LA RESISTENZA DELLE DONNE – BENEDETTA TOBAGI

Benedetta Tobagi La Resistenza delle donne

Benedetta TOBAGI, La Resistenza delle donne, pp. 376, Einaudi, 2022

Moltissime donne hanno preso parte alla Resistenza, alla lotta dei patrioti italiani per la liberazione dal fascismo. Lo sapevamo. Non è dunque escluso che si apra questo libro con la convinzione di sapere già tutto, della Resistenza e delle donne italiane nella Resistenza. Già dopo poche pagine ci si accorge però che non è affatto così. Ma non voglio parlare certo a nome di tutti. Dichiaro solo che a me è successo proprio questo. Credevo di sapere ma ho scoperto che quello che sapevo non solo non era tutto, ma non era nemmeno abbastanza.


Certo, nel libro si parla delle staffette (le famose ragazze in bicicletta), ci sono i nomi e cognomi ed i nomi di battaglia di molte di queste donne coraggiose che scelsero volontariamente di combattere la guerra di Liberazione affrontando rischi enormi, spesso perdendo la vita dopo carcere ed atroci torture. Ma la bravissima Benedetta Tobagi in questo libro non solo molto bello ed avvincente come un romanzo ma a mio parere necessario ci parla anche del “prima” e non soltanto del “durante” e ci parla di tutto quanto è stato sinora taciuto o rimosso sul “dopo”. Parla di speranze realizzate ma anche tradite, di illusioni e di grandi disillusioni. Parla dei tanti tabu e del non detto; scava nel rimosso della memoria collettiva, nei meccanismi di quella Resistenza delle donne che per molti aspetti si svela anche come costruzione di leggenda e mito.

Esplora le radici della scelta di queste donne, analizza l’intelligentissimo uso strumentale che facevano degli stereotipi femminili veicolati ed imposti dal fascismo e che adesso venivano rivolti proprio contro di esso (“l’angelo del focolare”, “la moglie e madre esemplare”, “la brava ragazza”, “la puttana”, “l’oca giuliva”…) mostrando come fosse proprio con il sapiente uso di questi stereotipi e modelli che le staffette e in genere le donne della Resistenza usavano come “strumenti di lavoro” riuscivano a menare per il naso fascisti e nazisti.

Niente linguaggio paludato, in questo libro, via stereotipi e luoghi comuni, piazza pulita di tutte quelle semplificazioni che troppo spesso, nel linguaggio pubblico storico e politico e nelle commemorazioni ufficiali tendono e spesso riescono ad appiattire una complessità che in troppi, ancora, trovano rischioso esplorare fino in fondo.

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Il libro è strutturato in capitoli e paragrafi brevi ed apparentemente di scorrevolissima lettura. Tengo a precisare che se dico “apparentemente” è perchè lo stile è molto scorrevole ed il lessico comprensibilissimo da tutti ma… i contenuti sono davvero tanti, così come tanti sono i passaggi su cui è inevitabile (ed io direi anche assolutamente necessario) fermarsi a riflettere. A me è successo di fermarmi molto spesso perchè avevo bisogno non solo di comprendere ma di “digerire” e “metabolizzare” quello che avevo appena letto. Perchè mi fermavo? A volte per l’ammirazione e l’entusiasmo per l’intelligenza, la creatività, il coraggio di queste donne, altre volte per l’orrore (terribili i capitoli sul carcere e le torture), spesso per la rabbia di certe cose che personalmente scoprivo forse per la prima volta o la cui conoscenza sonnecchiava dentro di me perchè non avevo mai ammesso di sapere. Tobagi parla chiaro e senza giri di parole, espone fatti e fonti, ci ragiona sopra. E da quello che leggevo era difficile scappare. Per mia fortuna.

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La narrazione si sviluppa sostanzialmente su due livelli che procedono in parallelo.

