AUSTERLITZ – W. G. SEBALD

Sebald Austerlitz
Winfried Georg SEBALD, Austerlitz (tit. orig. Austerlitz), traduz. Ada Vigliani, p. 315, Adelphi, ISBN 9788845920448

Di Austerlitz, di Sebald e di Marcel Proust.

E’ di questo che vorrei parlare, oggi.

Però prima  forse è meglio dire qualcosa su Sebald ed il suo romanzo Austerlitz, anche se ormai autore e romanzo sono entrambi talmente celebri che, almeno teoricamente, non dovrebbero aver bisogno di presentazioni.

Austerlitz di W. G. Sebald è il quarto ed ultimo romanzo di un autore tedesco che, andato via dalla Germania di cui non sopportava — così si dice, così ho letto — il clima “asettico” del dopo guerra, nel 1970 si trasferì definitivamente in Inghilterra dove per molti anni insegnò letteratura tedesca all’universita. Sebald è morto nel dicembre del 2001 in un incidente stradale.

La storia è narrata in prima persona da un uomo senza nome, che nella macchina narrativa ha la funzione dell’ “io” narrante di primo livello — quello strutturale, quello che dà “la forma” al romanzo.

Questo Narratore incontra per caso il protagonista per la prima volta nel 1967 nella Sala dei Passi Perduti della stazione di Anversa. Quest’uomo, intento a prendere appunti sulla struttura architettonica della stazione, ci viene descritto come di “aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati, come li ho visti soltanto all’eroe germanico Siegfried nel film di Lang sui Nibelunghi. Anche questa volta ad Anversa Austerlitz portava calzature pesanti, una sorta di pantaloni di tela blu sbiadita e una giacca di buon taglio, ma completamente fuori moda”. Veniamo così a sapere che questa persona si chiama Jacques Austerlitz.

Ma che caspita di nome è “Austerlitz” per un uomo che ha in viso la stessa espressione di sofferenza, ci dice il narratore-Sebald, del filosofo Ludwig Wittgenstein?! Austerlitz è infatti anche il nome del villaggio della Moravia divenuto celebre per la vittoria di Napoleone ma è anche il nome della Gare d’Austerlitz, una stazione della metropolitana di Parigi. Che c’entra questo nome “Austerlitz” con un distinto e biondo inglese appassionato di architettura e di fotografia?!

Il Narratore approccia direttamente l’uomo, e senza tanti fronzoli gli chiede come mai si interessi tanto all’architettura della stazione di Anversa.

Come tanti solitari che hanno perduto l’abitudine di parlare, Austerlitz accetta volentieri la conversazione con sconosciuti di passaggio. La sua vita, che scopre progressivamente al narratore, è in gran parte una ricerca su se stesso e sulla storia contemporanea europea: “Per quanto mi è possibile risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà” (p.199)

Qual’è la ragione di questa impressione di inesistenza al mondo? Per molto tempo, Austerlitz non ha cercato di vedere chiaro nelle sue origini e nella sua identità.

Egli sa solo di essere cresciuto nel freddo e nel silenzio della casa di un predicatore calvinista in un paese del Galles. Ha vaste conoscenze perchè sin da ragazzo si è rifugiato nello studio e nella lettura, si interessa alle meraviglie del mondo animale e vegetale. Studia Darwin, è appassionato di fotografia. Esperto di architettura, è diventato uno specialista della storia dei monumenti europei. Soprattutto lo interessano le costruzioni insolite, le stazioni ferroviarie, le fortezze trasudanti barbarie, burocrazia, annientamento dell’individuo. Scoprirà com’era strutturato il ghetto di Theresienstadt ed il lettore scoprirà anche le ragioni per cui Austerlitz detesta la nuova Bibliothèque nationale di Parigi, detta Mitterrand…

Attraverso il destino di un uomo sensibile, Sebald ci fa così visitare l’Europa del XX° secolo, un continente di vecchia ed alta cultura, ma anche luogo di atrocità e disumanizzazione.

Austerlitz, uomo dalla personalità complessa con un passato che non può che rivelarglisi gradualmente, a quattro anni — e dunque troppo piccolo per poterne avere conservato il ricordo — aveva fatto parte dei convogli del kindertransport, quei treni dell’ultima ora che portavano bambini ebrei in Inghilterra, salvandoli in extremis dallo sterminio hitleriano.

Da questo primo fatale viaggio che dalla Boemia lo aveva condotto in Inghilterra, dall’esilio, dallo spaesamento e della memoria deriva tutto il resto. Austerlitz, che per tutta la vita (e metà romanzo) non ha fatto nulla per conoscere il suo passato avverte sempre più urgente l’esigenza di fare luce sulle proprie origini e sulla propria storia.

