IL MONDO DI IERI – STEFAN ZWEIG

Stefan Zweig
Stefan Zweig nel giardino della sua casa a Salisburgo

“Ho conosciuto il grado e la forma più alta della libertà individuale, per vederla poi al più basso livello cui sia scesa da secoli; sono stato festeggiato e perseguitato, libero e legato, ricco e povero”

“Come austriaco, come ebreo, come scrittore, quale umanista e pacifista, mi sono di volta in volta trovato là dove le scosse erano più violente. Esse per tre volte hanno distrutto la mia casa e trasformata la mia esistenza, staccandomi da ogni passato e scagliandomi con la loro drammatica veemenza nel vuoto, in quel “dove andrò?” a me già ben noto. Ma non lo voglio deplorare, giacchè appunto il senzapatria ritrova una nuova libertà, e solo chi non è più a nulla legato non ha più bisogno di aver riguardo per nulla.”

Ho letto in questi giorni Mendel dei libri e Novella degli scacchi di Zweig, di cui conoscevo, per averlo letto tanti anni fa, soltanto Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo e di cui avevo un buon ricordo. L’ho dunque ripreso in mano.

Sempre più spesso mi succede di rileggere vecchi libri e di interessarmi all’opera di un autore nel suo complesso; sempre più mi interessa cercare di cogliere le connessioni tra un testo ed un altro, affinità e differenze fra vari autori. Per questo torno spesso su libri e scrittori di cui ho già parlato, e magari anche più di una volta. Sempre meno mi interessa “macinare” libri per la serie “finito, avanti il prossimo”, sempre più preferisco la lentezza che la velocità, nella lettura.

Nato a Vienna nel 1881 da una ricca famiglia ebraica, Zweig si laureò in filosofia nel 1904. Appassionato viaggiatore, ebbe modo di conoscere numerosi luoghi del mondo e di incontrare alcuni tra i più importanti esponenti della società e della cultura del tempo: Hofmannsthal, Rilke, Romain Rolland, G. B. Shaw, Rathenau, Auguste Rodin, Hermann Hesse, James Joyce, Ferruccio Busoni… Europeista, cosmopolita, pacifista convinto, fu un autore molto prolifico ed eclettico. Scrisse molte biografie, romanzi, novelle, si occupò di traduzioni, era un appassionato collezionista di autografi di scrittori e musicisti.

Cresciuto nella Vienna di Gustav Mahler, grande amico dei più importanti musicisti del suo tempo, scrisse saggi su Handel e Toscanini e fu anche librettista d’opera: scrisse infatti il libretto dell’opera di Richard Strauss Die schweigsame FrauLa donna silenziosa. La storia della prima rappresentazione dell’opera di questa strana coppia (l’ebreo e il filonazista nell’Austria ormai hitleriana) meriterebbe da sola un post.

Negli anni tra le due guerre mondiali Zweig era pubblicato e letto in tutto il mondo, in tutte le lingue. I suoi libri avevano milioni di lettori. Oggi è un autore piuttosto trascurato, in italiano non si trova molto ed alcune tra le sue più celebri biografie sono fuori catalogo.

Nel 1934 l’ebreo Zweig riuscì a fuggire in tempo dall’ Austria per spostarsi in Inghilterra e nel 1940 si trasferì definitivamente negli USA come tanti altri esuli ebrei.

Il mondo di ieri è la sua autobiografia. Troppo spesso, a mio parere, quando questo libro viene ricordato, si parla di Zweig un po’ troppo sbrigativamente come di un nostalgico del bel tempo che fu, lo si definisce “il cantore della Felix Austria“, lo si considera come una persona irrimediabilmente ancorata al passato.

Nella sua autobiografia troviamo, certo, la nostalgia.

Come può non rimpiangere il mondo della giovinezza una persona alla quale due guerre mondiali e soprattutto l’avvento del nazismo hanno stravolto completamente la vita, che ha visto i suoi libri ardere nei roghi nazisti, che per salvarsi la vita è costretto a fuggire prima dall’Austria e poi dall’Europa perdendo non solo tutti i beni materiali come casa e mobili ma anche la biblioteca, le sue amate collezioni di autografi, gran parte dei manoscritti e soprattutto il passaporto venendo dunque, in quanto apolide, privato di qualunque diritto di cittadinanza e di appartenenza?

Però nel libro — scritto in una prosa limpida e scorrevolissima — non troviamo solo nostalgia, rimpianto, recriminazione. C’è anche un’analisi molto acuta, lucida e sottile dei fenomeni e delle cause che determinarono il passaggio dalla monarchia absburgica ai tremendi anni che seguirono. La descrizione dell’Austria degli Absburgo (“il mondo della sicurezza”) contiene anche l’indagine spregiudicata di alcune piaghe sociali e particolarmente interessante l’analisi degli elementi che determinarono le diverse reazioni della gente comune allo scoppiare della prima e della seconda guerra mondiale.

Claudio Magris, nel saggio Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna definisce Zweig “classico esponente del vago cosmopolitismo umanitaristico sorto nella civiltà absburgica”, lo definisce scrittore “superficiale”, “umanista in ritardo e fuori tempo, simpatica e cordiale personalità inadeguata ai problemi della sua epoca” e scrive che “Zweig resta come la nobile, cara e vana voce di una protesta morale contro la crudele ruota delle cose, simile al suo Erasmo da Rotterdam con il quale s’era identificato) (*)

Carlo Emilio Gadda, poi, è spietato. Proprio a proposito di Il mondo di ieri scrive nel ’45: “Un trufolone europeo che va in cerca di tutti, è amico e ospite di tutti, è stato a balia con tutti […] Tutto ciò non gli impedisce di “nutrire degli ideali”. Il più alto, il più generoso, ed ad un tempo il più facile, è la comunione delle anime universe nella civiltà della supernazione. Auspicio supremo: la scomparsa dei passaporti.” (**)

Un giudizio — e lo dico con tutto il rispetto e la stima che ho per Gadda — ferocemente ingeneroso.

Intendiamoci: Zweig non è certo un autore che possa competere con un Musil. Non è un innovatore, un rivoluzionario della scrittura. E’ volto più al passato che al futuro. E’ sostanzialmente un conservatore. Ma ci sono scrittori che pur non avendo forse titolo per entrare nel Pantheon dei Grandi meritano comunque di esser letti e ricordati. Zweig è secondo me, decisamente, uno di questi. La sua scrittura è piacevolissima, elegante, fluida e paradossalmente, proprio autori come lui, così legati al loro tempo sono testimoni preziosi. La conoscenza di questi scrittori non potrebbe che essere utile, alle giovani generazioni.

La stesura di Il mondo di ieri venne completata nel 1942 a Petropolis, cittadina a nord di Rio de Janeiro in Brasile.

Il 22 febbraio del 1942 Stefan Zweig morì suicida assieme alla seconda moglie Lotte Altmann.

L’ autobiografia venne pubblicata per la prima volta a Stoccolma due anni dopo nel ’44.

Sui veri motivi del suicidio sono state fatte moltissime ipotesi.

Nel suo libro Zweig torna più volte sul tema di “quell’orribile condizione dell’essere senza patria, impossibile a spiegarsi a chi non l’abbia provata su sè medesimo, quel senso esasperante di procedere ad occhi aperti nel vuoto, sapendo che dovunque si appoggi il piede, ad ogni istante si può essere ricacciati indietro”.

Molti altri artisti e letterati hanno avuto esperienze simili a quelle di Zweig: la perdita di tutto, l’esilio, il piombare da un “mondo della sicurezza” a quello della costante insicurezza. Ciascuno di loro ha reagito come sapeva e come poteva. Alcuni sono riusciti a gettarsi alle spalle il passato e ricominciare tutto daccapo. Altri non ce l’hanno fatta, e si sono tolti una vita che per loro non era più vita.

Nessuno ha il diritto di giudicare.