Un percorso “orizzontale” lineare cronologico che comincia da prima della guerra e prosegue poi a narrare ciò che avvenne durante la guerra, poi la svolta cruciale costituita dall’Armistizio di Badoglio con gli Alleati in quel drammatico 8 settembre del 1943.
Quelle giornate vedono l’entrata prorompente – e da protagoniste – delle donne nella grande Storia con quella che è stata definita una colossale azione di maternage di massa: “Nell’emergenza, mentre la guerra arriva alla soglia di casa, le donne aprono la porta. L’istinto protettivo e l’abitudine alla cura travalica i legami di sangue, deborda dall’ambito domestico e si allarga ad abbracciare, accogliere e assistere chiunque abbia bisogno”. Le donne si impegnano infatti spontaneamente a nascondere, rivestire e mettere in salvo i soldati che rischiano di finire nei lager se rifiutano di combattere coi nazifascisti. Si tratta, scrive Tobagi, della più grande operazione di salvataggio collettivo della nostra storia, e le donne – nota ancora Tobagi – a differenza degli inglesi accorsi sulle spiagge di Dunkirk per salvare gli sconfitti dalla Wehrmacht… non le aveva convocate nessuno. “Ma si mobilitarono subito, in tutti i territori italiani, dal centro al nord, dovunque fossero presenti le truppe naziste: un’azione ‘non concordata ma concorde’”
Da quel momento le donne si impegnano attivamente nella Resistenza in moltissimi modi e ruoli perchè dentro la Resistenza delle donne, che è – come bene si vedrà – insieme civile e armata, c’è spazio per tutte, ciascuna col proprio sentire. Si arriva così alla fine della guerra, alla Liberazione e al dopoguerra.

Questo percorso cronologico si sviluppa attraverso un’esposizione per aree tematiche che vengono affrontate ed analizzate: la maternità, i rapporti familiari, il ruolo e l’atteggiamento dei maschi di casa: mariti, padri, fratelli. Le donne che hanno scelto la Resistenza, in base a cosa scelsero? Le motivazioni furono le stesse per tutte? C’erano modelli storici cui poter fare riferimento? Esisteva e come funzionava l’amore e l’eros tra tutti quei giovani partigiani e partigiane lassù sulle montagne, che si trovavano a passare lunghi periodi in totale isolamento e solitudine? (“la guerra partigiana era un’esperienza in larga parte solitaria, fatta soprattutto d’immobilità e lunghe attese snervanti”) L’assoluta castità che regnava nelle formazioni partigiane era una realtà o un mito?

…E scopriamo che questo tema è uno dei non pochi grandi tabu di cui è costellata la narrazione della nostra Resistenza, uno di quegli argomenti che viene accuratamente taciuto, rimosso, occultato – ma Tobagi incalza e annota:

“Non serve aver letto il ‘Saggio sulla negazione’ di Freud per sentire che il modo in cui insistono sull’assoluta castità dei loro rapporti è davvero eccessivo, come un alibi concordato che suona posticcio perchè ripetuto con parole troppo uguali. Erano giovanissimi, pieni d’ormoni e d’adrenalina, spesso bloccati per giorni, e notti, in luoghi selvaggi e solitari… ma andiamo!”.

“Il mito della presunta assoluta castità che regnava nelle formazioni partigiane viene demistificato pubblicamente da Bianca Guidetti Serra nell’intervento a un convegno del 1995. Intervistata qualche tempo dopo da alcune studiose, ribadisce il punto con brutale sincerità: ‘Si faceva o non si faceva all’amore? Si faceva l’amore, molto! Ed è questo il discorso, che tutti parlano come se fossero degli asessuati i combattenti e le combattenti’. Oltre essere stufa della reticenza, si vuole levare qualche sassolino dalla scarpa: ‘Questo lo dico soprattutto per il movimento femminista che è venuto dopo’, aggiunge, sferzante, – che diceva – facendo un salto di vent’anni – che avevano scoperto tutto loro. Invece dimenticavano che forse qualche esperienza la si era fatta’”.
Bianca Guidetti Serra, avvocato, era stata una partigiana (nome di battaglia Nerina) tra le più attive e stimate.

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Le partigiane delle formazioni in montagna non vogliono farsi intrappolare nei soliti ruoli ancillari di cuoche, lavandaie, lavapiatti. Vogliono combattere, non servire. Ma il senso della cura è importantissimo come importantissimo è il ruolo delle infermiere che svolgono il loro lavoro con grandissimo impegno, empatia, senso del dovere (“curare non è servire”), così come importante è prendersi cura dei morti, che significa raccogliere i cadaveri dei compagni e delle compagne gettati per le strade o lasciati appesi agli alberi con la corda con cui sono stati impiccati, resti di corpi spesso smembrati e orrendamente sfigurati dalle torture, il pesante compito di dare la dolorosa comunicazione ai parenti, assicurare – se e per quanto possibile – una dignitosa sepoltura.