Sono tre i narratori della storia di Austerlitz: lo scrittore riferisce quello che Austerlitz gli ha raccontato, in incontri a distanza di anni che coprono il tempo delle sue ricerche, e Austerlitz a sua volta inserisce nel proprio racconto quello dell’ amica della madre.

Un triplice io narrante, un triplice filtro per una storia che si dipana lentamente e che è un racconto della memoria.

Come tutti i grandi libri, Austerlitz (cui giustamente a mio parere Pietro Citati dedica un intero capitolo nel suo La malattia dell’infinito) presenta parecchi livelli di lettura e si presta a più di un approccio interpretativo. Molte delle recensioni che ho letto si soffermano soprattutto sugli aspetti più “politici” del romanzo, sui temi della responsabilità, della storia europea del Novecento, sul rapporto individuo – collettività. Temi tutti sicuramente presenti, e che meritano di venire sottolineati.

Sebald è davvero uno scrittore singolare, che viene paragonato spesso a Musil, Kafka, George Perec, Paul Auster e Thomas Bernard soprattutto per lo stile di scrittura, la mancanza di uno sviluppo lineare nella struttura narrativa delle sue opere letterarie, per la complessità della sintassi, per la lunghezza delle sue frasi, per l’uso singolare che fa dei segni di interpunzione.

Tutti questi accostamenti hanno senso e sono molto validi.

Ma se oggi scrivo, a proposito di un romanzo di cui si è gia parlato tantissimo e del quale in rete esistono molte eccellenti e interessanti recensioni è perchè sono rimasta particolarmente colpita dalle molte analogie e contiguità esistenti secondo me tra l’Austerlitz di Sebald e Alla ricerca tempo perduto di Marcel Proust.

Con la RTP Austerlitz ha infatti molte cose in comune. Lo stile, innanzitutto: come non pensare, leggendo Sebald, alle lunghissime frasi proustiane piene di parentetiche e subordinate, alla mancanza di una scansione in paragrafi, alla forte presenza di simboli, metafore, allusioni ad opere della pittura e della letteratura?

Joseph Mallord William Turner
Joseph Mallord William Turner (1775 – 1851)
Funeral at Lausanne, 1841
Londra, Tate Gallery

“Ecco gli elementi di una scena di addio che, caso strano, ho ritrovato alcune settimane or sono in uno dei rapidi schizzi ad acquerello nei quali Turner spesso annotava quanto accadeva sotto il suo sguardo […] . Il quadro evanescente, dal titolo Funeral at Lausanne…” (p.122)

Ma è soprattutto la presenza di alcuni temi presenti in entrambi gli scrittori ed il modo con cui vengono trattati che mi sembra costituisca una vicinanza fondamentale. Come la Memoria e il Tempo, ad esempio. E il senso del Passato.

In Austerlitz il tema della memoria è assolutamente centrale.

Non si tratta solo, e genericamente, della memoria di un uomo strappato a quattro anni dalla sua terra, dalle sue origini, dalla sua lingua materna. In Austerlitz si parla di quella memoria involontaria tanto importante in Alla ricerca del tempo perduto e che non è la memoria intellettuale ma quell’altra, la memoria involontaria appunto, quella che da una madeleine inzuppata in una tazza di tè fa risorgere un intero paese (“tutti i fiori del nostro giardino e di quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè”) o dal pavimento un po’ sconnesso del cortile di un palazzo parigino il selciato di San Marco a Venezia.

A questo proposito, c’è nel testo di Sebald un passaggio in cui Austerlitz si trova a Praga che sembra proprio un’allusione   (non so quanto intenzionale) del celebre brano de Il tempo ritrovato in cui il Narratore inciampa in una dalle del cortile Guermantes:

“Dacchè presi a girare in quell’intrico di vicoli attraverso case e cortili fra la Vlasská e la Nerudova, e soprattutto nel momento in cui, avanzando in salita passo dopo passo, avvertii sotto i piedi il lastrico diseguale della Sporkova, fu come se avessi già camminato per quelle strade, come se — non mediante lo sforzo della riflessione, ma piuttosto grazie ai sensi rimasti a lungo sopiti ed ora di nuovo desti — si dischiudesse in me il ricordo” (pagg.164-65)

E’ quella memoria che fa risorgere il nostro essere in tutta la sua purezza perchè ciò che lo fa risorgere non è corrotto dalle nostre difese e dalle nostre rimozioni.