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(*) Claudio Magris, Franz Werfel e Stefan Zweig, in Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna, Einaudi Reprints, 1976, p.293)

(**) L’opinione di Gadda è riportata da Daniele Del Giudice nella prefazione a Stefan Zweig, Novella degli scacchi, Garzanti Gli Elefanti, 2007, p. 12.

DORA MAAR

Dora Maar, autoritratto
Dora Maar, autoritratto, 1935

Qualche giorno fa sono andata a vedere, qui a Palermo, la mostra "Il mondo fantastico di Picasso. La collezione Würth e opere ospiti" allestita nella Sala Duca di Montalto a Palazzo dei Normanni (>>qui e >>qui due articoli per chi volesse saperne di più).

Non è certo la prima esposizione dedicata a Picasso che mi capita di vedere. Ho visto i Picasso della bellissima mostra di Palazzo Grassi a Venezia, anni fa.
Era qualcosa sul tema — vado a memoria — Picasso in Italia, si, insomma, lo sapete: quando ci venne con Cocteau ed insieme tramavano cose "che voi umani…" etc. — scherzo, naturalmente. Smile.
Però a Palazzo Grassi c'era ben di–spiegato in tutto il suo splendore l'originale del sipario di Parade dipinto da Lui, e questo solo valeva il prezzo del biglietto.
Ho visto i Picasso di Parigi (quelli dei Musei e quelli delle mostre temporanee al Centre Pompidou), i Picasso di Barcellona, quelli di Madrid e tanti altri che adesso non ricordo. Ammetto che sto scalpitando per vedere quelli delle mega-mostre attualmente in corso a Parigi e a Roma.

… Però questa minuscola mostra palermitana (66 opere in tutto) mi è piaciuta molto, e particolarmente e soprattutto perchè vi sono esposti schizzi, disegni, ceramiche che appartengono a collezioni private e che normalmente non è per nulla facile vedere, nemmeno su Internet o in riproduzione. La qualità e la particolarità di queste opere ha fatto sì che me la sono davvero goduta, questa mostra, e penso proprio che ci ritornerò.

Ma non voglio parlare della mostra, son ben consapevole di non aver competenze per farlo.

Voglio parlare di un'unica opera e soprattutto della persona che in quest'opera è rappresentata.

Si tratta di questo ritratto di Dora Maar.

Picasso, Dora Maar
Pablo Picasso, La blusa arancione – Dora Maar, 1940
Coll. Wurth

Picasso ha realizzato molti ritratti di Dora Maar, su tela, ma anche disegni e piccole sculture. Questo però non lo conoscevo, non lo avevo mai visto.
Nella panormita sala del Duca di Montalto non c'era confusione, eravamo in pochi .

Proprio come il giorno fortunato in cui  a Madrid ho potuto godermi Guernica al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia   in compagnia di  un gentilissimo signore spagnolo che continuava a ripetermi: "Picasso non è francese, certo, ha vissuto in Francia, ma il suo cuore è sempre rimasto spagnolo"   mentre io continuavo   a  pensare "vabbè, ci sarebbe da discutere".

 Ma non divaghiamo.

Torniamo al ritratto di Dora a Palermo.

Il ritratto è ben esposto e bene illuminato. Mi è stato possibile perciò guardarmelo con molta calma e mi ci sono soffermata davanti parecchio.

Dopo un po' mi sono resa conto che mi interessava, in quel momento, più la modella che l'autore del dipinto. O meglio, mi interessava, più che l'opera in sè, le due persone che stanno dietro di essa (il pittore e la sua modella) e la relazione che intercorreva tra di loro. Una storia affascinante e tormentata. Che merita di essere ricordata.

 Perchè più ci penso e più mi convinco che non è giusto che Dora Maar venga ricordata (se e quando viene ricordata) soltanto e sbrigativamente come "una delle amanti di Picasso".

Dora Maar (1907-1997) si chiama in realtà Théodora Markovitch, è figlia di un architetto croato e di madre cattolica, ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza a Buenos Aires. Arrivata a Parigi nel 1926 conosce Emmanuel Sougez, eminenza grigia della Nouvelle Photographie, comincia a frequentare Eluard, Breton, Man Ray. Apre uno studio fotografico e diventa presto un fotografa surrealista originalissima e molto apprezzata. In rete si trovano parecchie sue foto. Quella che metto qui è solo una delle tante. Giusto per farsi un'idea.

Dora Maar
Dora Maar, 1934

L'incontro con Picasso (che le cambierà — tragicamente — la vita) avviene al caffè dei Deux Magots: lei è seduta ad un tavolino da sola, e Picasso la guarda mentre affonda un coltello tra le dita della mano guantata. Gli appare altera, sensuale, una che sfida tutte le convenzioni. Ne è affascinato.
Dora è già stata l'amante di Bataille, diventa adesso l'amante di Picasso e sarà la sua musa per sette anni. E' una figura complessa, lui dipinge molti suoi ritratti, mentre lei tiene una sorta di diario quotidiano della loro convivenza fotografandolo in continuazione.

Lo fotografa da solo, mentre lavora oppure in compagnia di Breton o di Eluard e dei loro amici. La documentazione fotografica che Dora Maar realizza di tutti gli stadi della lavorazione di Guernica costituisce oggi un dossier famosissimo e molto prezioso, per gli studiosi di storia dell'arte.

Le sue foto contribuirono, e contribuiscono, a celebrare la gloria eterna del Genio.

Lui, da parte sua, non perde occasione di ritrarla al suo peggio.
E' un maestro nel cogliere la personalità di Dora piena di dubbi ed angosce e finalmente dipinge il ritratto di Dora forse più famoso di tutti: La femme qui pleure.

Una donnetta piagnucolosa e sempre in lacrime. Dora Maar per Picasso.

Picasso, La femme qui pleure
Pablo Picasso, La femme qui pleure (Dora Maar), 1937

Ma il meglio del meglio non è ancora questo.

Ad un certo punto Picasso convince la sua amatissima (?!?!) Dora ad abbandonare la fotografia (in cui lei è ormai una affermata professionista) e a darsi alla pittura. Lei, per amore, si lascia convincere e cade nella trappola.
Non ho adoperato a caso la parola "trappola".
Si, perchè mentre per la fotografia lei ha un grande talento, riconosciutole da tutti, per la pittura di talento non ne ha alcuno. Non solo non può certo competere con Picasso, ma non è neanche a livello di una modesta dilettante. Picasso questo non poteva non saperlo. Le ha teso questa trappola per dominarla e lei ci è cascata in pieno.

Ancora oggi, tutti quelli che conoscono la storia della loro relazione e sanno chi era Dora Maar non smettono di chiedersi come mai una donna tanto bella ed interessante (Man Ray la fotografò più volte facendo risaltare col suo magico bianco e nero il grande fascino), intelligente, dotata, coraggiosa, anticonformista possa essere caduta così come una scema qualunque.

Dora Maar by Man Ray
Dora Maar, Foto di Man Ray, 1936

Perchè Picasso, dopo averla convinta a lasciare la macchina fotografica per le tele e i pennelli, poi la derideva senza pietà per i suoi dipinti.
Abbandonata da Picasso, Dora Maar non partecipa più alla vita pubblica, la relazione l'ha completamente distrutta. Depressione, crollo nervoso, elettrochoc, diventa paziente di Lacan. Si rinchiude sempre più in se stessa, vive in completa solitudine. Conserva gelosamente tutto ciò che le rimane di Picasso e arriverà un giorno a dire: "Io non sono stata l'amante di Picasso, lui era soltanto il mio padrone".

Una storia tragica che mi ricorda, per molti versi, quella della relazione tra Camille Claudel ed Auguste Rodin.
E tante altre, eh. Magari prima o poi se ne parla, eh.

Donne che amano troppo. Donne che amano male, uomini che non sopportano accanto a loro una donna che non si rassegni ad essere semplicemente "l'umile ancella del genio creator".