E vogliamo parlare delle famose staffette e dell’immaginario gentile ed edulcorato di ragazze in bicicletta? La staffetta è una figura celebrata ma di fatto ingiustamente non adeguatamente descritta e in realtà, di fatto sottovalutata non solo per quanto riguarda i pericoli che queste figure (quasi tutte donne, molte giovanissime) affrontavano e la varietà di compiti ad alto rischio che venivano loro affidati. Perchè cosa facessero davvero le staffette … la gente spesso non lo sa ed è molto di più di quanto si crede di sapere. Il loro compito principale era in effetti trasportare messaggi, ma spesso vengono affidate loro armi o esplosivo per sabotaggi e attentati. Quanto potesse essere rischiosa l’impresa non è difficile immaginare, considerato specialmente che spesso si trovavano a saltellare su strade accidentate con le vecchie bici di cui dispongono. Accompagnano e fanno da guida a persone importanti: comandanti partigiani o ufficiali alleati che non conoscendo il territorio hanno bisogno della loro assistenza per spostarsi da una zona all’altra; il loro lavoro sconfina molto spesso in attività di controllo ed intelligence vera e propria: approfittando del fatto che per le donne è più facile mescolarsi alla gente comune vine affidato loro l’incarico di frequentare anche tedeschi, per esempio, per carpire loro preziose informazioni spacciandosi per ragazze facili ben disposte a concedere i loro favori. Lavoro, anche questo, rischiosissimo perchè le espone anche al pericolo di essere scambiate – da italiani antifascisti che però non sanno- come collaborazioniste alle quali prima o poi la si farà pagare.
Ci fa notare Tobagi:

“il maschile di ‘staffetta’ non esiste: […] è uno dei rari termini professionali ad avere solo il femminile. […] i maschi impegnati nel ruolo solitamente affidato alle donne venivano definiti piuttosto ‘ufficiali di collegamento’; il termine ‘staffetta’ si usava al massimo per i bambini. Ci fu una vivace discussione sulla faccenda, negli anni Novanta; qualcuno chiese di definire ‘ufficiali di collegamento’ anche le donne, ma l’abitudine psicologica e linguistica era troppo forte per cambiarla a tavolino. ‘Staffetta’ è un termine cosí diffuso, e amato, che si è perso di vista quanto sia – anche senza volerlo – sminuente.”

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Il grande tema dell’uso delle armi da parte delle donne (tema tra l’altro estremamente attuale, a me sembra).

C’è infatti una resistenza civile e disarmata riassumibile nel motto: “fare guerra alla guerra” ed una resistenza armata che mira a sopprimere fisicamente il nemico con qualunque arma a disposizione. Ci sono donne che scelgono la prima e ci sono donne che scelgono la seconda. Ma ottenere le armi ed il permesso di usarle non è affatto facile, per le donne. Se ne accorgono subito e devono fare una vera e propria a volte estenuante battaglia con i dirigenti della Resistenza, per conquistarsi il diritto di impugnare un’arma e di combattere alla pari con i compagni uomini.

Ma le donne insistono ed alcune di loro, come Carla Capponi, l’arma se la procurano da sole senza aspettare un permesso ufficiale che non arriva…

” ‘Anch’io volevo procurarmi un’arma che mi veniva costantemente negata dai compagni dei Gap perchè, secondo loro, noi donne dovevamo limitarci a mascherare la loro presenza nei luoghi degli attacchi fingendo di essere le fidanzate: erano convinti che, così, avrebbero corso meno rischi’. Nemmeno lei si rassegna, per cui decide di fare da sola: ‘riuscii di rubarne una sull’autobus a un giovane della Guardia nazionale repubblicana’, racconta, ‘era nuovissima, una Beretta 9 con relativo caricatore, che il ragazzo teneva stretta ai fianchi col cinturone’ “