(Piccola divagazione/curiosità: anche Heinrich Böll in Foto di gruppo con signora fa riferimento all’episodio del “ciottolo un po’ meno rialzato” di palazzo Guermantes.
Jacques Austerlitz per la maggior parte della sua esistenza ha temuto i ricordi. Ha chiuso gli occhi davanti al passato, ha voluto ignorare tutto della Germania per lui — architetto e uomo coltissimo — “il più sconosciuto dei paesi, ancora più esotico dell’Afganistan o del Paraguay”. Le sue difese si manifestano attraverso l’angoscia, che lo divora e lo paralizza, che gli impedisce di coltivare la relazione con la donna che ama e dalla quale è riamato, e finisce persino per impedirgli di scrivere, tanto le parole gli sembrano false, le frasi incoerenti.

Jacques Austerlitz è un uomo blindato nei confronti del ricordo. Lui stesso parla della sua “autocensura del pensiero, il costante rifiuto di qualsiasi ricordo si delineasse in me” (p.154) e di “…quanto poco fosse esercitata la [sua] memoria e quanti sforzi avess[e] profuso, invece, per non ricordare nulla […]” (p.153) e si rende conto di aver perfezionato sempre più i suoi meccanismi di difesa.

“Sentivo di non aver fatto altro per tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso” (p.136).

Ma ad un certo punto della sua vita, a cinquant’anni passati, Austerlitz ritrova le sue origini, la sua storia ed il viso della madre perduta quando aveva quattro anni.

Non posso ripercorrere qui nel dettaglio il procedimento narrativo, il tragitto all’indietro che compie Austerlitz, basta dire che in lui tutta una serie di immagini sorgono senza un ordine apparente, egli le descrive e subito alcuni contorni prendono forma. Bruxelles, Anversa, Londra, il paese del Galles. Sono tutti luoghi di memoria. Ed ecco apparire infine il bimbetto ebreo che in un lontanissimo giorno della sua infanzia alla stazione di Praga la madre, per salvarlo dai nazisti, ha fatto salire su uno di quei treni che, attraversando tutta la Germania e poi il Belgio arrivavano finalmente in Inghilterra.

Ci rendiamo allora conto che non è un caso se nella vita e nel racconto di Austerlitz le stazioni ferroviarie sono tanto importanti così come importante è la Gare d’Austerlitz di Parigi, città nel quale era riuscito a rifugiarsi il padre scomparso poi senza lasciare alcuna traccia, molto probabilmente deportato in un campo di sterminio.

Austerlitz è la storia di un uomo che, seguendo in modo pressochè inconscio ed — all’inizio almeno — anche contro la propria volontà ricordi vaghi che gli riportano strane sensazioni che alcuni luoghi gli provocano, ritrova il ricordo, la memoria, dopo cinquant’anni, della sua infanzia a Praga e delle sue origini ebraiche, che erano state completamente cancellate, così come il ceco, la sua lingua madre. Quando inizia a studiare la storia dell’architettura della stazione di Liverpool Austerlitz sente a poco a poco ” lacerti di memoria che cominciavano a vagare alla periferia della coscienza “:

“Erano ricordi come questo ad assalirmi nella Ladies’ Waiting Room abbandonata della stazione di Liverpool Street, ricordi dietro i quali e nei quali si celavano cose risalenti ancora più in là nel tempo ed embricate le une sulle altre, così come le volte labirintiche, che mi parve di distinguere nella luce grigio polvere, si susseguivano in una serie infinita. Ed effettivamente, avevo la sensazione che quella sala d’aspetto, al centro della quale stavo in piedi come abbacinato, contenesse tutte le mie ore trascorse, tutte le mie angosce e i desideri da me sempre repressi e soffocati, che il disegno a losanghe bianche e nere delle lastre di pietra sotto ai miei piedi segnasse il terreno su cui avrei dovuto giocare la partita finale della mia esistenza e che tale disegno si estendesse sull’intera superficie del tempo” (p.150)

Come una vertigine che provoca il fatto di guardare un oggetto secondo una prospettiva obliqua, la reminiscenza del passato si manifesta dunque come una vera e propria tempesta di immagini, di oggetti e di parole che fluttuano nella coscienza. Ricordare è ricostruire, ma non secondo un modo narrativo lineare ma come i frammenti sparsi nello spazio e nel tempo, il passato riemerge secondo procedure complesse per scomparire nuovamente non appena si cerca di dar loro un senso.