Picasso, foto di Dora Maar
Picasso fotografato da Dora Maar mentre dipinge Guernica


Dora Maar
Portrait of Picasso
flexible negative
3.5 x 2.4 cm
Musée National Picasso, Paris (deposit MNAM) 205.N-DM
© Dora Maar/ADAGP. Licensed by Viscopy, Sydney, 2006
http://www.ngv.vic.gov.au/picasso/education/ed_JTE_MMM.html

FRANZISKA LINKERHAND – BRIGITTE REIMANN

Fransiska Linkerhand
Brigitte REIMANN, Franziska Linkerhand, traduz. dal tedesco di Antonella Cerminara, p. 544, ed. Voland, Collana Amazzoni, ISBN: 8888700315

Questo libro me lo aveva consigliato fuoridaidenti in agosto, qualche giorno prima della mia partenza per Berlino. Era ormai troppo tardi per procurarmelo e portarmelo in viaggio, ma non mi sono dimenticata del consiglio ed al mio ritorno l’ho comprato e l’ho letto in questi giorni. E’ stata buona cosa leggerlo tranquillamente a casa, perchè pur essendo un ottimo romanzo non si tratta — per i motivi che più avanti dirò — di una lettura molto agevole e tanto meno “leggera”. Non è insomma, a mio parere, un “libro da viaggio”.

Non sapevo assolutamente nulla di questa scrittrice e così, volendo andare oltre le poche notizie presenti sul risvolto di copertina, mi sono documentata un po’ girovagando per la rete.

Brigitte Reimann, nata a Burg nella Germania orientale nel 1933 è morta di cancro ad appena quarant’anni, ma nonostante la sua vita sia stata breve, ha vissuto intensamente, freneticamente.
Ha scritto numerosi romanzi, esiste una voluminosa corrispondenza soprattutto con la sua grande amica la scrittrice Christa Wolf — Brigitte, come la Wolf, ha vissuto nella ex DDR — ed in Germania è stato pubblicato anche il suo diario con il titolo Alles schmeckt nach Abschied (mi risulta che sia stato tradotto e pubblicato in francese con il titolo Tout a un goût d’adieux anche se,io, per la verità, non ne ho trovato traccia nei cataloghi on line)

Ma soprattutto, Brigitte Reimann (insegnante, giornalista e scrittrice, quattro matrimoni, molti amanti, politicamente impegnata, claudicante per la poliomelite avuta da bambina) ha impiegato gli ultimi dieci anni della sua vita a scrivere un romanzo, il “suo” romanzo, che è questo Franziska Linkerhand, l’unica sua opera, che io sappia, reperibile in italiano.

Franziska Linkerhand è un romanzo-fiume, rimasto incompleto perchè la Reimann morì proprio quando mancavano ancora soltanto due capitoli. Il lettore che però non fosse a conoscenza di questo particolare non si accorgerebbe, io credo, data la struttura del libro, di questa incompletezza.

Racconta la storia di una giovane donna sin dall’infanzia trascorsa a Burg, nel Magdeburgo, in una famiglia medio borghese tedesca (il padre, grande appassionato di letteratura, ha una piccola casa editrice che pubblica libri pregiati) ed arriva fino alla metà degli anni ’60.
Quando, dopo la disfatta della Germania la famiglia si sfalda (i genitori migrano nella Germania Ovest, l’amato fratello Wilhelm diventa scienziato e va in Unione Sovietica) Franziska rimane nella DDR e sceglie di seguire gli studi di architettura.

Franziska, diventata architetto crede fondamentalmente nei valori del socialismo. A differenza dei suoi genitori i quali, quando ancora era possibile farlo, sono fuggiti nella Germania Ovest non tollerando di rimanere e vivere “…in uno stato […] sordo alle obiezioni, dove i poeti famosi non sono in grado di scrivere una frase decente in tedesco, e i libri e i giornali, e soprattutto i giornali, sono decaduti ad un tale grado di russificazione e imbarbarimento della lingua da renderne pressocchè impossibile la lettura…[…] No, figlia mia […] Non posso nascondere una certa simpatia per le idee di questo stato con i suoi grandi principi di fraternité ed umanità liberata, ma una cosa è proclamare dei valori ed un’altra è trasformarli in realtà. La propaganda invadente, uno statuto disciplinare grezzo, un’economia che fa acqua da tutte le parti, e il feroce disprezzo del singolo e di ogni manifestazione individuale, questo è stato il vostro contributo…” le dice il padre nel momento degli addii.

Berlino Museo DDR
Berlino. Museo della DDR.
Camicia dei giovani della FDJ (Freie Deutsche Jugend)
Foto © Marco Salerno, agosto 2008

Franziska è piena di voglia di fare, di lavorare: vuol costruire un paese secondo quell’ideale che ha animato tutta quella generazione dei tedeschi dell’Est dal 1945 al 1953. Sogna di costruire “case le cui pareti siano mosse da pensieri che pianificano sorti migliori per gli uomini”. Considera l’architettura “l’invenzione più preziosa della civilizzazione, che come mediatrice della cultura viene seconda solo alla lingua”.

Ma la ragazza si rende presto conto che la sua visione dell’esistenza, allo stesso tempo collettiva ed individuale si scontra con ciò che i dirigenti del paese hanno deciso per il popolo. Arrivata a Neustadt, dove si sta costruendo una di questa nuove città socialiste, il suo lavoro e la sua permanenza nel centro di progettazione e sul cantiere diventano pesantissimi.

“Noi non abbiamo tempo per i giochetti. Abbiamo un unico obiettivo: costruire abitazioni per i nostri lavoratori, quante più possibile e nel modo più veloce ed economico possibile. Lo tenga sempre presente”, dice il dirigente del cantiere Schafheutlin a Franziska. A Schafeuthlin si contrappone la figura di un altro architetto, Landauer — predecessore di Schafheutlin — che liquida questo modo di pensare con uno sprezzante: “Ciò che vede qui, mia cara e giovane amica, è la dichiarazione di bancarotta dell’architettura. Le cose non vengono più costruite ma prodotte come una qualsiasi merce. Al posto dell’architetto c’è l’ingegnere…”. .

Che ne è allora di quell’idea di Franziska di una architettura come “strumento di mediazione della comunicazione”, al servizio delle esigenze dei singoli? Deve essere ridotta a mero strumento di omogeneizzazione e di collettivizzazione? Funzionalità e bellezza sono inconciliabili? Rispetto per la storia ed il passato oppure inevitabilità del sacrificio delle radici individuali e familiari?

In un primo tempo, anche l’entusiasta Franziska si ritrova a pensare, mentre compra dolcetti in una panetteria che sa che ben presto verrà rasa al suolo (assieme a tutte le altre costruzioni del vicolo) per far posto ad uno dei tanti palazzoni-alveari che lei stessa contribuisce a progettare: ” Poichè nessun ricordo la legava a quei vicoli, poteva abbandonarsi completamente alla soddisfazione degli architetti che fanno saltare in aria il ciarpame dei secoli passati, la meraviglia dei turisti, gli antri che l’età non nobilitava”.

Nel libro della Riemann non c’è solo il quadro Germania dell’Est, del modo di concepire l’architettura, la problematica del rapporto tra individuo e collettività in un paese tagliato in due da quel Muro voluto unilateralmente dall’Unione Sovietica e che qui tutti si ostinano a chiamare ipocritamente “barriera di protezione antifascista”.

Berlino Museo DDR
Museo della DDR a Berlino.
Foto © Marco Salerno, agosto 2008

Parallelamente, questa lunga storia che Franziska racconta a posteriori è una lunga dichiarazione d’amore per Ben, l’uomo che lei non cessa di amare appassionatamente e che   ha deciso di non rivedere più perchè… no, il perchè non lo dico, per non rivelare tutta la storia.