Le donne in armi sono “un’anomalia che inquieta” ancora oggi e, aggiunge Tobagi “al punto che spesso, in rete, nelle pagine dedicate alla Resistenza delle donne in Italia, si trovano fotografie che in realtà ritraggono combattenti sovietiche, jugoslave o antifranchiste”
Vengono istituite finalmente le formazioni delle Volontarie della libertà – destinate specialmente alle azioni militari pensate per essere gruppi esclusivamente femminili – ma ci saranno anche – cosa fino ad allora impensabile – oltre cinquecento donne che si conquistano posizioni di comando, anche militare, alla guida di squadre interamente o in larghissima prevalenza maschili, solo ed esclusivamente grazie ai propri meriti. Qualche nome di queste comandanti? Marisa Oliva (Elsinki), Laura Polizzi (Mirka), Walkiria Terradura (Walkiria)…

Una formazione partigiana

Ma come vengono vissute la gioia (perchè si, c’erano – nonostante tutto, anche giornate felici ed allegre – ), la paura, la solitudine?
E si è mai riflettuto abbastanza sulla grande importanza che aveva una questione solo apparentemente frivola e cioè quella dell’abbigliamento? Un altro tabu enorme: le combattenti partigiane portano i pantaloni!

“L’abbigliamento ha implicazioni molto profonde sul piano psicologico e simbolico, nella vita delle donne dell’epoca. Proprio come andarsene nei boschi o in montagna a vivere in promiscuità con un branco di giovani maschi, i pantaloni erano roba da donnacce, o peggio ancora da lesbiche. Erano stati sdoganati per le attività sportive, dall’equitazione allo scialpinismo […] ma solo per le signorine aristocratiche o dell’alta borghesia. La tuta e i calzoni cominciano a essere usati dalle operaie che subentrano ai maschi in fabbrica, ma una donna del popolo nel sentire comune deve continuare a mettersi la gonna, per quanto scomoda e anti-igienica possa essere in un’infinità di contesti”

Nel gelido inverno del 1944 alle donne partigiane viene espressamente ordinato dai vertici politico-militari di tenere un atteggiamento “serio” e “decoroso” per non dare adito a pettegolezzi e maldicenze. E perciò non dovevano portare i pantaloni. “Non perchè avrebbero potuto renderle troppo riconoscibili come partigiane, ma ‘per decenza’. Laila è furibonda: ‘State bei caldi voi! E noi, solo perchè donne, dovremmo congelarci per quelle stupide idee?’ Tanto fece che da quel momento ciascuna potè scegliere liberamente tra gonna e pantaloni, a seconda delle necessità e delle preferenze.”

In città bisognava invece essere ben vestite e truccate, presentarsi bene e non sciatte perchè – insegnava Carla Capponi –“per i nazisti le partigiane non potevano che essere delle sottoproletarie straccione, per cui bisogna andar sempre ben truccate, ben vestite e con l’aria sicura di sè”
” ‘L’unica volta che ho messo il rossetto in vita mia è stato per mettere una bomba’, ridacchiava Teresa (Chicchi) Mattei, insospettabile gappista tra Roma e Firenze” e che – detto per inciso – fu, in seguito, una delle 21 donne – su 551 membri – elette all’Assemblea Costituente nel 1946.

A monte di tutto questo, voglio ripeterlo, l’assoluta volontarietà di una scelta: Infatti, mentre in molte occasioni gli uomini si sono trovati costretti nel bivio tra combattere per la Repubblica di Salò e, in alternativa, i campi di concentramento in Germania e quindi hanno scelto la lotta contro il regime, la ribellione e l’impegno clandestino, per le donne tutto questo non si è verificato: chi ha scelto di combattere lo ha scelto secondo una sua libera volontà

“Sulle ragazze infatti non grava lo spettro della coscrizione obbligatoria, non devono nascondersi per sfuggire alla scelta impossibile tra essere arruolati coi nazifascisti o finire nei campi di prigionia. Non c’è nulla che le obblighi alla clandestinità, da cui piú breve è il passo verso la Resistenza. Nulla preme a forzare la loro scelta. Potrebbero restare alla finestra, in attesa che la tempesta finisca. Anzi, dovrebbero far cosí, è quel che ci si aspetta da loro: la cultura dominante e la pressione sociale congiurano per tenerle rinchiuse in casa, fare altrimenti è una vergogna e una provocazione, prima che un pericolo.”