Tutto questo fa sorgere in Austerlitz “il pensiero di non essere stato mai veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte” (p.151)

L’assenza di linearità nel susseguirsi delle reminiscenze di Austerlitz (tanto simili alle famose “intermittenze del cuore” di cui parla Proust) non lo porta però alla dissoluzione dell’identità o alla perdita della consapevolezza di sè e della dimensione etica della memoria che rimane quella di un uomo cresciuto con una profonda avversione per gli anni del dopo guerra.

Chi per caso abbandonasse la lettura prima di essere arrivato almeno a metà romanzo rimarrebbe con l’impressione errata che tutta la prima parte del libro sia una divagazione: che senso ha tutto quel parlare di fortezze e stazioni, fotografia, di architetture a pianta stellare? La figura della stella è una presenza ricorrente in tutto il libro (come non pensare alla stella di Davide, di cui peraltro nel libro non si parla mai?) E tutto quel soffermarsi sugli orologi?

E invece tutto, nel romanzo, ha un significato: stazioni come punto di partenza e punto di arrivo, stazioni come luoghi di separazione ma anche di incontro, e sono tre le stazioni che segnano la vita del protagonista e dei suoi genitori: Praga, Liverpool, Gare d’Austerlitz. E Therezin infine, una fortezza dalla pianta a stella trasformata dai nazisti in ghetto, quel ghetto in cui è stata deportata la madre di Austerlitz per poi essere inviata in un campo di sterminio; la fotografia che ferma il tempo e ha lo stesso meccanismo della memoria, quando la pellicola esce dal bagno di acidi con figure incerte che assumono lentamente chiarezza.

Il Tempo, il senso di extratemporalità: Austerlitz ha sempre aspirato ad “essere fuori dal tempo” (p.113), non ha mai posseduto alcun tipo di orologio “forse perchè mi sono sempre ribellato al potere del tempo […] nella speranza […] che il tempo non passasse” (p.122)

Il passato è di fatto, per Austerlitz e in Austerlitz, una vera e propria ossessione: rifiutato e rimosso nella prima metà della storia, esplorato, cercato, studiato con appassionata tenacia nella seconda metà.

Non è in fondo, anche quella di Austerlitz-Sebald, in qualche modo una sorta di “ricerca del tempo perduto”?

W.G. Sebald
Winfried Georg Sebald
 

Autore: Gabrilu

https://nonsoloproust.wordpress.com

18 pensieri riguardo “AUSTERLITZ – W. G. SEBALD”

  1. Splendida recensione Gabrilù, veramente hai aggiunto molto alle tante cose su cui mi ha fatto riflettere questo libro. Molto giusto quello che dici sulla necessità di arrivare fino in fondo al libro per comprenderlo, anche se io penso che è un lbro che andrebbe riletto più volte. Molto bello questo tuo parallelismo con Proust su cui mi trovi assolutamente d’accordo anche se non sono preparata come te. Tu hai una capacità di analisi dei libri veramente profonda e ti assicuro che non c’è nessun intento adulatorio in quello che dico.
    Ho imparato molto ed imparo leggendoti oltre che seguire molti tuoi percorsi di lettura come ben vedi e sai.
    Grazie, Giulia

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  3. Per chi dovesse prendersi una cotta per Sebald, vale la pena segnalare un libretto pubblicato da Adelphi, “Il passeggiatore solitario” dedicato al grande Robert Walser che nel cuor mi sta.

    MisterSil

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  4. “Non è in fondo, anche quella di Austerlitz-Sebald, in qualche modo una sorta di “ricerca del tempo perduto””?

    Parto da questa ultima domanda per dire la mia e azzardare una possibile ipotesi alternativa su questo autore così affascinante e, al contempo, così inquietante…

    Condivido la tua lettura di Austerlitz; non c’è dubbio che Sebald debba aver avuto presente anche Proust come suo modello ispiratore (soprattutto in alcuni passaggi). Ma alla luce della sua “opera omnia” a me sembra che Sebald, a differenza di Proust, voglia condurci per mano lungo un passato di morte e di morti, dove ciò che più interessa il narratore-protagonista (che, spesso e volentieri, è anche un viaggiatore) non è tanto la “memoria involontaria”, quanto la contemplazione attenta, perturbata, e perturbante degli effetti del Tempo inteso come forza distruttrice che tutto consuma e tutto cancella. E’ come se Sebald ci stesse dicendo velatamente (e continuamente) che: 1) il mondo è molto più complicato di quanto noi lo immaginiamo e 2) il mondo presente su cui noi viviamo e passeggiamo così tranquilli e placidi è intriso di così tanti avvenimenti e ricordi “scomodi” che è quasi un miracolo che noi riusciamo a “ignorarli” e ad andare avanti, come se “ciò che fu” non sia più e non abbia più conseguenze sul presente.