Brigitte Reimann era ben consapevole del fatto che non avrebbe visto  pubblicato il   libro  a cui aveva dedicato così tanto tempo ed energie.  E questo sia perchè sapeva che stava per morire ma anche perchè sapeva che, nel migliore dei casi, il libro sarebbe stato pesantemente censurato. Lo fu, infatti ma, contrariamente a quanto si prevedeva, le critiche furono rivolte non tanto alle considerazioni politiche che vi erano espresse quanto al modo in cui Franziska, la cui vita è molto simile a quella di Brigitte, parlava dell’amore, dell’amore fisico, del desiderio femminile.

Franzisla Linkerhand è un romanzo sull’impegno politico, la ricerca dell’assoluto, sulla sete di vivere e al tempo stesso un libro sulle illusioni perdute, sull’amore, la sessualità, sul ruolo delle donne nella società.

Le donne, di cui Brigitte-Franziska scrive:

“Tutto al mondo ha il suo prezzo:, anche la parità delle donne: gli uomini battono cassa. La donna è diventata collega, collaboratrice, concorrente, il suo diritto alla gentilezza e ad un affettuoso riguardo è stato cancellato. La donna non piace più se mostra debolezze e non piace neanche se diventa forte. O è troppo brava o non lo è abbastanza,  ed averla come superiore è semplicemente una iattura. Il successo le viene perdonato solo se è necessario, ma se è giovane e carina puoi scommettere che che otto uomini su dieci diranno che deve il suo successo alle relazioni avute, che ha saputo, pardon, con chi andare a letto” (p.286)

Costruito come un lunghissimo monologo che utilizza la tecnica del “flusso di coscienza” ma in cui si passa continuamente dalla prima alla terza persona, Franziska Linkerhand è un libro, a mio parere,  che se pur per molti versi è  affascinante e sicuramente da leggere può però risultare anche abbastanza pesante, questo voglio dirlo.

Un monologo che dura ininterrottamente per più di cinquecento pagine, il continuo altalenare dalla prima alla terza persona, l’uso spesso eccessivo  (e fastidioso) dei puntini di sospensione,  il fatto che la morte prematura dell’autrice non ha  evidentemente consentito una robusta revisione del testo e magari una bella sforbiciata di molte ridondanze e ripetizioni superflue può decisamente scoraggiare un lettore che non sia fermamente deciso ad arrivare sino in fondo. Ci sono parti del libro stupende, ma anche molti momenti di stanca, in cui la tentazione di esclamare “vabbè, ho capito, ma ora non ne posso più” arriva inesorabilmente.

E’ un libro che sono molto contenta di avere letto, soprattutto dopo essere stata a Berlino ed avere visto i palazzoni della ex Berlino Est (allucinanti) e tutto quello che rimane del Muro, e di come ancora oggi il Muro viene vissuto nel presente e nel ricordo; ho visitato il Museo della DDR che è veramente notevole e dunque ho letto con vorace interesse tutta la parte di Franziska Linkerhand che si riferisce alla vita nella ex DDR. Però non sono sicurissima che sia uno di quei libri che mi verrà voglia di rileggere.
Non molto presto, almeno.

Brigitte Reimann
Brigitte Reimann
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LA FORTEZZA – ROBERT HASZ

Robert Hasz
Róbert HÁSZ, La Fortezza, (tit. orig. Végvár), traduz. dall’ungherese di Andrea Rényi, pag.325, Nottetempo, ISBN 9788874521456

Sono sempre più convinta che la letteratura ungherese nasconda tesori a noi ancora sconosciuti. E’ una letteratura che, per vari motivi — politici e difficoltà di una lingua pochissimo conosciuta al di fuori dei confini — conosciamo poco, conosciamo male. Certo, c’è Imre Kertész, rivelato al grande pubblico dall’assegnazione del Nobel 2002. Il Nobel serve anche a questo: a fare conoscere autori validi anche se non popolarissimi. Se i Nobel dovessero venire assegnati utilizzando prevalentemente il criterio della popolarità, dubito che Kertész l’avrebbe ottenuto.
Negli ultimi anni, in Italia grazie ad Adelphi molti di noi hanno potuto conoscere ed amare Sándor Márai e grazie ad Einaudi ed alla piccola e benemerita casa editrice Anfora abbiamo scoperto alcuni splendidi romanzi di Magda Szabó. Einaudi ha pubblicato anche quel Il libro dei padri di Miklós Vámos di cui tempo fa avevo parlato >>qui.
Feltrinelli ha in catalogo alcuni libri di Péter Esterházy.

Ma gli altri? Il secondo volume degli scritti autobiografici di Márai Terra!…Terra! è pieno zeppo di citazioni e di nomi di scrittori ungheresi che si capisce essere importanti ma che da noi sono completamente sconosciuti. Che io sappia, di loro in italiano non esiste nulla e quello che esiste non è facilmente reperibile.

Per tutti questi motivi sono molto contenta di avere scoperto questo romanzo di Róbert Hász recentemente pubblicato in italiano e (ottimamente) tradotto da Andrea  Rényi (che è una donna).

Da quello che sono riuscita a raccogliere su questo autore ho appreso che Hász è nato nel 1964 nella comunità magiara della Voivodina, ai confini con la ex Jugoslavia, che ha vissuto sotto il regime del Maresciallo Tito, e che poi allo scoppio della guerra serbo-croata si è rifugiato in Ungheria.

La fortezza, il suo penultimo romanzo (l’ultimo è già stato pubblicato in Francia — ma va?!?? maddavero?!) contiene allusioni chiarissime a questo tremendo conflitto, anche se Hász inserisce la storia in un contesto caratterizzato dall’irrealtà e dalla stravaganza.

In un paese ed in un tempo indeterminato il tenente Livius viene trasferito, a sole due settimane dalla data prevista per il suo congedo definitivo dall’esercito, in una remota fortezza su una montagna. Giunto sul posto viene informato del fatto che “in considerazione dell’importanza militare del distretto […] e in virtù del paragrafo di legge relativo all’obbligo del servizio militare, il suo stato di servizio viene prorogato fino a data da stabilirsi”.

In questa fortezza che si rivela subito come una sorta di kafkiana no man’s land circondata da abissi e montagne tenebrose niente succede come ci si aspetterebbe, a cominciare dal modo di funzionare del regolamento militare. La fortezza è un vero e proprio mondo a parte, assurdo e paranoide, in cui gli uomini che la popolano sono aggrappati al loro passato ed alle loro certezze. Non sanno nulla della loro situazione se non che devono obbedire a un Ordine enigmatico. Quanto ai nemici, che dovrebbero trovarsi nella foresta oltre il torrente, nessuno ne ha mai visto uno…

Livius aspetta. Tra i suoi compagni ce ne sono alcuni simpatici, altri un po’ meno. Nell’arco di poche ore si rende conto di star perdendo completamente la nozione del tempo. Non capisce nulla di quello che sta succedendo realmente e del perchè. Ha paura. Non ha più alcun punto di riferimento. Lui ed i suoi compagni sono regolarmente e violentemente assaliti da ricordi così potenti da far perdere loro completamente il senso di realta, piombano in un uno stato di sonno ad occhi aperti che abolisce le barriere del tempo e dello spazio. Chi li manipola? Chi o cosa provoca tutto questo? Ognuno si dà una spiegazione che risponde alle proprie credenze, alla propria filosofia di vita: per alcuni è Dio in persona, per altri gli extraterrestri oppure… il famoso Nemico il quale, benchè sempre invisibile, magari dispone, però, di un gas allucinogeno!

Gli uomini non possono accettare il non-senso, hanno un disperato bisogno di razionalizzare, cercano una spiegazione qualsiasi che, anche se non del tutto convincente, consenta loro di non sprofondare nella follia. Anche le spiegazioni più strampalate aiutano comunque ad accettare l’assurdità della situazione.

Dove siamo? Alcuni indizi che Hász dissemina qua e là nel testo ci fanno capire che ci troviamo nei Balcani dopo la morte di Tito: vi sono accenni allo sbarco degli astronauti sulla Luna, i protagonisti vestono in jeans e maglioni, si cucina il pollo alla paprika, si parla di un Maresciallo….

