole numero di premi: il National Book Critics’ Circle Award, il National Jewish Book Award, il Salon Book Award, l’ American Library Association Medal for Outstanding Contribution to Jewish Literature ed in Francia il Prix Médicis Etranger, prestigioso riconoscimento assegnato ogni anno a scrittori stranieri.

Daniel Mendelsohn
Daniel Mendelsohn
Foto di Matt Mendelsohn
  • La scheda del libro >>
  • Il sito ufficiale di Daniel Mendelsohn >>

Qualche link di approfondimento

  • Colloquio di Alessandro Piperno con Daniel Mendelsohn >>
  • The Mendelsohn Family’s Bolekhov Website, il sito su Bolechow realizzato da Andrew Mendelshon, fratello maggiore di Daniel
  • Intervista a D. M. (in inglese) >>
  • Su YouTube, una discussione tra Padre Patrick Desbois e Daniel Mendelsohn su la Shoah in Ucraina (Fnac Ternes, 16 gennaio 2008. In francese) Prima parte e Seconda parte

L’OCA DI GERVAISE

Maria Shell Gervaise

L’Assommoir di Émile Zola è un romanzo potente e pullulante di sequenze memorabili.
Uno dei miei romanzi preferiti in assoluto, uno dei migliori del ciclo dei Rougon Macquart e un capolavoro della letteratura occidentale dell’Ottocento.

E’ la storia dell’ascesa e della caduta di Gervaise Macquart che, da poverissima lavandaia sedotta e abbandonata da Lantier con due figli avuti da lui, riesce lavorando duro a riscattarsi socialmente e a diventare un’agiata borghese ma che poi, trascinata dal marito Coupon, sprofonda inesorabilmente nell’abiezione e nell’alcoolismo.

Questo romanzo durissimo, magnifico, crudele, magmatico e ribollente ha una struttura interna molto solida ed una ferrea simmetria.

Il momento centrale della storia occupa un intero capitolo, il VII, e descrive il grande pranzo offerto da Gervaise ad alcuni vicini, parenti e alle sue lavoranti per festeggiare il proprio compleanno.

Se i primi sei capitoli mostrano la fase emergente della bella, dolce, buona lavandaia, gli ultimi sei mostrano la fase discendente, lo sgretolamento della personalità di Gervaise, il suo diventare una sorta di capro espiatorio e vittima sacrificale del gruppo che la circonda.

Il giorno del grande pranzo è l’ultimo felice nella storia di Gervaise: da quel momento, per lei che un tempo aveva detto a Coupeau: “Il mio ideale sarebbe di lavorare tranquilla, di avere sempre un tozzo di pane e un buco un po’ più decente per dormire […] un letto, un tavolino, due seggiole e nient’altro […] tirar sù  i miei figlioli, farne dei bravi ragazzi” e soprattutto di non esser mai bastonata […] tutto qui, vedete, tutto qui” comincia la discesa agli inferi della degradazione e dell’abbrutimento.

Nella “gran mangiata” che Gervaise offre ai suoi invitati e che Zola descrive da par suo, l’oca arrosto rappresenta il momento culminante, il simbolo del successo di Gervaise.

Le immagini che ho utilizzato per illustrare alcuni stralci di questo VII capitolo sono tratte dal film  Gervaise di René Clément del 1956 in cui Gervaise è magistralmente interpretata da Maria Schell, che per questo film ottenne la Coppa Volpi come migliore attrice protagonista al Festival di Venezia del 1956.

La traduzione del testo di Zola è di Luigi Galeazzo Tenconi. Mi sono presa però la libertà di lasciare i nomi delle persone in francese, perchè proprio non sopporto leggere “Gervasia” al posto di “Gervaise”…

Maria Shell

Le signore […] tutte attorniarono la casseruola e stettero a vedere, grandemente interessate, Gervaise e mamma Coupeau che pescavano il bestione. E subito scoppiò un grande clamore; vi si distinguevano le voci stridule e i salti di gioia dei ragazzi.
Fu un ingresso trionfale, Gervaise portava l’oca, le braccia tese, la faccia sudata, tutta raggiante d’un largo sorriso silenzioso. Le donne la seguivano anch’esse

Gervaise Rene Clement

 Quando l’oca fu sulla tavola, enorme, rosolata e tutta grondante sugo, non l’attaccarono subito. Era come un diffuso stupore, una sorpresa piena di rispetto; la tavolata ne era rimasta senza fiato. Se la mostravano l’un l’altro con strizzatine d’occhi, con cenni della testa. Corpaccio! che matrona quell’oca, che cosce! e che pancia!