    Prendiamo, ad es., “All’estero” (titolo in italiano nell’originale), uno dei racconti della raccolta significativamente intitolata “Vertigini” (1995): qui è lo stesso Sebald a parlarci di un suo viaggio “all’estero” (appunto), per l’esattezza, in Italia, tra Verona e il Lago di Garda, nel corso degli anni 80. Come comincia la narrazione? Con un tono non solo e non tanto “proustiano” (sempre che riusciamo a metterci d’accordo su cosa s’intende con l’aggettivo “proustiano”), quanto ironico e quasi umoristico:

    “A quel tempo – si era nell’ottobre del 1980 – avevo lasciato l’Inghilterra, dove vivevo ormai da quasi venticinque anni in una contea per lo più gravata da una cappa di nuvole grigie, ed ero partito per Vienna, nella speranza che, sotto nuovi cieli, sarei riuscito a superare un periodo piuttosto difficile della mia vita” (p. 39 dell’ed. Adelphi – traduzione della bravissima Ada Vigliani).

    Basta già questo primo periodo per introdurci all’interno di una “narrazione” che sarà sì una specie di “ricerca del tempo perduto”, ma condotta con andamento ironico-umoristico e soprattutto senza seguire uno schema prestabilito e senza trovare mai un “riscatto trascendentale” dalla riflessione sul passato (tant’è vero che, affianco a questo primo intento di viaggio iniziale – Vienna – se ne aggiungeranno molti altri – l’Italia e le sue città del Nord; e accanto ai ricordi personali di Sebald se ne svilupperanno degli altri collegati al passato letterario, come Dante, Giacomo Casanova, Kafka e alcune chiese e opere architettoniche di Venezia e Verona…).

    Ma prendiamo un altro incipit: quello del libro di viaggio (o romanzo pseudo-autobiografico o saggio in forma narrativa) di “The Rings of Saturn” (ovvero: “Gli anelli di Saturno” – non ricordo se sia già apparso in italiano, per cui traduco al volo da una versione in inglese; ed. Vintage, London, 2002, tr. dal tedesco a cura di Michael Hulse):

    “Nell’agosto del 1992, quando la canicola stava volgendo al termine, intrapresi un viaggio a piedi nella contea di Suffolk, nella zona est dell’Inghilterra, con la speranza di poter fuggire il vuoto che si era impossessato di me dopo aver concluso un lavoro importante”.

    Anche in questo caso, quando il viaggio è (diciamo così): “preparato a tavolino”, la “ricerca” delle tracce del tempo passato avviene in base a un itinerario casuale; il narratore si ritroverà così a perlustrare la costa del Sud-Est dell’Inghilterra sovrapponendo il presente disastroso dei nostri giorni al passato una volta glorioso dei primi pescatori della zona. E, cosa ancora più importante, anche qui il ricordo di quello che fu si affila (per così dire) grazie alle citazioni (o ricordi citati) dalle opere di Joseph Conrad, Kafka, Flaubert e Sir Thomas Browne (N.B.: tutte le citazioni vengono fatte senza virgolette e si rifanno, esplicitamente, ai temi che richiamano, in quel particolare momento, l’attenzione del narratore; non sono mai ricordi “casuali” o “involontari” o “superficiali”; Sebald in questo è quasi “nabokoviano”, non gli sfugge una virgola dei brani che evoca – pur evocandoli, ripeto, “senza virgolette”, come se fossero parole sue).

    Per farla breve: a me pare che minimo comune multiplo di questi racconti e romanzi (vedi pure “Storia naturale della distruzione”) sia sì la memoria (e il Tempo), ma anche e soprattutto la meraviglia che causa la contemplazione degli effetti che il Tempo ha sui luoghi, sulle persone, sulle opere letterarie del passato. Sottolineo “meraviglia”; potrei usare anche un altro termine: “orrore” o “pietà” o “vertigine”; tutti sinonimi, per Sebald, dell’effetto che ha (o potrebbe avere) sull’uomo la contemplazione di quello che resta, che è sotterrato, che è stato tenuto (volutamente o meno) nascosto agli occhi dei vivi (quelli che, ahiloro, appartengono ancora al mondo del presente).

    Ogni volta che leggo Sebald è come se a parlarmi fosse un fantasma: uno che è già morto; che continua a farsi sentire (nel presente); e che mi parla di un passato che io ignoro o che io credevo per sempre morto (e sepolto).