Ma se la realtà storica viene accennata, lo è solo per diventare metafora di una condizione umana più universale che va oltre i confini di quel tempo e di quello spazio. Ci rendiamo presto conto che non è poi così importante individuare il paese di riferimento e l’epoca dello svolgimento dei fatti.
Importante è invece il dato che questo paese ha l’accesso al mare: la sua presenza nel romanzo e la possibilità o meno di arrivarvi e poter salire su una nave acquistano una valenza simbolica molto forte.

Al termine del romanzo Hász fornisce una spiegazione (che io ovviamente non rivelo) del mistero. Ma è una spiegazione che, se risponde a molte domande, apre anche altri interrogativi.

La fortezza è un romanzo bello, molto bene orchestrato in un fantastico che mescola realtà ed allucinazioni. Il presente delle giornate di Livius dentro la fortezza e il passato costituito dai ricordi della sua vita precedente al servizio militare formano due piani narrativi paralleli ed entrambi funzionali allo sviluppo della storia narrata anche se io, personalmente, ho apprezzato maggiormente il primo (il presente nella fortezza).

Tempo, spazio, memoria sono, secondo me, i tre temi principali del romanzo. La cosa, ad esempio, che più spiazza Livius sin dalle prime ore nella fortezza è il fatto che qui il suo tempo non è organizzato: fino ad allora, durante il servizio militare “non aveva mai avuto un minuto libero. Viveva secondo orari precisi fin dall’inizio del servizio militare, non doveva trovarsi un’occupazione, perchè a questo ci pensava l’esercito. Prima lo infastidiva il fatto che fossero gli altri a disporre del suo tempo, ora però riconobbe la comodità di questo sistema”. Perchè — ed è questa la cosa che più atterrisce Livius e i suoi compagni “tutti i segnali indicano che per noi, qui, in cima alla montagna, si è fermato il tempo”.

La fortezza ha vinto il Premio Biblioteche di Roma nella sezione internazionale.

Per un lettore italiano, il primo impatto con La fortezza di Hász non può non provocare un effetto, in qualche modo, di deja lu. Perchè gli viene in mente subito Il deserto dei Tartari, il romanzo di Dino Buzzati del 1940. Il tema, l’ambientazione, l’atmosfera sembrano se non uguali, certamente simili. Non ci sarebbe d’altra parte niente di strano, se Hász si fosse ispirato a Buzzati. Lo scrittore sudafricano Coetzee, premio Nobel 2003, pare abbia utilizzato la trama del Deserto dei Tartari per uno dei suoi romanzi più importanti, Aspettando i barbari, del 1980. Perciò perchè stupirsi se vi si fosse ispirato anche Hász ?

Io non so, in realtà, se Hász conoscesse il romanzo di Buzzati. So però che basta poco per capire che tra i due libri ci sono analogie apparenti ma non sostanziali.

Personalmente, più che al tenente Drogo, il tenente Livius mi ha fatto pensare al manniano Hans Castorp il quale, recatosi al sanatorio di Davos per trovare il cugino malato in una visita che non dovrebbe durare più di qualche giorno si ritrova preso nell’atmosfera della “montagna dell’incanto”. Tanto da rimanerci fino a che la guerra, il nemico esterno non lo costringeranno a ridiscendere a valle.

Una mia associazione mentale non so quanto fondata. Che però mi ha accompagnata durante tutta la lettura.

Robert Hasz
Róbert Hász

FUOCO PALLIDO – VLADIMIR NABOKOV

Fuoco pallido
Vladimir NABOKOV, Fuoco pallido (tit. orig. Pale Fire), traduz. di Andrea Molesini e Franca Pece, p.321, Adelphi, ISBN 9788845917325

Nel maggio del 1961 Vladimir e Véra Nabokov, che si trovavano in Europa, si imbarcavano sulla Queen Elizabeth per andare ad assistere alla prima cinematografica di Lolita diretto da Stanley Kubrick. Nabokov era ormai uno scrittore celebre in tutto il mondo. Benchè avesse scritto e pubblicato già parecchi libri, per il grande pubblico era “l’autore di Lolita“.

A marzo, aveva scritto da Nizza all’Esquire, a proposito della sua ultima opera ancora inedita Fuoco pallido:

“E’ un poema narrativo di novecentonovantanove versi in quattro canti che si immagina scritto da un poeta americano, uno dei personaggi del mio nuovo romanzo, dove sarà riprodotto e annotato da un pazzo”.

La struttura del libro è particolarissima. Troviamo, nell’ordine:

  • Una prefazione di un certo Charles Kinbote ad un lungo poema di 999 versi intitolato Fuoco pallido il cui autore è John Shade;
  • L’intero poema di John Shade (“di gran lunga il più sublime dei poeti inventati”, dice Nabokov in un’intervista del 1965);
  • Il commento al poema, che viene ripreso da Kinbote verso per verso per spiegarne il significato;
  • Le note al commento, una sorta di lessico.

.
Dunque, riepilogando: abbiamo un poema poi un commento al poema e le note al commento sul poema.

Rebus sic stantibus come possiamo definire questo libro? Possiamo chiamarlo “romanzo”? Vediamo di saperne qualcosa di più.

Il poema Fuoco pallido è stato scritto da John Shade, un oscuro (ed immaginario) poeta e professore all’Università di New Wy, deceduto in circostanze misteriose. Siccome i nomi, nell’opera di Nabokov, sono sempre importanti, non è superfluo sottolineare che Shade in inglese significa “ombra”.

Shade parla della sua vita, del suo ambiente, di sua moglie e di sua figlia, morta annegata. Il suo collega Charles Kinbote — uno strano e sgradevole personaggio professore di lingua e letteratura zembliana, misogino, vegetariano ed affascinato da Shade che è anche suo vicino di casa — si è assunto il compito di pubblicare l’opera del suo amico aggiungendo un commentario esplicativo. Ma ci accorgiamo subito che Kinbote è un commentatore a dir poco bizzarro…

Pretende di essere stato lui l’ispiratore del poema, è convinto che il poema sia una costante allusione alle discussioni che ci sono state tra lui e Shade a proposito di uno stato nord europeo di cui Kimbote è originario, lo Zembla, del suo re, costretto a fuggire a seguito di una rivoluzione e di un misterioso assassino che gli zembliani hanno lanciato sulle sue tracce.
Kinbote non solo è persuaso di avere fornito a Shade la materia prima del suo poema ma è convinto che la moglie del poeta, rosa dalla gelosia nei suoi confronti, abbia costretto il marito a tagliare parti significative del testo per sopprimere tutte le tracce dell’influenza di Charles Kinbote, tracce che ovviamente il paranoico ed ossessivo Kinbote è ben deciso a reinserire nelle note della sua edizione riveduta e corretta di Fuoco pallido.

Insomma, chi è questo Kinbote? Il re di Zembla? Un pazzo?

Fuoco pallido non è un libro semplice, da leggere.

Non c’è “una storia” ma tante storie che si rivelano pagina dopo pagina. La forma che Nabokov ha dato al suo libro può forse respingere ma superato il primo stordimento e se non ci si lascia intimidire dalla complessità della struttura a scatole cinesi il libro non lo si molla più. La scrittura di Nabokov, il suo stile, sono una delizia da gustare riga per riga.

A cominciare dal poema di Shade/Nabokov.
L’argomento centrale dei 999 versi di Fuoco pallido è il tragico suicidio di Hazel, la figlia del poeta, ma molti altri temi e riflessioni trovano posto nella composizione: l’infanzia, l’amore per la moglie, la scrittura, l’aldilà. In altre parole, la vita e la morte. Ci troviamo l’interrogazione filosofica ma anche la raffigurazione della semplice realtà quotidiana.
John Shade, e Nabokov con lui, realizza l’aspirazione suprema dell’arte, l’illusione di comprendere la realtà rappresentandola in un disegno ordinato, “sulla sensazione di una vita riccamente rimata / Fantasticamente pianificata. / Sento di capire / L’esistenza, o almeno una minima parte / Della mia esistenza, solo attraverso l’arte mia, / In termini di piacere combinativo; / E se il mio universo privato scandisce bene / Così fa il verso delle divine galassie / Che, io sospetto, è un metro giambico.”