Gervaise Rene Clement

Chi è che taglia? “No, no, io no! E’ troppo grossa, mi fa paura.” […] Finalmente la signora Lerat , con voce quanto mai suasiva, propose: “Tocca al signor Poisson… Ma certo, proprio al signor Poisson”
E siccome pareva che i commensali non capissero, aggiunse con un che di ancora più lusinghiero nella voce:
“Certo, tocca al signor Poisson. E’ abituato ad adoperare le armi, lui”.
E passò alla guardia di città il coltello da cucina.
Tutti ebbero un cortese sorriso di contentezza e di approvazione. Poisson, militarmente, annuì con un cenno di testa e attirò l’oca davanti a sé. I suoi vicini, Gervaise e la Boche, si scostarono perchè potesse muovere i gomiti. Tagliava adagio, con gesti larghi, gli occhi fissi sull’oca come per inchiodarla in fondo al piatto. Quando sprofondò il coltello nella carcassa, che crocchiò, Lorilleux ebbe uno slancio di patriottismo. Gridò: “Eh! se fosse un cosacco!”

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Poisson riservava una sorpresa: a un tratto, inferse un ultimo colpo, e la parte posteriore della bestia si separò e rimase dritta, con la groppa in aria: era il boccone dei preti. Allora, l’ammirazione deflagrò. Soltanto gli ex militari sapevano essere tanto cortesi in società.

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Fu davvero un’eccezionale battaglia di forchette, quella. Nessuno della brigata ricordava di avere mai avuto un’indigestione simile sulla coscienza.

Gervaise Rene Clement
Gervaise Rene Clement

Gervaise, enorme, appoggiata sui gomiti, inghiottiva grossi bocconi di polpa, senza parlare per timore di perdere una masticata, ed era soltanto un po’ di soggezione per via di Goujet: la imbarazzava alquanto mostrarsi golosa come una gatta.

Povera Gervaise. La sua storia è ad una grande svolta, ma lei non lo sa.

Noi però lo sappiamo, che non la vedremo mai più ridere, sorridere e mangiare così.

  • Scheda del film di René Clément su imdb >>

 

RACCONTARE STORIE

Van Gogh Il tessitore
Vincent van Gogh, Tessitore al telaio, 1884
Kröller-Müller Museum, Otterlo

“[…] la vera ragione per cui preferivo i greci a tutti gli altri popoli […] era per il loro modo di narrare le storie in tutto simile a quello di mio nonno. Quando mio nonno raccontava una storia […] non seguiva un andamento cronologico, sarebbe stato considerato troppo ovvio; al contrario, impiegava un andamento circolare, creando per ogni evento, ogni personaggio menzionato con la sua voce baritonale e cantilenante, una storia nella storia, un racconto all’interno del racconto, così che (come mi spiegò una volta) la vicenda principale non seguiva un filo conduttore, non era costruita un tassello dietro l’altro; piuttosto come una serie di scatole cinesi o di matrioske russe, ogni evento ne conteneva un altro, che a sua volta ne conteneva un altro ancora, e così via.
[…] Le scatole cinesi si aprivano una dopo l’altra ed io, seduto ai suoi piedi, ne contemplavo il contenuto ipnotizzato.
Guarda caso, era proprio questo il modo in cui i greci raccontavano le loro storie.
[…]
Ogni cultura, ogni autore ha un proprio modo di raccontare storie, ed ogni stile schiude ad altri narratori possibilità imprevedibili. Per esempio, da un certo romanziere francese si può apprendere come, in teoria, si possa consacrare la parte centrale di un voluminoso romanzo a una conversazione avvenuta durante un pranzo; da un romanziere americano (ma polacco di nascita) come il dialogo risulti curiosamente quanto pericolosamente indistinguibile dalla narrazione; leggendo un famoso scrittore tedesco si può invece constatare, non senza sorpresa, come in determinate circostanze illustrazioni e fotografie, elementi considerati inappropriati o inconciliabili con testi impegnativi, possano aggiungere spessore alle vicende descritte. E, naturalmente, l’opera di autori greci quali Omero ed Erodoto dimostra che il racconto di una storia non debba necessariamente snodarsi secondo un criterio strettamente cronologico, accadde questo e poi quest’altro”

Daniel Mendelsohn, Gli scomparsi