    Non so se questo è l’effetto che fa (o potrebbe fare) anche Proust (la mia conoscenza della “Recherche” è antologica e non integra); di certo la “memoria” di cui si nutre la penna di Sebald mi pare molto poco “involontaria” e molto “intenta” a farci percepire il marcio, il caduco, il precario che c’è in ogni cosa che possiamo arrivare a contemplare con i nostri occhi (presenti) o con i nostri ricordi (legati al passato). Tanto è così che, a volte, quando consiglio un libro di Sebald a qualche mia amica, mi viene sempre da aggiungere (o scrivere su un postit): “attenzione, la lettura eccessiva di Sebald può avere effetti collaterali; consumare con moderazione”…

    Rendl

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  5. Giulia
    E’ vero, andrebbe riletto. Come tutti i grandi libri, che sono grandi proprio perchè prismatici…

    MisterSil
    Ho riletto da poco il mio Walser preferito, che è Jakob Von Gunten.
    Conosco il librino Adelphi che segnali (e fai bene, a segnalarlo) Il passeggiatore solitario.
    L’unica cosa che mi sento di dire, però, e su cui penso tu possa essere d’accordo, è che per apprezzarlo a dovere bisogna già conoscere, almeno superficialmente, Robert Walser. Che non è che sia uno di quegli autori tantissimissimissimo popolari, eh, ammettiamolo :-/
    Il problema con questo genere di libri è che se non si conosce l’autore di riferimento ci si perde almeno il 50% del piacere della lettura…
    Penso in questo momento a L’anno della morte di Ricardo Reis, uno dei miei Saramago preferiti (letto almeno tre o quattro volte) che se però non si conosce bene Pessoa …
    E’ difficile che questo tipo di libri siano … come dire… sufficientemente autosufficienti (mi sono concessa il lusso anche di un piccolo gioco di parole 😉
    Ciao e grazie 🙂

    Rendl
    Per il momento, solo poche cose telegrafiche:
    grazie per questo articolo (perchè questo mica è un commento, eh).
    Austerlitz è il primo testo di Sebald che leggo, e quindi le mie impressioni non possono che essere parziali. Come — consapevolmente — parziale è stato il mio centrare l’attenzione quasi esclusivamente sull’aspetto della Memoria.
    La mia è stata volutamente una lettura “monoculare” del romanzo.
    Delle cose che dici, quindi, in alcune mi ritrovo, su altre non mi pronuncio perchè dovrei conoscere Sebald in modo più approfondito.
    Quello che hai scritto mi ha molto invogliata a continuare nella lettura delle sue opere, e questo è importante, per me. Anche perchè, devo dirti la verità, pur avendo comprato Emigranti avevo un po’ di perplessità ad iniziarne la lettura perchè temevo/temo di rimanerne un po’ delusa, dopo Austerlitz.
    Da quello che dici, mi pare di capire che non corro questo rischio.
    Solo una piccola notazione a proposito di Proust e Sebald.
    Tu dici: di certo la “memoria” di cui si nutre la penna di Sebald mi pare molto poco “involontaria”. Ora a me pare che **la finalità** della memoria in Sebald (almeno, in quest’unico libro che ho letto, continuo a precisare) sia diversa da quella di Proust, ma **il tipo** di memoria che usa nel testo è quella involontaria, proprio come quella che utilizza Proust.

    (Spero di non avere incasinato ulteriormente il discorso :-/
    Ciao, grazie e… stai certo che non finisce qui, eh 🙂

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  6. Ecco, Gabrilu, hai fatto il guaio. Io ho letto i tuoi post su Sebald, sono rimasta colpita da quello su Austerlitz, ho visto l'accostamento a Proust e ho detto :"beh, mi sembra un buon punto di partenza". Ma non immaginavo neppure lontanamente quale libro e quale autore avrei avuto davanti. E' di fatto il primo libro che leggo sul serio -anima e corpo, intendo, nella cui profondità davvero mi perdo- dopo Vita e destino. Il tempo che non esiste, come intersezione di spazi, il tempo che si ripiega su se stesso, il risucchio del tempo. E quella figura meravigliosa di Austerlitz, così fragile, così sfuggente e così gentile. E quando si leggono le pagine dedicate a Véra, come non pensare a Céleste/Francoise? Insomma: con Austerlitz io direi di aver scoperto un capolavoro, se solo questa parola non fosse così abusata (anche da me). E ancora una volta, è solo colpa tua.

    Dragoval

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  7. Quando leggo i tuoi post, immagazzino informazioni e le lascio sedimentare. Acquistai Austerlitz subito dopo aver letto questo post ma l’ho attaccato solo l’estate scorsa. All’inizio non è stata una lettura facile. Da metà libro in poi, invece, mi sono immersa completamente nella scrittura di Sebald e il libro è volato via. A lettura ultimata ho provato a scriverne qualcosa, ma non è uno di quei libri per i quali puoi cavartela con un commentino veloce. È un autore da approfondire con calma.