(Per inciso: grande merito ai traduttori italiani, il cui compito suppongo sia stato niente facile).

Sono proprio il poema e l’apparato critico di Kimbote che costituiscono il romanzo, arricchito dall’intrigo poliziesco molto abilmente mescolato alla satira ed alla parodia. Abbiamo un immaginario re di un immaginario paese (lo Zembla) detronizzato dai rivoluzionari, un killer pagato per ucciderlo, l’assassinio del poeta (ammazzato per sbaglio al posto del re?).

Chi, se non Nabokov, era in grado di portare alle più alte vette letterarie un divertissement del genere? La sua conoscenza degli ambienti universitari americani, la sua vastissima erudizione, il suo gusto per la linguistica, la botanica, la zoologia, l’entomologia, la sua vena satirica, gli scacchi, le sue abilità mimetiche… tutto viene sapientemente amalgamato e il risultato è un’opera che non è classificabile, originalissima.

Il virtuosismo di Nabokov costringe il lettore ad un continuo altalenare tra il testo del poema e il tendenzioso commento delle note di Kinbote. L’esito finale presenta un assetto formale sofisticatissimo — e spassoso al tempo stesso — in cui coesistono differenti generi e stili letterari.

Torniamo ad esempio al poema di Shade: è suddiviso in quattro canti della medesima lunghezza, è costituito da 999 versi che nel testo originale inglese sono in rima baciata, con l’ultimo che si riallaccia al primo per formare una struttura circolare, tendendo così al raggiungimento di una forma perfetta.

“Solo questo: non il testo, [ma] l’ordito; non il sogno / Ma una coincidenza confusa, / Non debole non-senso, ma un ordito di senso. / Bastava che nella vita potessi trovare / Una sorta di fasullo legame, una sorta / Di correlato disegno del gioco, / Duttile arte, e almeno una parte dello stesso / Piacere che chi lo giocava trovava in esso.”

Eppure Nabokov, sornione, sta probabilmente giocando anche con il poema. C’è infatti chi ha creduto di individuare in John Shade e nel suo poema un autore ed un’opera pochissimo apprezzati da Nabokov, e cioè T.S. Eliot ed i cinque canti di Terra desolata con il loro interminabile apparato di note…
Non sono così esperta di Eliot da potere esprimere un parere in proposito, ma da Nabokov mi aspetto questo ed altro e se le cose stessero così non mi sorprenderei affatto.
Nel personaggio di Charles Kinbote troviamo anche (come nel Mr. Goodman di La vera vita di Sebastian Knight) la satira feroce di Nabokov verso i critici, i glossatori e i commentatori che con la loro presunzione arrivano al punto di ritenersi più importanti dello stesso autore, lo prevaricano e lo violentano con ogni genere di interpretazioni pretestuose e spesso campate per aria.
Ma Nabokov non era soltanto spietatamente ironico. Era anche autoironico e non è escluso che dietro John Shade e Charles Kinbote Nabokov si riferisse anche, autoironicamente, alla traduzione in inglese che lui stesso aveva fatto dell’Eugene Oneghin dell’amatissimo Puskin e che aveva corredato di un apparato monumentale di note e commenti critici. Una fatica che gli era costata la bellezza di dodici anni di lavoro.

Quando Fuoco pallido uscì, nel 1961, ottenne recensioni buone ma non entusiaste. Il critico del Sunday lo trovò piacevole, ma dichiarò di avere il sospetto che fosse stato più divertente scriverlo di quanto non fosse leggerlo.

Mary McCarthy (la scrittrice moglie del critico Edmund Wilson e che nel 1963 pubblicherà Il gruppo) fu una delle ammiratrici più esplicite del romanzo di Nabokov tanto da scrivere:

“In ogni caso, questa opera- centauro di Nabokov, metà poesia, metà prosa, questo tritone delle acque profonde, è una creazione di perfetta bellezza, simmetria, stranezza, originalità e verità morale. Fingendo di essere una curiosità non può nascondere il fatto che è una delle grandi pagine d’arte di questo secolo, il romanzo moderno che tutti credevamo morto e che stava solo giocando a nascondino”. Ed ancora: “Fuoco pallido è una scatola a sorpresa, una pietra metamorfizzata da Fabergè, un gioco meccanico, un problema di scacchi, una macchina infernale, una trappola per i critici, il gioco del gatto ed il topo, un romanzo per lettori bricoleurs”

Dirà poi Nabokov in un’intervista pubblicata nel 1967: “Mary McCarthy è stata gentilissima con me […] anche se penso che abbia aggiunto una buona dose delle sue essenze aromatiche al fuoco pallido del pudding di Kinbote”.

Brian Boyd , il massimo esperto dell’opera di Nabokov nonchè autore di una sua sterminata biografia, ha definito Fuoco pallido “il romanzo più perfetto di Nabokov”.

Voglio chiudere con un piccolo assaggio di ciò che aspetta il potenziale lettore del libro di Nabokov: ecco quindi un estratto dalla prefazione di Charles Kimbote al poema di John Shade:

“Mi sia consentito dichiarare che senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà, perchè la realtà umana di un poema siffatto (troppo ombroso e reticente per essere un’opera autobiografica), con l’omissione di molti versi vigorosi che egli ha avventatamente scartato, deve basarsi per intero sulla realtà del suo autore, del suo ambiente, dei suoi affetti e così via, realtà che soltanto le mie note possono fornire. E’ probabile che il mio caro poeta non avrebbe condiviso quest’affermazione, ma nel bene come nel male, è il commentatore ad avere l’ultima parola”.

Vladimir Nabokov
Vladimir Nabokov con la prima edizione di Fuoco pallido, nel 1962

GUILLAUME

Guillaume Depardieu

No, non lo sapevo che Guillaume Depardieu è morto oggi.

Magari proprio mentre io scrivevo il post su un film magnificamente interpretato da suo padre.
L’ho appreso dal commento che Elsa ha lasciato sul mio post a proposito del film Danton.

Ho subito fatto qualche ricerca in rete ed ho trovato questo.

Non sapevo che Guillaume, morto a soli 37 anni, avesse avuto una vita così travagliata: amputazione di una gamba, problemi con la giustizia, persino prigione.

Io vorrei ricordarlo come il bellissimo ragazzo che compariva, a fianco di suo padre Gerard nello splendido film di Corneau Tutte le mattine del mondo.

DANTON – ANDRZEJ WAJDA (1983)

Danton Wajda

Perchè mai proprio Danton?!?!

In fondo, il Danton di Wajda non è un film inconturnable. Bello, ottimamente recitato ma chi non fosse particolarmente attratto dalla grande recitazione teatrale dei beaux temps d’antan non lo riterrebbe certo un film imprescindibile.

E’ un film con una trama molto semplice, lineare. La si potrebbe raccontare in quattro o cinque righe.

Però.

…Se però si avesse voglia di approfondire ci si accorgerebbe subito che tutto è molto meno semplice di quanto possa sembrare a prima vista.

Perchè Wajda ci parla non solo della Francia del 1790 ma anche della Polonia del 1980.

E se la polverosa storia  francese del 1700 si presta a una metafora della Polonia del 1980 chissà, vuoi vedere che magari al fondo di tutto questo ci sta qualcosa che va oltre la Francia e la Polonia?

E che magari riguarda l’Uomo in generale?

Ma forse è meglio andare con ordine, e per andare con ordine forse è meglio cominciare a raccontare la trama, nuda e cruda.

Chè è sempre dalle cose semplici, che bisogna partire.

Gerard Depardieu

Parigi, primavera del 1794.