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Benedetta Tobagi è figlia di Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera assassinato a 33 anni nel 1980 dai terroristi della Brigata XXVIII marzo. E’ una storica, ed il libro è il risultato di un lavoro accurato e coscienzioso, la bibliografia che correda il volume è imponente e ragionata ed il volume ha un ricco e prezioso apparato iconografico frutto di ricerche certosine in cui ogni singola immagine non viene soltanto esposta ma analizzata in profondità (e scopriamo così che molte foto storiche e celeberrime della Resistenza sono foto non tanto false quanto di azioni realmente avvenute ma “ricostruite”).

La cosa importante (per quanto mi riguarda, forse la più importante) è però che Benedetta Tobagi non esita ad esporre ed a proporre chiaramente il suo punto di vista, non finge di avere uno sguardo neutro ma non cerca nemmeno di nascondere che il suo è un punto di vista femminile, uno sguardo femminile che, in quanto tale, riesce a cogliere e ad evidenziare aspetti che troppo spesso sono stati trascurati – o perchè proprio non visti o perchè per motivazioni varie sono stati negati – se non addirittura taciuti ad arte.

In questo libro struggente ed emozionante, Tobagi le donne della Resistenza non si limita a nominarle (magari soltanto con il loro nome di battaglia, come spesso succede in altre pubblicazioni). Quelle che nomina ce le fa conoscere una per una e da vicino, ci fa conoscere la loro collocazione sociale e così apprendiamo che tra di loro ci sono borghesi e proletarie, donne del nord e donne del sud, sofisticate donne di città come Carla Capponi (nome di battaglia Elena) un po’ snob, famiglia cosmopolita, antenate inglesi e tedesche, bella casa con mobili antichi… e contadine delle Langhe; laureate ed intellettuali e donne semianalfabete; cattoliche che impugnano le armi e comuniste che scelgono la resistenza civile…insomma: c’è di tutto.

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Per parlare adeguatamente di questo libro non basta certo un post. Ho potuto accennare e purtroppo solo molto superficialmente ad alcuni dei temi trattati dall’autrice.
Ce ne sono ancora due, però, di cui sento il bisogno di dire e che mi sono riservata per la chiusura. Posso soltanto sfiorarli, ma nel libro se ne parla diffusamente.

Uno è quello della violenza sessuale sulle donne di cui, per decenni, non si parla. “Nulla aveva preparato gli studiosi e il pubblico alle dimensioni reali del fenomeno della violenza carnale impiegata come arma contro le resistenti, armate e non, o presunte tali. Quando finisce la guerra, infatti, delle partigiane violentate non si parla, a parte pochissime eccezioni.”. Le donne tacciono, e non è difficile capire il perchè. Il silenzio delle donne: alcune – poche – parlarono solo quando, ormai anziane, erano rimaste sole perchè tutti i propri familiari erano ormai morti. La stessa Teresa Mattei (la più giovane tra le 21 elette all’Assemblea Costituente del 1946) è stata zitta per decenni. Per parlare aspetta che siano morti i genitori ed il marito. “Ormai anziana, decide di condividere anche quel pezzo della sua storia in un’intervista televisiva con Gianni Minà nel 1997 (la stessa trasmissione in cui, disarmante, raccontava di mettersi il rossetto solo per fare gli attentati).”

Riassumo grossolanamente dicendo che se le donne tacciono è per gli stessi motivi per cui ancora oggi tante donne non denunciano le violenze subite ma l’argomento è, nel libro, esplorato in profondità.

Altra questione spinosissima e tabu che ricade nel filone “violenza sessuale”: – le molestie di cui furono oggetto alcune militanti da parte dei loro capi partigiani

Il secondo grande tema è ciò che accadde dopo la fine della guerra: la delusione, la memoria corta su ciò che avevano fatto le donne, quello che la storica Anna Bravo ha chiamato “il daltonismo di genere”. Non a caso tra gli ultimi capitoli del libro di Benedetta Tobagi due sono intitolati “La tristezza della Liberazione” e “Zitte e buone”.