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  8. babalatalpa
    quello che dici mi fa molto piacere perchè è proprio quello che mi piacerebbe riuscire ad ottenere, quando parlo di un singolo libro o di un autore: lanciare un seme, e sperare che prima o poi germogli. Lasciare che alcuni spunti “sedimentino”…
    E poi: si, Sebald è uno di quelli che io chiamo “autori-universo”, i cui libri vanno presi nel loro complesso e collegati tra loro. Gli “autori-universo” sono, per me, quelli la cui opera costituisce un vero e proprio sistema di pensiero, una sorta di mondo parallelo.
    Non ci rammaricheremo mai abbastanza per la morte prematura di Sebald…

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  9. ” L’intera questione della memoria costituisce l’ossatura morale della letteratura. Alla mia mente appare chiaro che coloro che non hanno memoria hanno una probabilità molto maggiore di vivere una vita felice. Ma è qualcosa da cui non si ha la possibilità di sfuggire: la nostra mente e congegnata in modo tale da spingerti a guardare indietro, oltre le tue spalle.
    La memoria, anche se tu la reprimi in ogni modo, tornerà da te e plasmerà la tua vita. Senza memoria non ci sarebbe scrittura : il peso specifico che un’immagine o una frase trasmettono al lettore può provenire soltanto dai ricordi- e non di ieri, ma di molto tempo prima .

    [The moral backbone of literature is about that whole question of memory. To my mind it seems clear that those who have no memory have the much greater chance to lead happy lives. But it is something you cannot possibly escape: your psychological make-up is such that you are inclined to look back over your shoulder. Memory, even if you repress it, will come back at you and it will shape your life. Without memories there wouldn’t be any writing: the specific weight an image or phrase needs to get across to the reader can only come from things remembered – not from yesterday but from a long time ago].

    https://www.theguardian.com/education/2001/dec/21/artsandhumanities.highereducation

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  10. Intervista-verosimilmente l’ultima- rilasciata da Sebald il 24 Settembre 2001, pochi mesi prima della sua morte. Commentando la foto di un giovane della famiglia di sua madre, pieno di belle speranze e tornato pazzo dalla prima guerra mondiale, aveva detto all’intervistatrice: “Trovo spaventosa l’impossibilità di sapere cosa ci aspetti dietro l’angolo”.

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    1. dragoval conoscevo quell’intervista a Sebald, tanto più impressionante se si pensa che quando parla della impossibilità di sapere cosa ci aspetta dietro l’angolo” non poteva sapere che un mortale incidente di macchina aspettava proprio lui, dietro l’angolo.
      Grazie per aver riportato questo stralcio.

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  11. Errata corrige. al post precedente. L’intervista lì citata non era l’ultima, ce n’è un’altra radiofonica rilasciata da Sebald a Michael Silverblatt per la trasmissione Bookworm il 6 Dicembre 2001, otto giorni prima della sua scomparsa (l’intervista, ça va sans dire, è in inglese):
    http://www.kcrw.com/news-culture/shows/bookworm/w-g-sebald
    Ma non è certo questo ad essere rilevante. In questa intervista,infatti, Sebald dichiara ancora una volta il suo grande debito nei confronti di Thomas Bernhard , che egli stesso riconosce come proprio mentore, Altra cosa degna di nota mi è sembrata l’osservazione dell’intervistatore,secondo cui, appunto, il nocturama con le creature dai grandi occhi spalancati, le stazioni, i luoghi chiusi, siano tutte allusioni indirette alla grande reticenza attorno alla quale ruota tutto il libro del libro, val a dire il riferimento diretto ai campi di concentramento.
    A questo, Sebald, risponde che non è possibile scrivere di questa terribile realtà, e, in generale, del tentativo di controllo, ghettizzazione e distruzione delle minoranze se non per allusioni , mentre come testimonianza diretta valgono le migliaia di immagini, e ribadisce poi come nella sua stessa famiglia ci fosse, a proposito degli eventi terribili dello sterminio e della sorte del popolo tedesco nella Seconda guerra mondiale, una vera e propria congiura del silenzio- la grande reticenza di cui sopra.
    Ultimissima cosa: l’intervistatore insiste molo sull’idea di cura, tenerezza, rispetto che emergono dalle pagine del libro; una lettura che Sebald sottoscrive, goffamente, un po’ timidamente, con la sua bella voce profonda e quel suo accento inglese così buffo (sono parole sue).
    Caro, caro Sebald.