II anno della Repubblica. Dal settembre del 1793 è in corso la prima parte del periodo del Terrore, quella in cui la fazione dei perdenti, e cioè dei meno estremisti, è condannata alla ghigliottina. La giovane Repubblica attraversa un momento di grave crisi. Le sue frontiere sono minacciate dalle forze realiste, mentre all’interno imperversano carestia, inflazione e la lotta tra le diverse fazioni.

Danton Wajda

In coda per il pane

Il deputato montagnardo Danton (Gerard Depardieu), che con Marat e Robespierre è uno dei grandi protagonisti della Rivoluzione, allarmato dalle notizie che gli giungono dalla capitale lascia la sua campagna ad Arcis-sur-Aube dove si era ritirato temporaneamente e ritorna a Parigi per cercare di arrestare il Terrore.

Morto Marat, un baratro ormai divide Danton e Robespierre. Benché abbia avuto gran parte nelle stragi, sia stato ministro della giustizia e membro del primo Comitato di salute pubblica, Danton ora vuole fermare il bagno di sangue: pensa che, abbattuta la monarchia, la Francia abbia bisogno di pace e tolleranza. Robespierre, al contrario, è convinto che per battere i nemici interni ed esterni la Rivoluzione non debba arrestarsi: anche a costo di essere ingiusti e crudeli, bisogna realizzare tutti i principi banditi dalla Carta dei diritti dell’uomo.

“Il bene del Paese ci impone di essere più che mai cinici”, dice ai componenti del Comitato di Salute Pubblica.

Molto popolare, Danton è appoggiato dalla Convenzione e dagli amici politici che hanno influenza sull’opinione pubblica. Primo fra tutti il giornalista Camille Desmoulins (Patrice Chereau), vecchio compagno di scuola di Robespierre e direttore del giornale Le vieux cordelier.

Sicuro di sè, Georges Danton sfida dunque Robespierre ed il potente Comitato di Salute Pubblica, l’organo del governo rivoluzionario le cui figure principali sono Robespierre (Wojciech Pszoniak) e Saint Just (Boguslaw Linda).

Patrice Chereau

Saint Just (Boguslaw Linda)

 

Danton Wajda

Tecnicamente sarebbe facile mandare sotto processo Danton, implicato com’è in parecchi affari di corruzione tra cui quello della Compagnia delle Indie. Robespierre però in un primo momento rifiuta di farlo arrestare perchè teme la collera delle classi popolari che hanno portato alla Rivoluzione e che amano molto Danton.

Il destino di Danton si gioca in un drammatico colloquio tra lui e Robespierre che si svolge in un scena “a porte chiuse” fondamentale del film.

In essa emergono in tutta la loro chiarezza le inconciliabili divergenze politiche ed i caratteri diametralmente opposti dei due leader della Rivoluzione superbamente interpretati dai due attori principali, il francese Gerard Depardieu e il polacco Wojciech Pszoniak.

La sequenza dell’incontro tra Danton e Robespierre è magnifica.

L’incontro si svolge in una piccola stanza di un palazzo parigino, in un’ opprimente atmosfera claustrofobica. Danton viene mostrato come un buongustaio (ha fatto preparare una cena raffinatissima e beve vino durante tutta la scena).

Danton Wajda

E’ solo lui che si alza, si muove, che occupa spazio, mentre nel frattempo spiega che si batte per il bene del popolo — che lui conosce bene e Robespierre invece no — affinchè possa ritrovare davvero la libertà che il governo del Terrore gli ha tolto. “Voglio che finisca il Terrore proprio perchè sono uno di quelli che l’ha instaurato”.

Danton  Depardieu

“Tu dimentichi che noi uomini siamo fatti di carne ed ossa! Che ne sai tu del popolo? Vuoi fare la felicità del popolo se tu stesso non sai cosa voglia dire essere un uomo?” ed ancora “Maxime, io me ne fotto dei Comitati!” sono soltanto alcune delle frasi sferzanti che getta in faccia a Robespierre.

Danton  Depardieu

Robespierre, di fronte a Danton, rimane immobile, dritto sulla sedia e tocca appena il suo bicchiere di vino, incarnando così l’idea della virtù che vuol fare trionfare.

Appare dogmatico, freddo, uno che fa rientrare l’idea della felicità del popolo in una sterile concezione teorica, uomo di governo che agisce in nome del popolo ma che non lo conosce, il popolo, perchè ne sta lontano. Non esita a minacciare Danton: “Se tu smetti di attaccarmi, ti prometto che non avrai nulla da temere”.

Danton  Depardieu

Ma la la rottura è consumata. Questa volta su proposta di Robespierre, il 30 marzo 1794, il Comitato di Salute Pubblica ordina l’arresto di Danton e dei suoi seguaci.

Danton  Depardieu

Robespierre fa arrestare anche Desmoulins, nonostante sia l’unica persona verso la quale sembra nutrire una parvenza di amicizia e di affetto.

Patrice Chereau

 

Patrice Chereau

Il processo che segue non è che una farsa. Danton usa tutta l’eloquenza che lo ha reso celebre per difendere il gruppo accusato.

Danton Depardieu
Danton Wajda

Robespierre e Saint Just assistono al processo

Fa di tutto per spingere il Tribunale rivoluzionario, a capo del quale c’è il Grande Accusatore Fouquier-Tinville, alle estreme conseguenze.

Danton Wajda

Senza testimoni, senza possibilità di difendersi, senza possibilità di ottenere la parola, i fedeli di Danton si rivolgono alla folla: “Popolo francese…” che manifesta loro la propria simpatia intonando La Marsigliese.

Danton Wajda

La voce tonante di Danton esalta la folla ed allora il giudice Fouquier-Tinville, dietro la pressione di Robespierre utilizza un decreto che tronca il dibattito e vieta alla stampa di scrivere. La sentenza è, ovviamente, la morte. Il gruppo è imprigionato, Desmoulins rifiuta la visita di Robespierre che vorrebbe risparmiarlo.

Vengono tutti ghigliottinati il 5 aprile del 1794.

Danton Wajda
Danton  Depardieu

Le ultime parole di Danton sono al boia Samson: “Tu mostrerai la mia testa al popolo, ne vale la pena”.

E Samson lo farà, afferrandola per i capelli dal fondo dell’orribile canestro. In quel momento, Robespierre è a letto febbricitante e nel suo tragico delirio, intuisce la sconfitta di una Rivoluzione basata sulla violenza.

Le scene finali mostrano un Saint Just esultante ma un Robespierre irrequieto e tormentato dal ricordo di quello che gli aveva profetizzato Danton nel corso del loro ultimo, fatale colloquio: il primo a cadere fra loro due avrebbe inevitabilmente trascinato l’altro alla rovina, e con essi sarebbe morta la Rivoluzione

Il film si chiude così. Ma noi sappiamo che lo stesso Robespierre verrà ghigliottinato appena due mesi dopo e il boia Samson mostrerà alla folla la sua testa.

Danton  Wajda

 

Il Danton di Wajda si presta ad una lettura almeno duplice: storica e politica. Certo, all’interno del film lo scontro si riduce a quello di due uomini: Robespierre e Danton, ma è chiaro che questi due personaggi incarnano, per il regista, due modalità di intendere la guida di una nazione: Danton la vita, il popolo, la passione; Robespierre il principio astratto, il calcolo, il cinismo politico.

Però è storicamente noto e documentato che, nella realtà, l’opposizione di Danton — arricchitosi con speculazioni di ogni tipo — al regime del Terrore derivava in realtà dalla necessità di non inimicarsi gli aristocratici e i borghesi arricchiti e gli usurai.

Lo scontro cui assistiamo è in realtà lo scontro tra due modalità diverse ma in qualche modo speculari di utilizzare “il popolo”.