La gioia per la vittoria e la fine della guerra si mescola subito al rimpianto, le donne sentono che si è concluso un tempo irripetibile. La spinta possente per ricacciare le donne entro i confini angusti dei ruoli consueti si manifesta subito. L’epurazione delle donne dalla memoria pubblica della guerra partigiana comincia proprio dalle sfilate della Liberazione (le stesse considerazioni di Tobagi fa Miriam Mafai nel libro Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale del quale ho parlato >>qui).
Le donne pagano a caro prezzo il fatto di essersi spese per la Resistenza. Molte di loro pagheranno con la solitudine e la difficoltà se non l’impossibilità di trovare un compagno, formare una famiglia, ricostruirla quando il compagno è morto in guerra. Sono rispettate (non sempre) ma in ogni caso considerate persone strane.
“Il fascismo è finito, ma il patriarcato è ancora in gran forma”, chiosa Benedetta Tobagi

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Voglio chiudere questo post con l’elenco delle donne Medaglie d’Oro della Resistenza. L’elenco è corto (ed il grassetto della citazione è mio)

“Sono diciannove le donne decorate con la medaglia d’oro per il loro contributo alla Resistenza, di cui solo quattro viventi. Per le istituzioni, insomma, la partigiana migliore è quella morta.

Le 19 donne italiane decorate con la Medaglia d’Oro al valore militare (1943 – 1945) tra cui 15 alla memoria:

Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Livia Bianchi, Gabriella degli Esposti in Reverberi, Cecilia Deganutti, Anna Maria Enriquez Agnoletti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Norma Pratelli Parenti, Rita Rosani, Modesta Rossi Palletti, Virginia Tonelli, Iris Versari.

Le donne decorate in vita: Gina Borellini (1924-2007), Carla Capponi (1918-2000), Paola Del Din (1923 – vivente), Vera Vassalle (1920-1985). (Fonte: Associazione Nazionale Combattenti FF.AA. Regolari Guerra di Liberazione)

Ed infine, un aneddoto amaramente significativo: nel 1953, quando si presentò per la consegna della Medaglia d’argento al valor militare, la partigiana Lucia Ottobrini, GAP “Antonio Gramsci”, la gappista più odiata dal capo della Gestapo a Roma Kappler l’allora Ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani, sorpreso di trovarsi di fronte a una donna le chiese:

“Lei è la vedova del decorato?”
La Ottobrini rispose: “No, la decorata sono io”.

Non credo l’episodio abbia bisogno di essere commentato.

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Qualche spunto da cui partire per chi volesse approfondire il tema delle donne nella Resistenza:

  • Intervista a Benedetta Tobagi in cui viene evidenziata la coralità dell’impegno femminile durante la Resistenza ma anche la coralità dell’impegno di tre generazioni di ricercatrici su questo tema. Video breve ma molto interessante
  • Il Documentario di Liliana Cavani La donna nella Resistenza del 1965. Un filmato prezioso che dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole. Niente retorica ma fatti. In esso compaiono anche, e vengono intervistate, parecchie delle donne che ritroviamo oggi nel libro di Tobagi
  • La Resistenza delle donne – Conversazione con Benedetta Tobagi [podcast] su valigiablu >>

Autore: Gabrilu

https://nonsoloproust.wordpress.com

3 pensieri riguardo “LA RESISTENZA DELLE DONNE – BENEDETTA TOBAGI”

  1. Di Benedetta Tobagi ho letto il libro sulla strage di Brescia, documentato come un saggio e narrato come un romanzo, veramente bellissimo. In questo spero si parli anche della grandissima Tina Anselmi (Gabriella), alla quale in occasione della morte ho dedicato ben tre post, perché tutta intera in un post solo, una donna come quella non ci può stare.
    PS: ma non è mica vero che staffetta si usa solo per le donne: esattamente come guardia e vedetta, si usa per chiunque svolga quella funzione.

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  2. Grazie per questo splendido articolo. Credo che libri come questo siano oggi necessari non solo per fare luce su molte questioni del passato, ma anche, appunto, per riabilitare il ruolo delle donne nella Resistenza. E per dare una bella scossa alla memoria corta che affligge questo paese. Grazie e ancora grazie, anche per la sintesi così accurata e ricca di riferimenti.

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  3. Ti ringrazio anch’io, e leggerò presto questo libro e altri di Benedetta Tobagi. Devo fare una confessione: non ho mai letto nulla di suo (anch’io, credo, ho sempre pensato, sbagliando, di sapere quantomeno tutto il necessario, e ovviamente non è così).

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