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    1. Cara, cara Dragoval per la “cura” con cui presenti questa intervista, che traduci per noi, italici, che non sapremmo goderla. Quanto ho apprezzato il tacere di Sebald, la sua reticenza che mi era sembrata scaturire da un dolore rappreso, da una consapevolezza che quell’ orrore non potesse essere urlato ma solo raggrumato in un pudore rispettoso delle vittime. Ora, questa tua sintesi mi conferma che la mia impressione non era sbagliata. E, allargando il discorso, mi convinco sempre più di quanto possa essere ” impossibile” scrivere in maniera esplicita di realtà terribili e mi viene in mente anche Imre Kertész, nei racconti de ” Il vessillo britannico” , oscuri e allusivi della repressione comunista ma splendidi. Ciao e grazie.
      P.S Gabrilu ci perdonerà, spero, di usare questo spazio- a cui siamo tutti debitori- come un ” bene comune”…

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  12. @Renza
    [Tu, sempre così cara, a qualsiasi latitudine! :-)]
    Sebald è uno scrittore di straordinaria umanità, che credo sia la sua dote più grande. Molti scrittori hanno altri straordinari talenti, ma l’attenzione all’altro, il racconto della sofferenza terribile attraverso, come tu dici, il pudore e la reticenza, sono un dono molto raro. Pensavo proprio in questi giorni che di scrittori – di poeti; poiché anche Sebald è un poeta, e questo spiega forse molte cose- dalla sensibilità così profonda e dolente senza mai essere teatrale o stucchevole ne conosco soltanto un altro, molto lontano da Sebald nel tempo e nello spazio, ma a lui unito dalla volontà di raccontare il dolore dei vinti e quella tragedia delle guerre civili che la propaganda di regime si sforzava di far dimenticare, appunto, “con lo sguardo rivolto ostinatamente in avanti”, come i tedeschi dopo il ’44. Questo poeta sapeva, però, che il dolore delle vittime resta impresso nella memoria delle cose, e segnatamente delle rovine testimoni della storia (naturale della distruzione), e per questo, infallibilmente, attraverso le cose tocca e commuove il cuore dei mortali: sunt lacrimae rerum, et mentem mortalia tangunt
    https://iraida2.wordpress.com/2013/11/11/sunt-lacrimae-rerum-et-mentem-mortalia-tangunt/

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  13. Ps in lingua inglese si trovano tradotte molte più opere di Sebald di quante non siano quelle tradotte in italiano. Non sai quanto rimpiango, però, in questi casi, di non comprendere il tedesco per potermelo leggere in lingua originale (si dà il caso che i miei scrittori preferiti siano infallibilmente russi o tedeschi, lingue di cui purtroppo conosco solo due o tre parole stentatissime).

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  14. A distanza di tempo dal tuo interessante post, leggo “Austerlitz” – la mia prima lettura di Sebald – e, a mano a mano che la lettura avanza mi sento sempre più immersa in un’atmosfera proustiana. Sono molto contenta e compiaciuta di aver trovato un autore così vicino, nello stile, nella narrazione al mio autore preferito. A un certo punto del racconto, leggo questa frase: “Se fosse venuto qualcuno per condurmi al patibolo, gli avrei lasciato fare di me ciò che voleva senza proferir parola, senza aprire gli occhi, al pari di chi, in preda a forte mal di mare, per esempio durante una traversata del Caspio in piroscafo, non opporrebbe resistenza alcuna qualora gli dicessero che stanno per gettarlo in acqua” (Austerlitz – Edizioni Adelphi – pag. 136). La frase dal forte impatto evocativo non mi suona nuova; inizio freneticamente a cercare di ricordare dove l’ho già letta e, alla fine, eccola qui: “Fossero venuti a trovarmi, a proclamarmi re, a portarmi via, ad arrestarmi, li avrei lasciati fare senza dire una parola, senza aprire gli occhi, come quelle persone che, colpite dal più terribile mal di mare mentre attraversano il mar Caspio, non accennano il minimo gesto di resistenza se qualcuno le avverte che stanno per buttarle in mare” (Il Tempo ritrovato – Edizione Oscar Mondadori – Traduzione G. Raboni – pag. 422)
    Non c’è nessuna nota esplicativa, non c’è accenno alla citazione, nulla di nulla. Sono disorientata: è possibile citare un autore così grande, così famoso e non riconoscere la vera paternità di quanto scritto? Chiedo a te, cara Gabrilu, che hai senz’altro grande conoscenza di entrambi gli autori e, forse, conosci meglio di me le logiche editoriali sottese.
    un caro saluto
    Vania

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