A questo si aggiunge che il film di Wajda comporta un duplice discorso. Da una parte ricostruzione storica di uno dei più celebri processi politici della Rivoluzione per mostrarne l’ingiustizia, ma contemporaneamente, attraverso questo, denunciare le purghe dell’URSS e dei Paesi dell’Est. Un doppio discorso dunque, sulla Rivoluzione francese e sul comunismo, su una Francia dilaniata in quei tempi di Terrore e su una Polonia che subiva, negli anni ’80, il potere del generale Jaruzelski e di Mosca. Danton come Lech Walesa e Robespierre come Jaruzelski, dunque?

Si tratta, a mio parere, di un grande film, che però occorre saper decodificare.

Ho già detto delll’impianto teatrale del lavoro di Wajda. In effetti, il regista si è basato su due opere teatrali che sono La morte di Danton di Georg Büchner, un dramma romantico tedesco del 1835 dal quale sono tratte la trama e alcune citazioni e L’Affare Danton della drammaturga polacca Stanislawa Przybyszewska, una pièce scritta tra il 1925 et 1929.

Qualche parola su attori, musica e luoghi del film.

Danton è interpretato da un Depardieu a tratti rodomontesco che con la sua recitazione fisica diventa una forza della natura, espansivo e travolgente, che buca ed occupa la scena. Fa del suo personaggio il manifesto di un appello al volto umano della Rivoluzione.

A lui si contrappone in modo eccellente il rigido e monolitico Robespierre interpretato dall’ascetico e interiorizzato Pszoniak che tende a compensare i dubbi interiori che lo lacerano fino alla malattia con la maschera inflessibile di una razionalità spinta sino al punto di considerare la felicità del popolo come un fine da perseguire anche contro la sua stessa volontà come quando appoggia l’ordine d’arresto dell’amico Camille Demoulins.

Due grandissimi attori protagonisti e antagonisti.

Io conoscevo (e adoravo) Patrice Cherau come regista di quella che per me rimane il più bell’allestimento del Des Ring des Nibelungen (ne avevo parlato >>qui). E’ stata per me una bellissima sorpresa scoprire la sua bravura di attore, nel ruolo di Camille Desmoulins

La musica originale di Jean Prodomides, disarmonica, che alterna note gravi e molto acute, è estremamente efficace nel creare tensione. A partire dalla sequenza di apertura, in cui la carrozza che porta Danton e la sua seconda moglie a Parigi ottiene il via libera dai sanculotti che vigilano alle porte della capitale.

E infine: come potevo  non rimanere colpita dal fatto che l’ambientazione scelta per la prigionia di Danton e dei suoi fosse quel castello di Guermantes nel dipartimento di Seine-et-Marne al cui nome si ispirò Proust per alcuni dei personaggi più importanti della sua opera?

Danton Wajda

L’affaire Danton, 1983, Regia Andrzej Wajda, tratto dal dramma Il caso Danton di Stanislawa Przybyszewska, Soggetto: Stanislawa Przybyszewska, Sceneggiatura: Agnieszka Holland, Andrzej Wajda, Jacek Gasiorowski, Boleslaw Michalek, Jean-Claude Carrière

Interpreti e personaggi principali: Gérard Depardieu (Danton), Wojciech Pszoniak (Robespierre), Anne Alvaro (Eleonore), Roland Blanche (Lacroix), Patrice Chereau (Camille Desmoulins), Angela Winkler (Lucile Desmoulins), Boguslaw Linda (Saint Just)

Fotografia: Igor Luther, Musiche: Jean Prodromides, Montaggio: Halina Prugar; Scenografia: Allan Starski, Costumi: Wieslawa Starska, Anne De Laugardiere,Yvonne Sassinot de Nesle

Durata: 136′,Origine: Francia, Germania, Polonia.

CÉSAR BIROTTEAU – HONORÈ DE BALZAC

IngresJean-Auguste-Dominique Ingres
Ritratto di M. Philibert Rivière (part.)
1805, olio su tela, Musée du Louvre, Parigi.

 

“Qui [in banca] si tramavano quegli imbrogli spolverati di legalità che consistono nel finanziare senza compromettersi imprese losche per poi aspettarne il decollo, ucciderle e impadronirsene, chiedendo indietro i capitali in un momento critico: una manovra tremenda che ha rovinato tante persone e imprese”.

César Birotteau è uno dei romanzi della Comédie Humaine di Balzac.

Non è molto noto al grande pubblico. Non lo è almeno quanto ad esempio (giusto per intenderci) Eugenie Grandet, o Papà Goriot, Le Illusioni perdute o Splendori e miserie delle cortigiane.

Eppure, questo romanzo non solo è uno dei suoi più riusciti, ma era anche uno dei preferiti dallo stesso Balzac. Sarà anche perchè di debiti, Balzac se ne intendeva eccome, essendone divorato lui stesso e dovendo scrivere e lavorare sedici ore al giorno, per sperare di estinguerne almeno una parte e tener lontano i creditori che lo assediavano in continuazione.

Protagonista assoluto della storia è un uomo della media borghesia, il profumiere César Birotteau, onestissimo e gran lavoratore il quale ad un certo punto, incoraggiato dal successo ottenuto con gli affari ed inorgoglito dall’essere stato insignito della Legion d’Onore, cerca di compiere un salto nella scala sociale e di accedere all’alta borghesia (e perchè no, forse anche all’aristocrazia) nella Parigi del XIX secolo.

Per raggiungere questo obiettivo ed attratto da facili guadagni si lancia in grandi affari nonostante il parere contrario della moglie Costanza, molto più avveduta e prudente di lui. Fidandosi ciecamente di persone che da anni frequentano la sua casa non solo investe tutti i suoi averi in una speculazione edilizia tanto grossa quanto poco chiara, ma firma anche una pila di cambiali in favore delle banche che lo incoraggiano a rischiare sempre di più.

Birotteau però ha fatto il passo più lungo della gamba e presto non è più in grado di far fronte ai suoi impegni.

Finisce così nelle mani di una cricca di finanzieri che lo spogliano di tutti i suoi averi ed è costretto a dichiarare fallimento. Cosa che, per un commerciante, costituisce motivo di vergogna ed emarginazione sociale.

Nel titolo completo del romanzo — Histoire de la grandeur et de la décadence de César Birotteau, parfumeur, chevalier de la Légion d’honneur, adjoint au maire du deuxième arrondissement de Paris— è già presente tutta l’evoluzione della storia della crescita e della rovina economica di questo profumiere, del suo commercio, della sua piccola azienda.

Allo stesso tempo vittima (dei soci in affari che lo imbrogliano, degli usurai e delle banche che lo dissanguano) ma anche responsabile in prima persona della propria rovina perchè per la prima volta nella sua vita rischia più di quanto possa permettersi di perdere, la storia narrata da Balzac è, ancora oggi, tremendamente attuale.

Perchè al di là delle ovvie differenze tra i meccanismi economici dell’ epoca in cui il romanzo si svolge e quelli di oggi, il dramma dell’onesto e ingenuo Birotteau che viene preso in trappola nella rete dei mille cavilli giuridici e finanziari non si discosta molto, io credo, da quello in cui molti piccoli imprenditori e risparmiatori di oggi, onesti ma ingenui, spesso si trovano impelagati.

Bully

Una curiosità: come spesso avviene con i romanzi di Balzac, il soggetto fa riferimento ad un fatto realmente accaduto.
Balzac prese a modello un certo profumiere Bully inventore di un’eau de toilette cui diede il suo nome.
La fabbrica di Bully venne saccheggiata durante i moti popolari del 1830, lui fu rovinato e morì miseramente all’ospedale dopo aver trascorso lunghi anni a rimborsare i creditori.

Balzac, nel suo romanzo, fece fare al suo protagonista César Birotteau una fine molto meno tragica…

post-it Non credo che di banche si finirà di parlare tanto presto.
Sto a pensare e a ripensare su MibTel, Nasdaq e al tonfo del ’29.

Conviene rileggersi  Balzac e Zola, che    sull’ “Argent” ne avevano  già  dette, eh, di cose, eh.

Già più di cent’anni  fa

  • Il libro >>